
Dopo gli orrori del Novecento, abbiamo provato a cancellare violenza e odio. Ma ora siamo giunti all'eccesso e consideriamo patologico il conflitto. Una delle forze più potenti della vita, di cui non possiamo fare a meno e che dobbiamo imparare a gestire.È una segnaletica del dolore quella espressa delle parole e i gesti dei bulli. Sono segni di rabbia o disperazione, non parole dotate di senso. Quelle non le possiedono ancora, non le hanno mai avute. Comunque non è davvero per il voto sul registro che picchiano il professore, o perché veramente odiano a morte il compagno più debole che cancellano la lavagna con la sua maglietta. Tecnicamente questi sono acting out, agiti che vengono da infelicità profonde, in un'esistenza priva di strutture e orientamenti motivanti. Consapevolezza e parola non ci sono. Se qualcuno potesse davvero ascoltare le loro rabbie, la loro infelicità, in quello sprofondare all'indietro nella regressione personale e collettiva (che in modi diversi ci riguarda tutti), udrebbe forse una richiesta d'aiuto, di incontro.Sentirla per noi oggi è difficile perché abbiamo orrore e paura della nuda aggressività. Anche se poi ci cattura quella grondante gel dei talk show, o dei politici, quando ci viene servita come spettacolo per attirare la nostra attenzione. Lusingando e nutrendo così le nostre parti peggiori: volgari e violente come le loro, ma anche espressione del club degli aggressivi affermati. Che però non riconoscono nessuna parentela tra sé e quei bulli privi di parole e di uso di mondo.Il fatto è che in questo pezzo di storia dopo l'ultima guerra mondiale (in fondo brevissimo, quindi poco significativo), abbiamo prima dimenticato e poi addirittura vietato di ricordare e trasmettere a chi non ha ancora le proprie parole, cos'è e a cosa serve l'aggressività. Dopo due guerre mondiali, i campi di sterminio, con i gulag ancora attivi in Urss, era anche naturale trasmettere l'avversione per la violenza, l'aggressività, l'odio, sperando così di rafforzare il polo delle pulsioni opposte: quelle dell'amore.Il risultato però di questa rimozione fu che una delle più potenti forze della vita, il conflitto e l'aggressività, venne rimossa dal campo della vita e della coscienza e ricacciata nell'inconscio. Relegata ai filmati sul mondo animale e considerata patologia fra gli uomini. La realtà è invece che di tutto ciò che ha una funzione nel mondo vivente non possiamo fare a meno. E anche se nessuno me lo dice, quando addento una mela esprimo, oltre che la fame, aggressività: per esempio nel mordermela, mangiarmela, e ridurla a torsolo, che butterò via. Tutta questa parte di piacere distruttivo, del mangiarmi la mela è inseparabile dalla parte costruttiva: appunto il mangiarmela, e godermi questa esperienza elementare. Se poi la mia aggressività, deplorata, sparisce del tutto, è un affare per chi mi fornirà subito la mela spoltigliata in una barretta (e trasferisce così l'aggressività alle macchine che me la preparano), ma è un disastro per il mio benessere complessivo. A cominciare dalla mia capacità di intervenire personalmente, creativamente e fisicamente, sul mondo, modificandolo.Il divieto di ogni aggressività è insomma un affare per il mondo produttivo e finanziario, e una grave perdita di capacità di generare energie, forza e salute per la persona umana. La caduta della spinta riproduttiva e della natalità è legata allo stesso fenomeno: nell'atto sessuale gli aspetti e le dinamiche biologiche, comportamentali e affettive di carattere aggressivo sono molteplici.Dopo il trauma dei totalitarismi e della guerra, il mondo occidentale in particolare, ha trasferito il monopolio della violenza alle macchine, produttrici di beni di consumo, ma all'occorrenza anche di micidiali armi di distruzione. L'uomo viene così espulso dal gioco fisico, psichico e simbolico della lotta. L'aggressività, rimossa dalla coscienza e cacciata nell'inconscio, è riservata alla tecnica, come altri aspetti fondamentali della vita umana.È in quel luogo oscuro e incontrollato che diventa mostruosa, e incontenibile. L'energia prima investita nel conflitto si rivolta così contro l'uomo stesso, producendo malattie autoimmuni, molti disturbi psichici e tutte le malattie non trasmissibili (Ncd, non-communicable disease, oggi prima causa di morte per malattia). Il bullismo non è che la minima parte (anche se umanamente devastante) di questo processo antropologico.Il rifiuto di ogni forma aggressiva, con la sua rinuncia ad educarla in quanto intrinsecamente «cattiva», priva la vita umana di una forza invece indispensabile. E dimentica un insegnamento su cui è costruita l'intera civiltà occidentale. Quello del filosofo greco Eraclito, che nel periodo di fondazione dell'Occidente ricordava come Polemos, il conflitto, è il generatore di ogni cosa, di tutto ciò che vive. La storia umana non si sviluppa proclamando verità eclatanti e astratte, ma mettendo in contatto forze e esperienze opposte. La pace, nel mondo e dentro di noi, nasce dall'energia sprigionata dall'accettare e superare questo problematico incontro, altrimenti è la guerra: la scissione personale e il caos sociale. Non troppo paradossalmente, anche i gesti che hanno tanto disorientato nelle ultime cronache del bullismo sono disperati tentativi di incontrare l'altro: il prof nel suo potere e distanza, il compagno debole nella sua debolezza. Incontri nei quali, come tra bambini ancora piccolissimi, ognuno porta ciò che ha: uno una ciliegia e l'altro tira un sasso.Ma loro hanno solo questo: sé stessi e rabbia, aggressività. Non un granché, tuttavia energie che finché riescono a dirigersi verso un altro nell'ambivalenza dell'odio/amore e a non rivoltarsi contro di sé in forma di depressione o autodistruzione, hanno ancora possibilità di trasformarsi e costruire. Per poter educare e trasformare l'aggressività però sarebbe necessario riconoscerne il senso, che è sempre quello su cui insisteva Eraclito «l'ombroso»: non si può liquidarla con l'«eh, ma non si deve» del perbenismo tranquillista. Lo sanno anche loro che non si deve; fanno così perché non hanno altro, al momento, che quella rabbia, quella solitudine, e quella violenza.Si potrebbe almeno cercare di ascoltare quel dolore, quel pugno, quel linguaggio disperato. Allora si sentirebbe, forse, un: «Vedimi, guardami, fai qualcosa. Per me. Non andare avanti perso nei tuoi programmi, le tue circolari, i tuoi registri, come se loro fossero vivi e io non esistessi». Pensate che siano elucubrazioni da psicoanalista, teorie, letteratura? Non è così. È tutto il resto che è astratto: il rendimento, il programma, il profitto, il voto.Se non c'è l'incontro non c'è niente: nessuno può imparare né insegnare. Come ha spiegato Martin Buber, se non c'è il Tu, se l'altro non può diventarlo, l'Io è solo una figura retorica, una finzione, una posizione burocratica, e non accade niente. L'incontro però, indispensabile ad ogni trasformazione, è una battaglia, in cui ognuno riconosce il valore e il senso dell'altro, come nel Mahabarata. È in battaglia che il giovane Arjuna impara, dalla voce del dio Krishna, che deve combattere. Quindici, venti anni di scuola per un giovane o diventano almeno un combattimento (anche con sé stesso) o sono niente. Non puoi passare quindici o vent'anni, la gran parte della tua giovinezza, per «imparare a produrre», «diventare una risorsa» o altre idiozie del genere. Intanto perché l'imparare come e cosa produrre cambia in continuazione, e non occorre tutto quel tempo. Ma soprattutto perché a scuola devi imparare cose molto più profonde e decisive: a vivere, a farcela, ad amare, a incontrare, a dire la verità. A incontrare l'altro. Insomma a combattere. Tu ce l'avresti anche, la voglia di combattere. Ma nessuno la vuole. Anche molti professori, ai quali è invece indispensabile. Come lo era per il mio di greco, Pietro Scazzoso insigne grecista e pugilatore, che minacciava di prendere a pugni i suoi studenti, adoranti, se non rispettavano la metrica greca recitando l'Iliade, a memoria. Oggi combattere non è materia di studio. Anzi è da reprimere. È lì, e naturalmente fuori, nel mondo, dove tutti o quasi si comportano come i professori che non ti vedono, che parte l'acting out, il gesto disperato. E sei subito bullo. Forse per sempre.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





