2022-06-08
La serie perfetta? È quella sui gangster di Birmingham con i capelli rasati
Peaky Blinders: Thomas Shelby (BBC)
«Peaky Blinders», da fenomeno di nicchia, in 9 anni ha stregato persino Stephen King e David Bowie. Lanciando anche una moda.Un’ultima stagione, un finale inarrivabile dove niente - non la colonna sonora, non il cast né la scenografia - è al di sotto della perfezione. Peaky Blinders, la serie che ha messo Birmingham sulle mappe televisive, è giunta al termine. Il sesto capitolo, quello conclusivo (ma non per davvero, ché siamo nell’era degli spin-off e dei prequel e poi dei sequel), sarà disponibile su Netflix questo venerdì. Sei episodi, quasi sette le ore di girato. L’ultima volta di Peaky Blinders, piccolo gioiello intagliato da Steven Knight, ha la stessa formula delle stagioni passate e la stessa capacità di riempire il tempo. Thomas Shelby, il gangster di Cillian Murphy, gipsy di origini irlandesi, non ha più una pistola puntata alla tempia. È solo, oggi, combattuto. Brama il potere, lo insegue. Eppure è deciso a redimersi. Thomas Shelby, con la sfumatura alta che i ragazzini d’Inghilterra hanno imparato a pretendere dai propri parrucchieri, è alla ricerca disperata di un equilibrio che gli consenta di affrancarsi dal proprio personaggio ormai stanco, di domare i propri lati oscuri per muoversi nella luce. Ma non c’è retorica nel suo tentativo di liberazione. Peaky Blinders, stagione sei, è un capolavoro dove nulla è lasciato al caso, dove le parole non sono sprecate ma legate fra loro in dialoghi memorabili. È il trionfo della tecnica, di una dimensione scenica che si fa teatrale senza perdere con ciò il proprio fascino popolare. È Cillian Murphy al suo meglio, è Tom Hardy di ritorno. È riuscita, in una parola. E la qual cosa, benché la formula magica del successo televisivo sia ormai nota, non è mai da darsi per scontata. Peaky Blinders, che nei nove anni dal suo esordio è diventata un fenomeno culturale senza confini geografici né limiti sociali («Sto guardando una serie fighissima chiamata Peaky Blinders», avrebbe twittato Stephen King nel corso della prima stagione), è una perla rara: una fra le poche, pochissime serie abbastanza coraggiose da includere in sé ogni elemento foriero di qualità. Verosimiglianza, dinamismo, adrenalina sufficiente a trasformare in strazio l’attesa del nuovo episodio, la volontà di tenersi alla larga dai dettami del politicamente corretto, dalle mode, per crearne di proprie. Peaky Blinders è la voce delle classi inferiori, di una Birmingham dimenticata da Dio, l’eco delle guerre e di donne capaci di stare al comando. Avrebbe potuto, dunque, scomodare parole come «rappresentanza», parlare di «questione femminile». Avrebbe potuto avanzare pretese intellettuali. Invece si è limitata ad essere quel che è, la storia ruvida di una famiglia criminale schiacciata fra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Steven Knight l’ha scritta di getto, mescolando ai suoi ricordi di bambino, alla storia della propria famiglia, la Storia vera, con la «S» maiuscola, e a questo un po’ di finzione. Gli Shelby, la gang decisa a governare le attività criminali della Birmingham degli anni Venti, non è esistita, non davvero. Ma nelle gesta violente di quei ragazzotti risuonano i racconti dello zio paterno, membro a suo tempo della banda nota come Peaky Blinders. Li chiamavano così, «paraocchi appuntiti», giovani in carne ed ossa con l’abitudine di nascondere nella tesa del proprio berretto una lametta. Portavano in testa la propria arma, un fatto, questo, che Knight, allora bambino, non avrebbe più dimenticato. Gli Shelby, con Cillian Murphy a capitanarli, li avrebbe dipinti così. E, sullo sfondo assolutamente realistico di un Paese dilaniato dalle guerre, li avrebbe fatti muovere assieme ad altri: personaggi strabilianti, ben scritti, personaggi tridimensionali affidati ad attori fra i più blasonati (una menzione speciale va, di diritto, ad Adrien Brody che nella serie ha interpretato, con tanto di scene girate in dialetto stretto e mano a conchetta, un mafioso di origini siciliane). Leonard Cohen è capitolato davanti a tanta perfezione televisiva. David Bowie ha chiesto che Knight usasse la sua musica come colonna sonora. Brad Pitt si è detto fan, e Julia Roberts e Snoop Dogg ed Ed Sheeran. Una linea di vestiti è stata lanciata sul mercato e i ragazzini di mezzo mondo hanno deciso di tagliarsi i capelli così come sono stati costretti a fare gli attori: con la sfumatura alta e la riga decisa. Ci si potrebbe fermare ad interrogarsi sulle ragioni profonde di un successo tale, e scoprire che la serie è la prima ad utilizzare (magistralmente) gli artifizi dei gangster movie statunitensi per raccontare un tessuto sociale diverso, britannico, europeo. Davanti a Peaky Blinders, alla prima come all’ultima stagione, non c’è minuto che possa essere impiegato per ragionare d’altro che degli Shelby. E, se per caso si riesce a portare a termine l’impresa e afferrare un pensiero fugace, quel che riempie il cervello sovraeccitato dello spettatore è il calore di una promessa. «È la fine dell’inizio, piuttosto che l’inizio della fine», ha giurato Steven Knight, vagheggiando di un film, da prodursi nel 2023, e di «alcuni» spin-off.