2024-04-29
La retromarcia (interessata) di Draghi e Giavazzi su debito e austerità
Francesco Giavazzi (Ansa)
L’ex premier e il suo consigliere smontano i dogmi economici che fino a ieri predicavano. In ballo ci sono la voglia di poltrone e i nostri risparmi privati.L’economista Giulio Sapelli: «Non aspettiamoci investimenti nella sanità o nella politica industriale. E intanto il nuovo Patto di stabilità ripropone ricette tecnocratiche già fallite: concede solo un po’ di tempo in più agli Stati».Lo speciale contiene due articoliMario Draghi, Francesco Giavazzi, Emmanuel Macron. Elencati in ordine di apparizione, cos’hanno in comune? Il fatto di aver fornito negli ultimi 15 giorni idee per il futuro dell’Europa, o meglio, dell’Unione europea.Ma c’è un vizio di fondo. Equivale a convocare i Borboni alla Bastiglia per avere idee sulla riforma della monarchia. O, più banalmente, affidare alla banda Bassotti la progettazione di un antifurto. In altre parole, se sei parte del problema, non puoi costituirne la soluzione.La storia di Draghi va dall’accordo del 1992 a bordo del Britannia, alla lettera della Bce al governo italiano dell’agosto 2011, al ruolo avuto nella gestione del «successo» greco tra 2012 e 2015, come presidente della Bce. Ricordiamo ancora le registrazioni delle riunioni dell’Eurogruppo, carpite dal ministro greco Yanis Varoufakis, quando chiedeva riforme deflazionistiche e la rapida vendita all’asta delle case ipotecate di famiglie e imprese greche.Da qualche mese è il candidato ricorrente a qualsiasi ruolo di vertice disponibile nelle istituzioni comunitarie e non solo. Dal Consiglio europeo, alla Commissione, alla Nato. Da settembre sta lavorando ad un rapporto sul futuro della competitività della Ue, commissionatogli dalla presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, e mercoledì 16 è intervenuto ad una conferenza sui diritti sociali nella cittadina belga di La Hulpe. Non proprio un’assise di primo piano, che infatti è passata inosservata sui principali media europei, ma non in Italia, dove una sapiente gestione mediatica l’ha fatto assurgere ad un ruolo di primissimo piano per qualche giorno.Non senza qualche malumore da parte di Enrico Letta a cui Draghi ha rubato la scena. Infatti, Letta proprio in quei giorni, ha presentato l’altro rapporto, quello sul mercato interno, richiestogli – con un curioso dualismo – dall’altro dioscuro delle istituzioni europee, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.Draghi presenterà il proprio rapporto soltanto a giugno, ma si è ricavato abilmente uno spicchio di palco per anticiparci di fatto la sua analisi della situazione e le sue soluzioni. È partito dell’ammissione del fallimento dell’approccio adottato nei confronti della competitività nella Ue. Una politica «beggar-thy-neighbor» (per stare meglio tu, frega il tuo vicino) dove centrale è stato il «perseguimento di una strategia deliberata volta a ridurre i costi dei salari gli uni rispetto agli altri che, combinata con una politica fiscale pro ciclica, ha avuto l’effetto di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale».Esattamente ciò che pochi economisti indipendenti in Italia e molti all’estero andavano dicendo da anni. Una feroce politica di svalutazione competitiva «interna» che ci ha impoverito tutti, perseguita con lo strumento delle riforme tanto care a Draghi. Vien da chiedersi di cosa si occupasse mentre quelle politiche fallimentari venivano inflessibilmente imposte. Purtroppo per lui, era proprio sul ponte di comando incaricato di gestire le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione. Tutta export, riforme deflazionistiche e materie prime a basso costo. La sua risposta alla doppia crisi del 2008-2012 è stato, nel 2015, sul filo della violazione dei Trattati, il programma di acquisto di titoli pubblici con una montagna di debito che è rimasta tutta interna al circuito del settore finanziario, con modesti o nulli effetti sull’economia reale.Poi è arrivata la sequenza da knock-out costituita da Covid e lockdown, transizione e crisi dei prezzi energetici e guerra ai confini della Ue. Ed è saltato il banco. Quindi è partita la corsa a trovare il capro espiatorio quando, se la Ue langue nei confronti internazionali, è a causa dell’impianto di regole che finora l’hanno governata.Draghi scopre che la Cina ci sta depredando, perché tutto ciò che serve per la transizione energetica – dalle materie prime ai prodotti finiti – è controllato da Pechino, che falsa la concorrenza con ingenti sussidi alle proprie industrie.Inoltre scopre che gli Usa cercano di attrarre le nostre migliori imprese manifatturiere e usano misure protezionistiche.I tre fili conduttori individuati da Draghi per superare lo stallo sono sfruttamento delle economie di scala, fornitura di beni pubblici europei e garantire la fornitura di materie prime critiche. Per procedere nella loro attuazione «non abbiamo il lusso di ritardare le risposte fino alla prossima modifica dei Trattati» e «dovremmo essere pronti a considerare di andare avanti con un sottogruppo di Stati». Perfettamente in coerenza con una certa allergia di Draghi ai tempi ed alle liturgie della democrazia.La maggior parte degli investimenti dovrà essere finanziata dai privati. Poiché «l’Ue dispone di risparmi privati molto elevati, ma sono per lo più incanalati nei depositi privati». E come intende incanalare questi risparmi? In modo forzoso? Perché noi alla magia dell’unione del mercato dei capitali non crediamo. È lo stesso pericoloso accenno fatto sia da Von der Leyen che da Macron. E tre indizi fanno più di una prova.Sorprende anche la «conversione» del professor Giavazzi – da sempre sostenitore dell’austerità espansiva – secondo il quale «occorre abbandonare l’idea che il debito sia solo un onere trasmesso alle generazioni future. Se indebitarsi oggi per investire, consentirà ai nostri nipoti di vivere in un continente libero e che cresce perché collocato sulla frontiera della tecnologia, ripagare il debito sarà un onere minore. Anche perché il debito pubblico non deve necessariamente essere ripagato: l’importante è ridurre il rapporto tra debito e Pil e questo dipende dalla crescita. Alla scadenza il debito pubblico può sempre essere rimborsato riemettendo altri titoli». Banalità sempre negate in passato, che oggi devono essere sdoganate perché c’è da risolvere uno dei (tanti) problemi dell’Eurozona: la Bce ha in portafoglio ancora qualche trilione di titoli pubblici e il Mes è disoccupato. Ecco allora riproporsi la vecchia idea dell’«agenzia europea del debito» che emetterebbe debito comune per rilevare i titoli in portafoglio alla Bce. Sorvolando sul fatto che non sarebbero comunque eurobond - perché non assistiti dalla garanzia solidale degli Stati membri, ma solo da una garanzia pro-quota – stupisce che Giavazzi non provi a risolvere questo problema, passando dalle forche caudine della riforma dei Trattati (che invece Macron ha avuto il coraggio di proporre), anziché riproporre veicoli usati e obsoleti. E anche qui c’è il risparmio privato nel mirino.Allo stesso modo, la nuova agenda anti-globalista di Draghi riassumibile dal motto «per competere con la Cina, dobbiamo fare come la Cina», serve oggi a tenerlo nel novero dei papabili per qualche poltrona di vertice. Ma dalle colonne di Politico.eu proprio giovedì hanno fatto sapere che nel Ppe non hanno alcuna voglia di cedere una poltrona così importante a chi è privo di una chiara lealtà politica. Allora, citando Piero Fassino, se vuole fare politica, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende. Da Bruxelles hanno fatto sapere che non c’è posto per i tecnici. Serve la Politica, quella che fonda sul consenso degli elettori.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-retromarcia-interessata-di-draghi-e-giavazzi-su-debito-e-austerita-2668006660.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="giulio-sapelli-se-alla-fine-faranno-i-bond-comuni-li-useranno-per-finanziare-la-guerra" data-post-id="2668006660" data-published-at="1714324006" data-use-pagination="False"> Giulio Sapelli: «Se alla fine faranno i bond comuni li useranno per finanziare la guerra» Professor Giulio Sapelli da storico ed economista, ci spiega se il nuovo Patto di stabilità è un passo avanti? «Non è un nuovo Patto ma un vecchio Patto di stabilità che concede più tempo agli Stati nei confronti della tecnocrazia. Un po’ come bollire la salamoia. Tutta la struttura del Patto rimane identica. Preoccupante è il solito codicillo sostantivo e compulsivo. Chi non raggiunge il limite del debito dovrà sottoporsi a cure fatte di imposte, tagli e riforme. Solite ricette di politica economica ordoliberista già fallite. Anche nel Fondo monetario internazionale si è aperta una discussione sul senso o meno di queste ricette. L’eventuale allungamento da quattro a sette anni del periodo con cui arrivare agli obiettivi non cambia granché. Soprattutto alla luce della profondità della crisi attuale e dei venti di guerra che impongono cambiamenti all’economia mondiale». Qualcuno immagina un debito comune europeo al posto dei debiti nazionali. Il cosiddetto momento Hamilton, sotto il quale avvenne una cosa analoga negli Stati Uniti d’America. «Prima di fare questi confronti bisognerebbe conoscere la storia. L’America era Repubblica federale che stava costruendo sé stessa partendo da Stati federati. Avevano ed hanno una Costituzione che l’Ue non ha. Le politiche economiche si fanno laddove ci sono delle costituzioni e c’è l’imperio della legge. L’Unione europea è un potere situazionale di fatto. Io ho spesso parlato di eurobond assieme a colleghi di varia estrazione: da Tremonti a Siniscalco a Giovanni Bazoli. Ma avendo in testa i limiti che le dicevo. Cominciamo intanto a far funzionare la Banca centrale europea. Una “Special Purpose Entity” che si atteggia a Banca centrale ma che tale propriamente non è. Ma ci sono differenze strutturali, culturali e concettuali fra gli Stati membri che non rendono il percorso facilmente sormontabile». Dal debito comune all’esercito comune europeo. Altra prospettiva o sogno. «Galbraith e la scuola di New York avevano ragione anche se io ritenevo la loro posizione troppo radicale. “Guardate”, dicevano, “che la centralizzazione capitalistica si può solo fare quando si è in guerra”. Non si fa cioè debito comune per la sanità o per fare politica industriale. La Francia che nel 2007 aveva dismesso la produzione nazionale di polvere da sparo costringendo i player del settore ad emigrare in Svezia ha inaugurato a Bergerac un nuovo stabilimento per gli esplosivi. Curioso che si parli di un’economia di guerra europea, quando l’Ue era teoricamente nata per assicurarci la pace. Anche qui ero scettico. Mi avevano quasi convinto quando nel 2002 sentivo parlare di Russia dentro la Nato e l’Ue. Ma ora siamo in una situazione radicalmente opposta. L’imperialismo russo si scatena se si sente aggredito. Il problema è che in Europa dominano gli economisti da pallottoliere che ignorano la storia». L’Europa deve dire addio al tanto sbandierato Green deal stante questa prospettiva… «La triste lezione è che le transizioni hanno bisogno di secoli o comunque molti decenni per essere portate a termine. E non tutto si può governare dall’alto. Ma questa Ue sembra l’Unione sovietica col suo gosplan staliniano. Tutti ambiscono al nobile obiettivo della decarbonizzazione. Ma si può fare solo in un contesto che da un lato incentivi gli investimenti pubblici e dall’altro con una partnership fra capitale pubblico e privato. In un ambiento di diritto che non penalizzi la libera impresa e la proprietà privata». Da economista profondo conoscitore delle dinamiche del mondo Eni, cosa pensa del cosiddetto piano Mattei? «Meritorio nelle intenzioni anche se intravedo un punto debole. L’eccessiva centralità conferita agli Stati. L’Africa ha sempre avuto un problema di State building. Va soprattutto coinvolta la borghesia africana ed i nostri corpi intermedi. Pensi a cosa potrebbe fare Confartigianato nel formare le professioni sul campo. Saluto con soddisfazione il coinvolgimento dei salesiani di Don Bosco nei processi di formazione. Ma vedo ancora un’eccessiva enfasi nella formazione a distanza e online. Una visione ipertecnologica che potrebbe non essere adeguata alle esigenze africane. Per realizzare il piano Mattei servono gli africanisti più che gli economisti».
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)
Ecco #DimmiLaVerità del 15 ottobre 2025. Ospite Daniele Ruvinetti. L'argomento di oggi è: "Tutti i dettagli inediti dell'accordo di pace a Gaza".