Sulla revoca dell’immunità ad Alessandra Moretti il capodelegazione del Pd al Parlamento europeo Nicola Zingaretti ostenta apparente tranquillità: «Sono certo che Alessandra Moretti dimostrerà la sua correttezza e trasparenza rispetto ai fatti contestati. Continuo a pensare che già ora, dopo i chiarimenti prodotti, c’erano tutte le condizioni per tutelare di più le prerogative dei parlamentari ma ora nella fase che si apre ci sarà l’opportunità per verificare la sua estraneità. Intanto ora il suo impegno continuerà nel lavoro parlamentare». Ma la realtà è che la posizione dell’ex governatore del Lazio, numeri alla mano, trova spazio solo tra i dem italiani. E spacca il campo largo, visto che la Moretti non è stata «protetta» dagli alleati del Movimento 5 stelle. A favore della revoca, che si inserisce nel quadro dell’inchiesta sul cosiddetto Qatargate, esplosa a dicembre 2022, hanno infatti votato 497 europarlamentari, mentre 139 hanno votato contro e 15 si sono astenuti.
Salva invece, come già avvenuto durante il voto in commissione Juri, Elisabetta Gualmini, con la cui immunità è stata confermata con 382 voti a favore, 254 contrari e 19 astenuti.
Un finale che si poteva intuire già dalle macroscopiche differenze che emergono dalla lettura delle due relazioni sottoposte al Parlamento.
Nel documento ratificato ieri in seduta plenaria si legge infatti che «l’indagine tenderebbe a dimostrare che diversi vantaggi specifici sarebbero stati proposti, accettati e persino richiesti dall’onorevole Alessandra Moretti». Inoltre, «secondo le informazioni fornite dal procuratore federale belga, presso i coimputati e altri indagati oggetto di indagine giudiziaria sarebbero stati raccolti diversi tipi di prove concernenti una serie di vantaggi specifici che Alessandra Moretti ha cercato e/o ottenuto; che tali prove sarebbero corroborate dai molteplici accertamenti effettuati dai servizi di polizia». «In cambio di tali vantaggi specifici», prosegue il documento, l’eurodeputata «avrebbe partecipato a eventi o incontri in cui avrebbe parlato a favore del Qatar dopo aver presumibilmente non solo ricevuto passivamente istruzioni, ma anche attivamente chiesto consigli su quali azioni intraprendere e cosa dire nei suoi interventi, dove e quando; che avrebbe contattato proattivamente anche altri deputati, offrendosi di sostituirli durante determinate votazioni relative al Qatar».
La relazione sulla Gualmini, aveva invece toni ben diversi: «Secondo la richiesta, nel corso di tale indagine sarebbe emerso che Elisabetta Gualmini potrebbe essere stata coinvolta in atti di corruzione, in quanto avrebbe accettato che la presunta organizzazione criminale esercitasse la propria influenza per ottenere la carica di vicepresidente del suo gruppo politico nell’ottobre 2022 e, in cambio, avrebbe esercitato l’influenza derivante da tale carica all’interno del suo gruppo politico per assecondare gli interessi della presunta organizzazione criminale». Ma, si legge, «il processo di nomina di un vicepresidente del gruppo politico in questione si basa, di fatto, su una procedura dettagliata e consolidata che si conclude con una decisione adottata dalla plenaria del gruppo in modo aperto e trasparente». Inoltre, «il presunto leader dell’asserita organizzazione criminale non ricopriva alcuna carica in seno al Parlamento a partire dal 1º luglio 2019 e, inoltre, apparteneva a un partito politico nazionale diverso da quello di Elisabetta Gualmini, ma, secondo quanto insinuato nella richiesta senza alcuna spiegazione ulteriore, avrebbe esercitato un’ampia influenza sull’intero processo di nomina di un vicepresidente di tale gruppo politico».
Se il difensore della Gualmini, il professor Vittorio Manes, ha espresso «forti perplessità su un procedimento penale che mai avrebbe dovuto nascere, su basi così inconsistenti ed evanescenti», la Moretti ha reagito alla decisione della plenaria facendone una questione politica : «Sono amareggiata, come ho già avuto modo di dire, perché gli elementi su cui era basata la richiesta erano stati da me già smentiti su base documentale e continuo a sostenere che il voto non abbia guardato tanto agli effettivi contenuti della richiesta, ma sia stato condizionato da strategie e convenienze politico-elettorali». Parole che, alla luce dei numeri emersi dalla votazione di ieri, sembrano molto una stoccata agli alleati del M5s. Ma il caso delle due europarlamentari del Pd segna anche una spaccatura nella sinistra europea. La co-presidente del gruppo The Left al Parlamento europeo, Manon Aubry, in conferenza stampa alla plenaria di Strasburgo, rispondendo a una domanda sulla possibile revoca dell’immunità parlamentare alle due colleghe italiane ha dichiarato: «Se i deputati al Parlamento europeo non sono colpevoli, allora lasciamo che la giustizia faccia il suo lavoro. Non saranno dimostrati colpevoli con un sistema giudiziario adeguato». Aggiungendo poi una stoccata che richiama il caso dell’immunità garantita a Ilaria Salis: «Non credo che si possa paragonare il sistema giudiziario belga a quello ungherese, per esempio. Per quanto ne so, non ci sono state questioni di Stato di diritto per quanto riguarda il Belgio». La Aubry ha anche polemizzato con i colleghi, chiedendo riforme «etiche»: «Quello che vedo è che gli eurodeputati cercano di proteggersi a vicenda, ma non sono disposti a fare le riforme necessarie, a partire da un organismo etico indipendente che chiediamo da anni, e da un vero e proprio divieto di viaggi pagati da qualsiasi tipo di entità, che il nostro gruppo ha di norma».
La Corte costituzionale ha stabilito che la riforma attuata dal governo del reato di traffico di influenze illecite è legittima. Con la nuova disciplina, il reato esiste solo se la mediazione è finalizzata alla commissione di un vero e proprio reato da parte di un pubblico ufficiale: non basta più una generica influenza o intermediazione.
La Corte costituzionale ha, invece, chiarito che la scelta del legislatore italiano non viola alcun obbligo internazionale e rientra nella sua piena discrezionalità, anche perché in Italia manca una legge sul lobbying capace di distinguere con chiarezza ciò che è lecito da ciò che non lo è.
Con questa decisione, molte condotte che in passato erano state considerate penalmente rilevanti oggi non lo sono più, perché il quadro normativo è cambiato. Una delle prime e più rilevanti ripercussioni della sentenza riguarderà anche le decisioni di patteggiamento che hanno coinvolto Luca Palamara. Caduta la principale accusa di corruzione, Palamara aveva patteggiato la residuale ipotesi di traffico di influenze illecite. Oggi, alla luce della nuova disciplina e della pronuncia della Corte, anche questa residua imputazione è destinata a cadere, aprendo la strada a una piena riabilitazione. Palamara, con La Verità, commenta i riflessi di questa decisione: «Non ho mai commesso alcun reato e mai avrei potuto farlo per il ruolo e le responsabilità ricoperte all’interno della magistratura. Dopo la decisione della Corte costituzionale, ho conferito mandato ai miei difensori per chiedere la revoca del patteggiamento, relativo a un reato che, a mio giudizio, era inconsistente sin dall’inizio e che oggi non esiste più nemmeno nei termini formali in cui era stato contestato».
L’ex presidente dell’Anm, impegnato nella stesura di un nuovo libro-intervista con Alessandro Sallusti, annuncia la sua prossima battaglia: «Questo percorso è solo all’inizio: chiederò la revoca di tutti i provvedimenti che mi hanno danneggiato, a partire da quelli adottati dall’Associazione nazionale magistrati fino a quello della Corte dei conti, incredibilmente fondato sul presupposto della commissione di un reato che oggi l’ordinamento non riconosce più. Il mio obiettivo è di fare definitivamente chiarezza su quanto accaduto nel maggio del 2019, una vicenda che ha avuto effetti profondi non solo sulla mia posizione personale, ma anche sul funzionamento di una parte della magistratura». Una questione che potrebbe entrare a pieno titolo nella campagna referendaria sulla riforma della giustizia.
E meno male che nessuno voleva più i giornali. La cessione di Stampa e Repubblica ai fratelli greci Kyriakou da parte di John Elkann ha improvvisamente acceso i riflettori sulla carta stampata. Leonardo Maria Del Vecchio, la Nem del gruppo veneto Save e il gruppo Caltagirone, almeno secondo le ultime indiscrezioni, sarebbero pronti a sacrificarsi per mantenere la famosa italianità delle due testate. Intanto, la vicenda si colora di assurdo con la Russia che dice la sua sulla libertà d’informazione in Italia e con il sottosegretario con delega all’editoria, Alberto Barachini, costretto a rintuzzare l’ingerenza di Mosca.
Lunedì l’ambasciata russa, con un post su Telegram, è entrata a scarponi uniti sulla vendita di quel che resta di Gedi, definendo Repubblica e Stampa «megafono di una sfacciata propaganda antirussa». Il governo non poteva tacere e Barachini ha risposto: «Dobbiamo rimandare al mittente con assoluta forza gli attacchi che sono arrivati dall’ambasciata russa. Il governo italiano sarà sempre dalla parte della libertà di opinione, dalla libertà delle testate giornalistiche del nostro paese e rimanda al mittente ogni tentativo di ingerenza, ogni tentativo di condizionare il nostro sistema democratico e giornalistico». La Russia è il Paese dove, nel 2006, è stata uccisa la reporter Anna Politkovskaja e nella classifica 2025 di Reporter senza frontiere è sprofondata alla posizione 171 (su 180).
Le trattative con i greci proseguiranno ancora per un paio di mesi. L’allarme che. secondo alcuni. dovrebbe risuonare sarebbe per la famosa «italianità» delle testate, tanto che nel Pd c’è anche chi ha chiesto che il governo blocchi tutto con il Golden power. Questo strumento, però, è stato pensato per i settori della Difesa e delle telecomunicazioni e, con la scusa del Covid, è stato allargato anche a banche e finanza. Su Stampa e Repubblica l’interesse nazionale non sembra evidente. Inoltre, se proprio si doveva ficcare il naso nella stagione di svendite di Exor, forse la cessione di Iveco agli indiani di Tata era più importante che assicurarsi che Carlin Petrini e Luciana Littizzetto possano scrivere i loro pensieri.
In ogni caso Gedi è controllata da Exor, che ha sede in Olanda, e questa migrazione fiscale degli Agnelli, come per Fca e Stellantis, non fu minimamente ostacolata da quello stesso centrosinistra che oggi parla di italianità dei giornali.
Italianità o meno, intorno ai due giornali si aggirano altri pretendenti. I bilanci sono in perdita, le copie vendute sono in picchiata (dimezzate in dieci anni), ma il peso politico in Italia non dipende dal numero di lettori. E allora ecco che Leonardo Maria Del Vecchio continua a seguire da vicino la partita editoriale e fonti vicine al figlio di Leonardo raccontano anche di un interesse per Rcs Mediagroup, sul quale ha già una certa influenza grazie al 10% in mano a Mediobanca.
Poi c’è Francesco Gaetano Caltagirone, editore di Messaggero, Mattino, Gazzettino e Leggo. Lunedì sera il presidente del Piemonte, Alberto Cirio, in assemblea alla Stampa, ha elencato tre possibili alternative per il giornale della Fiat: la cordata veneta di Nem, il gruppo Dogliani (autostrade e costruzioni generali) e Caltagirone. Se Nem è in campo da tempo, la famiglia Dogliani, secondo fonti vicine al gruppo cuneese, non è interessata ai giornali, mentre Caltagirone avrebbe sicuramente gradito maggiore discrezione.
Per l’editore romano, l’acquisto di Repubblica creerebbe problemi di Antitrust. Non così la Stampa, che ha una postura da foglio nazionale, ma viene comprato solo in Piemonte, Valle d’Aosta e Ponente ligure.
Quanto può durare John Elkann al vertice di Stellantis e di Exor, la holding di casa Agnelli? La conseguenza dell’imputazione coatta per dichiarazione fraudolenta imposta dal gip Antonio Borretta può avere conseguenze dirompenti. Infatti i requisiti di onorabilità sono difficilmente negoziabili nei Paesi del Nord Europa in cui l’erede di casa Agnelli ha spostato il core business dei suoi affari, ma soprattutto le sedi legali. Certo, l’Olanda non è come gli Stati Uniti dove chi commette reati contro il fisco finisce in manette, ma le accuse che il giudice ha rivolto a John Elkann non suoneranno come benemerenze neanche ad Amsterdam e dintorni.
L’imprenditore è accusato di avere ordito un piano articolato per evitare il pagamento delle tasse in Italia su «ingenti cespiti patrimoniali e redditi derivanti da tali disponibilità» e, «sotto il profilo ereditario», gli viene contestata «l’omessa regolamentazione della successione di Marella sulla base dell’ordinamento italiano», obiettivo raggiunto apparecchiando una finta residenza in Svizzera per la nonna. Un’«esterovestizione» che gli avrebbe consentito di cancellare la madre Margherita dall’asse ereditario: infatti nella Confederazione elvetica il testamento della nonna, che escludeva la figlia, era perfettamente valido. In Italia no. Per il giudice, lo spostamento della residenza a Lauenen, vicino a Gstaad, ha avuto come ultima e gradita ricaduta il mancato versamento (milionario) dell’imposta di successione. Un risparmio che, a giudizio della Procura, era, invece, la principale finalità degli indagati.
In ogni caso, a far saltare i piani dei due presunti complici ci hanno pensato gli avvocati di Margherita, che hanno denunciato l’ipotetico progetto criminale e le capillari indagini della Procura coadiuvata dal Nucleo di polizia economico-finanziaria di Torino ritenute esaurienti anche dal tribunale («Non risultano necessarie ulteriori indagini da compiere», ha scritto Borretta). Il gip ricorda che John Elkann, «con lo scopo di “supportare” la residenza (fittiziamente) stabilita in Svizzera di Marella Caracciolo, aveva, fra le altre cose, assunto alle proprie dipendenze, ovvero in seno alle società Fca security e Stellantis Europa spa, assistenti e collaboratori di Marella e stipulato contratti (fittizi) di locazione/comodato aventi ad oggetto immobili siti nel territorio nazionale, di cui la Caracciolo deteneva l’usufrutto e concretamente utilizzati dalla stessa».
I lavoratori assunti dalle società automobilistiche, in realtà collaboratori di Marella Caracciolo, non potevano figurare come dipendenti di quest’ultima poiché in tal modo sarebbe stata disvelata la sua effettiva residenza in Italia.
Al termine dell’inchiesta torinese, dopo essersi trovato scoperto, Elkann ha provato a scendere a patti: si è detto pronto a svolgere lavori socialmente utili per mondare il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (il mancato pagamento della tassa di successione), mentre per l’iniziale accusa di dichiarazione fraudolenta, la Procura aveva riqualificato i fatti in un’infedele dichiarazione. Nel primo caso, chi commette il reato produce documentazione falsa per abbattere l’imponibile, nel secondo si limita a riferire all’Erario un reddito inferiore a quello effettivo. Insomma, l’immagine di John usciva un po’ ammaccata, ma non distrutta.
Adesso, però, il gip consegna alle cronache un ritratto di Elkann quasi machiavellico, che insieme con il commercialista di fiducia Gianluca Ferrero, avrebbe ingannato non solo lo Stato italiano, ma anche i fratelli e persino il notaio svizzero che aveva depositato post mortem, in qualità di esecutore testamentario, le ultime dichiarazioni dei redditi di Marella. E i notai svizzeri, per definizione, non sono considerati propriamente dei sempliciotti.
Secondo Borretta, a carico di Urs Robert Gruenigen «non è stata riscontrata alcuna concreta partecipazione nella predisposizione di quegli strumenti/escamotage utilizzati per esterovestire e poi “presidiare” la formale residenza estera di Marella Caracciolo». L’unico appunto che viene fatto al professionista, già dalla Procura, è di non avere «richiesto chiarimenti» dopo avere ricevuto «nel corso del tempo indicazioni, informazioni ed elenchi riguardanti il patrimonio della Caracciolo, talvolta difformi e contraddittori». Secondo il gip, però, quando riceveva «indicazioni non veritiere», più che «concorrere attivamente all’attività fraudolenta» posta in essere, a giudizio degli inquirenti, da Elkann e Ferrero, «si limitava a ricevere dagli altri indagati le informazioni, per poi trasfonderle acriticamente negli atti a sua firma».
Borretta, nell’ordinanza datata 9 dicembre, fa anche riferimento a «una massiccia serie di condotte ascrivibili» a John, che sarebbero «espressione di pieno coinvolgimento nell’attività fraudolenta», a partire dall’«attività di “presidio” della residenza estera della nonna».
Ma per quanto riguarda le dichiarazioni «svizzere» (riqualificate da fraudolente in infedeli), secondo la Procura non sussisterebbero «gli estremi per l’esercizio dell’azione penale». Il motivo lo riassume il gip: «Sarebbe “difficile ipotizzare” il concorso nel reato fiscale relativo alla posizione di un contribuente già defunto (Marella Caracciolo), peraltro materialmente commesso da un soggetto non coinvolto nella frode (il notaio Gruenigen)».
Per Borretta, però, «la tesi non è convincente» per due ragioni. Innanzitutto perché il reato da lui ravvisato, quello di dichiarazione fraudolenta, «si perfeziona sì con la presentazione della dichiarazione», ma «prima è preceduta dalla predisposizione di attività fraudolenta». Anche nel caso in esame l’atto depositato dal notaio è «successivo alla realizzazione degli artifizi e dei raggiri ideati ed attuati dai due predetti indagati (Elkann e Ferrero) in concorso con la defunta Marella Caracciolo» e «il loro», è la conclusione del giudice, «fu un contributo causalmente rilevante e, anzi, decisivo per l’azione criminosa».
Borretta, come detto, solleva pure un’altra obiezione: «Non si comprende poi in che modo possa ostare alla configurazione del concorso dei due indagati nella realizzazione del reato, la circostanza che un terzo concorrente nel reato, la contribuente Marella Caracciolo, fosse defunta al momento della presentazione della dichiarazione». Infatti, dopo la morte della donna, ad assumere «il compito di sottoscrivere e presentare le dichiarazioni dei redditi della donna» è stato il notaio.
I ragionamenti di Borretta si fondano su una precisa norma del codice penale: l’articolo 48.
«Le condotte di Gianluca Ferrero e John Elkann consistite nell’esterovestizione della residenza di Marella Caracciolo, nel presidiare il risultato e infine nel compilare la dichiarazione dei redditi di Marella e fornirla all’esecutore testamentario ai fini della presentazione delle predette dichiarazioni, rende i predetti “autori mediati” del reato […] in quanto soggetti che hanno, attraverso la “strumentalizzazione” del notaio, presentato dichiarazioni contenenti elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo». E chi è l’«autore mediato», anche nei reati tributari? «Chi con inganno determina in altri l’errore sul fatto costituente reato, fatto che l’autore immediato commette in buona fede», spiega Borretta. Anche perché la «posizione istituzionale» o le «qualità professionali» degli indagati potevano «suscitare ragionevole affidamento nel pubblico ufficiale».
Adesso si tratta di vedere se i prevedibili danni alla reputazione di John Elkann avranno anche conseguenze sulla fiducia che ripongono in lui soci, manager e azionisti.






