2022-10-22
La scienza si censura per paura del razzismo
Surreale articolo di Nature sui pericoli della genetica: per evitare che gli «estremisti di destra» la sfruttino, gli autori criticano l’accesso gratuito agli studi e chiedono di farli revisionare da esponenti delle minoranze. Sconfessando i valori della libera ricerca.Credevamo che la scienza si fondasse sulla trasparenza dei dati, sulla verificabilità degli esperimenti, sul coinvolgimento del pubblico. E che non si occupasse di politica. Ci sbagliavamo. Perché adesso, per paura di fornire pretesti ai razzisti, gli esperti sono pronti a sconfessare secoli di epistemologia e a sottoporsi al vigile scrutinio dell’etnicamente corretto.Sull’ultimo numero di Nature, è uscito un surreale articolo, vergato da quattro genetisti - Jedidah Carlson, Brena M. Henn, Dana R. Al Hindi e Sohini Ramachandran - che si dicono molto preoccupati per il frequente utilizzo «della letteratura scientifica primaria come un’arma da parte dell’estrema destra». Due di loro, Henn e Ramachandran, sono rimasti sconcertati dal fatto che i loro scritti siano stati citati da gruppi di suprematisti bianchi. Addirittura, avrebbero ispirato Payton Gendron, il diciottenne che, lo scorso maggio, aveva freddato dieci persone di colore in un supermercato a Buffalo, vicino New York.La reazione più ragionevole sarebbe domandarsi cosa diavolo c’entrino onesti e stimati professionisti, con i deliri di individui rabbiosi e farneticanti. Si può ritenere che esista una specie di responsabilità oggettiva degli scienziati, se qualcuno distorce il lavoro che svolgono? Affermarlo significherebbe adottare una logica perversa, da ddl Zan, la legge che voleva punire le libere opinioni, qualora, a un giudice, fossero risultate «atte a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Un po’ come condannare Friderich Nietzsche perché piaceva ai nazisti. I genetisti di Nature, però, non paiono rendersi conto del terreno minato su cui camminano. Così, tirano fuori un’idea che sarebbe solo bizzarra, se non fosse perniciosa: «La crescita delle pubblicazioni open access», lamentano, «sta rendendo più facile per i non scienziati avere a che fare con quelli che sono essenzialmente club di giornali online. Le piattaforme social, come Twitter e Facebook, consentono ai non specialisti di comunicare direttamente gli scienziati e di disseminare le loro personali interpretazioni delle ricerche». Ora, è indubbio che il Web abbia contribuito a eliminare una sana mediazione da parte di tecnici e istituzioni, scoperchiando il vaso di Pandora del flusso incontrollato di bufale e vaniloqui. Ma la soluzione al dilettantismo cronico è ridurre l’accessibilità della produzione scientifica? Cassare dalla Rete i preprint, fino alla revisione paritaria? Impedire alla gente di comunicare con i «competenti»? Riservare certe questioni alle élite accademiche, mentre il popolino stupido si limita a restare sempre allegro, ché il nostro piangere fa male al re? Questa non è democrazia, la quale promuove la diffusione della conoscenza e la partecipazione alla cultura. Ma non è nemmeno scienza, il cui metodo non si basa sull’arroccamento, ma sulla condivisione. La scienza non si tappa la bocca da sé; semmai, etica e deontologia la aiutano a individuare i confini oltre i quali la sua attività minaccia di trasformarsi in una trappola per l’uomo. Le distorsioni del sapere, tra l’altro, non sono un’esclusiva della plebaglia ignorante e dell’estrema destra. Per dire: al progetto Manhattan, il programma per la costruzione delle bomba atomiche che sarebbero state sganciate su Hiroshima e Nagasaki, parteciparono i più prestigiosi e filantropici luminari dell’epoca, ciascuno in buona fede: da Niels Bohr a Enrico Fermi, mentre Albert Einstein scrisse una lettera a Franklin D. Roosevelt, chiedendogli di accelerare la ricerca sulle armi nucleari. E gli esperimenti di guadagno di funzione sui patogeni, in voga nel laboratorio cinese di Wuhan, sono tornati alla ribalta a pandemia ancora in corso: l’università di Boston ha creato un ceppo di Sars-Cov-2 letale per l’80% delle cavie a esso esposte. Proprio perché l’impresa scientifica viene condotta in virtù di criteri di merito, piuttosto che inseguendo la mania delle quote razziali, suscita ilarità anche l’altro corno dell’argomentazione di Nature. I genetisti propongono che «i team scientifici includano e siano guidati da persone provenienti da gruppi danneggiati dalla scienza usata come arma». Inoltre, i comitati che supervisionano gli studi biomedici con partecipanti umani dovrebbero elaborare valutazioni «più esplicite di rischi e benefici per gruppi che vanno oltre quelli immediatamente coinvolti nel campionamento del Dna o in altri interventi». E dove dovremmo arrivare? Chiamiamo africani e asiatici, per stabilire se qualche scoperta è in grado di alimentare le convinzioni dei neonazi? Abortiamo uno studio, se un board di burocrati stabilisce che esso può ledere la reputazione delle minoranze? Se una parte del pubblico non capisce o mistifica la scienza, non bisogna né rendere quest’ultima più esoterica, né purgarla dei contenuti politicamente scorretti. Ci si deve sforzare di comunicare di più e meglio. Ed eventualmente, accettare il pericolo che pochi idioti la strumentalizzino, pur di non tagliare tante altre teste pensanti. Quella della censura - o, peggio, dell’autocensura - sarà anche una strada lastricata di buone intenzioni. Ma alla fine, porta all’inferno.
Matteo Salvini e Giorgia Meloni (Ansa)