Davide Rondoni: «La destra ha l’egemonia. Ma la cultura non si fa soltanto con la politica»
Poeta, cattolico romagnolo anticlericale, presidente del Comitato per le celebrazioni a 800 anni dalla morte di San Francesco e autore di La ferita, la letizia (Fazi Editore), Davide Rondoni predilige i trasversalismi e rifugge le divisioni schematiche tra destra e sinistra. Soprattutto, rifiuta l’idea della «politica come banco di prova di tutto».
Davide Rondoni, lei sta con Marcello Veneziani o con il ministro della Cultura, Alessandro Giuli?
«Io sto con Davide Rondoni. Sono amico di Veneziani e anche di Giuli, così come ho tanti amici in ambienti culturali diversi dal mio perché ritengo la capacità di amicizia, che non coincide con il consenso, uno degli insegnamenti più preziosi».
Tornando a Veneziani e Giuli?
«Credo che Veneziani abbia il diritto di criticare, ma forse da un intellettuale mi aspetterei anche delle proposte. Perciò posso capire che di fronte a una critica senza appello il ministro abbia mostrato le unghie».
Ha torto Veneziani quando dice che con il governo Meloni per gli italiani è cambiato poco o nulla?
«Bisogna vedere quanto è largo il campo di osservazione. Per esempio, la posizione dell’Italia in Europa è più forte di prima e questo rappresenta una speranza per un’Europa altrimenti votata al fallimento. Poi mi pare che iniziative importanti siano state prese nel campo della lotta alle dipendenze e nell’attenzione ad alcune esigenze del ceto medio. Certo, occorre fare di più per incentivare i giovani che sono la vera questione dell’Italia di oggi. Su questo punto mi aspetto delle proposte. Soprattutto, confido in alcuni radicali cambiamenti della scuola e dell’università. Anche su questo l’iniziativa degli intellettuali sarebbe opportuna».
Veneziani esorta a dire e fare qualcosa di destra come, in campo opposto, Nanni Moretti invitava D’Alema a dire qualcosa di sinistra?
«Non credo che Veneziani sia così banale, credo che voglia spronare a un’accelerazione. Poi, insisto, non esiste una cultura di destra e una di sinistra».
Il fatto di appartenere alla stessa area elimina il diritto di critica?
«Intanto bisogna capire che cos’è un’area culturale. Esistono aree politiche in cui convivono culture molto diverse».
All’interno della destra ci sono culture differenti?
«Ovviamente. Ma noi analizziamo sempre la cultura dal punto di vista della politica, come se la cultura si compisse nella politica. Mentre invece è il senso critico nei confronti dell’esistenza. Per esempio, ci sono culture che riconoscono il trascendente e culture che non lo riconoscono. Oppure culture che vedono nello Stato il massimo livello della vita pubblica e altre no».
La critica di un intellettuale o quella di un giornale d’area possono essere fonte di arricchimento?
«Se sono intelligenti, certamente».
Come ha trovato la replica del ministro Alessandro Giuli?
«Giuli è un uomo che ama il gesto elegante».
Ottimo eufemismo.
«Ama i gesti un po’ esagerati che appartengono alla sua estetica. Quindi capisco che abbia voluto fare un gesto del genere in risposta a una critica assoluta e, per alcune cose che sta realizzando, un po’ ingenerosa».
Sarebbe stato un segnale di maturità raccogliere la provocazione e invitare Veneziani a suggerire delle riforme o delle iniziative soddisfacenti?
«Non siamo di fronte a due bambini, quindi è inutile dettare il manuale di comportamento».
Ha ragione Franco Cardini quando dice che non ci sono più i Giuseppe Berto e gli Alfredo Cattabiani e il livello intellettuale della destra è crollato?
«Non so a quale perimetro si riferisce Cardini. Come ho già detto non considero destra e sinistra come campi culturali, ma come campi politici. All’amico Cardini dico di stare attenti a non incorrere nel rischio che molti anziani hanno di idealizzare i tempi della loro giovinezza».
È inevitabile che dopo decenni di egemonia della sinistra un cambio di orientamento radicale comporti assestamenti e contraccolpi anche nell’area culturale di riferimento?
«Se ci fosse stata l’egemonia culturale di sinistra non ci sarebbe stato Berlusconi al governo per vent’anni e non ci sarebbe Giorgia Meloni adesso. C’era forse una maggiore organizzazione degli apparati, ma questo non è cultura».
La maggioranza silenziosa esisteva e non aveva voce se non al momento del voto.
«Alessandro Manzoni ci insegna che il succo della storia lo tirano Renzo e Lucia, due ragazzi del popolo, e non i direttori dei giornali. Questo è un avvertimento su ciò che consideriamo cultura. Penso che mia nonna Peppa fosse molto più intelligente sulla vita di tanti blasonati editorialisti di giornale».
Che opinione ha dell’ultimo raduno di Atreju?
«Non c’ero mai stato prima e quest’anno sono andato perché mi hanno invitato per una conferenza. Non mi permetto di dare giudizi assoluti, mi è parsa una manifestazione popolare».
Giordano Bruno Guerri dice che Meloni preferisce una squadra compatta «con una fede enorme nel silenzio assertivo». Per questo, davanti a una critica il ministro ha reagito in modo così duro?
«Mi sembra offensivo pensare che ci siano intellettuali che prediligono il silenzio assertivo. Faccio un esempio: all’ultima conferenza nazionale sulle dipendenze, Giorgia Meloni ha concluso il suo intervento citando un mio articolo in cui spronavo il governo a fare di più per i giovani».
Che cosa propone per i giovani?
«Constato un paradosso: i nostri giovani sono competitivi e vincenti in tutti gli sport, ma poi sembra che per lavorare a certi livelli debbano andare all’estero. Cioè: abbiamo ragazzi bravi, ma non li facciamo correre. Perciò, avanzo due proposte scomode. La prima: rivedere gli ordini professionali perché favoriscano i giovani invece di rallentarli. La seconda: togliere il valore legale al titolo di studio».
Con quale obiettivo?
«Riconoscere l’energia dei nostri ragazzi e non mortificarli. Invito Giuli, Veneziani e Cardini a unirsi in questa battaglia per una giovane Italia».
La Rai è il test del cambiamento prodotto da un governo: qual è il suo giudizio sulla Rai attuale?
«Mi pare di vedere qualche fiction di buona qualità ed esperimenti interessanti di nuovi programmi. Poi preferisco parlare di poesia più che di televisione».
C’era una volta la dinastia Agnelli, quella che ha dominato l’Italia per decenni. E poi c’era Maria Sole Agnelli, la più defilata, la più elegante, la meno interessata ai bulloni del potere industriale. Quella che, potendo sedersi al tavolo dove si decideva il destino della Fiat, preferì sempre un altro tavolo: quello della vita, della cultura, dei cavalli, dei comuni di Provincia, delle scuole da rimettere a posto. È morta ieri, a 100 anni compiuti, chiudendo in silenzio un capitolo laterale ma indispensabile della saga Agnelli.
Maria Sole a differenza di Susanna, non si è mai occupata attivamente del gruppo Fiat, nemmeno nei momenti più difficili, quelli delle crisi industriali, delle ristrutturazioni, delle notti lunghe in corso Marconi. Non per disinteresse, ma per scelta. Delegò tutto prima a Gianni e poi al nipote John Elkann con quella distanza gentile che è spesso più incisiva della presenza ossessiva.
Nata a Villar Perosa il 9 agosto 1925 Maria Sole arrivò al mondo quando il nome Agnelli era già sinonimo di potere. Mentre Gianni si preparava a diventare «l’Avvocato» e Susanna a frequentare la diplomazia e la politica nazionale, Maria Sole costruiva un profilo tutto suo. Moderna senza clamore, indipendente senza mai doverlo rivendicare. Non amava i riflettori, ma sapeva usarli quando serviva. E soprattutto sapeva spegnerli. La sua prima grande scelta di autonomia arrivò lontano da Torino e ancora più lontano dalla Fiat: l’Umbria. Dopo la morte del primo marito, Ranieri Campello della Spina, Maria Sole accettò una sfida che nessuno si aspettava: diventare sindaco di Campello sul Clitunno. Era il 1960, l’Italia stava scoprendo il boom economico e le donne in politica erano ancora un’eccezione. Lei vinse senza comizi, senza slogan, senza campagne elettorali. Ottocentocinquanta voti su 1.200 aventi diritto. Un plebiscito senza la Fiat sullo sfondo. Per dieci anni, fino al 1970, amministrò il piccolo Comune umbro con concretezza e buon senso: strade, scuole, valorizzazione delle Fonti del Clitunno, turismo culturale ed enogastronomico quando ancora non era una moda ma una necessità.
Accanto alla politica, un’altra grande passione: i cavalli. Una vocazione autentica. La sua scuderia divenne una delle più importanti del secondo dopoguerra italiano. Il purosangue Woodland la portò sul podio olimpico, con la medaglia d’argento nell’equitazione individuale ai Giochi di Monaco del 1972.
La famiglia rimase sempre il centro di gravità permanente. Dal primo matrimonio nacquero Virginia, Argenta, Cintia e Bernardino; dal secondo, con Pio Teodorani Fabbri, arrivò Edoardo.
Se c’è stato un luogo in cui Maria Sole ha esercitato un’influenza profonda e duratura, quello è stata la Fondazione Agnelli. Per 14 anni, fino al 2018, ne è stata presidente, guidando progetti su istruzione, cultura e ricerca. Lì, lontano dalle catene di montaggio e dalle assemblee degli azionisti, Maria Sole ha lasciato un segno concreto, puntando sulle scuole, sulle nuove generazioni, sulla qualità del sistema educativo. Un lavoro silenzioso, ma decisivo. Come lei.
Negli ultimi anni era tornata suo malgrado sotto i riflettori per una rapina choc nella sua villa di Torrimpietra, vicino a Roma. Un episodio di cronaca nera che aveva colpito l’opinione pubblica più per il nome che per i gioielli rubati. Lei, anche in quel caso, aveva attraversato l’evento con la stessa compostezza con cui aveva attraversato un secolo intero.
È Palazzo Sarcinelli a Conegliano a ospitare (sino al 22 marzo 2026) una mostra ricca di 80 opere dedicata a Bansky e al movimento della street art, dalle sue origini underground alla sua attuale consacrazione nel mondo dell'arte.
È una mostra di quelle che lasciano il segno l’esposizione allestita nelle sale di Palazzo Sarcinelli, un viaggio emozionale nel mondo della street art raccontato attraverso le opere di quegli artisti che hanno saputo trasformare un linguaggio espressivo marginale (e spesso illegale…) in una forma d’arte globale e universalmente riconosciuta.
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
La notte del 26 dicembre 1944 in Garfagnana i tedeschi e gli alpini della Divisione «Monterosa» colsero di sorpresa i «Buffalo Soldiers», gli afroamericani della 92ª Divisione di fanteria.
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.












