2020-05-31
La politica riprenda lo spazio dato alle toghe
L'uragano causato nel 1992 ha permesso alla magistratura di invadere il territorio che spetta di diritto alla classe dirigente. Per arginare questo strapotere è necessario ripristinare l'immunità parlamentare nell'originaria formulazione costituzionale.Pietro Dubolino, Presid. di sez. a riposo della Corte di cassazione «Matteo Salvini va attaccato anche se ha ragione»: Luca Palamara dixit. Proviamo a immaginare che a dirlo fosse stato non un magistrato a un altro magistrato, ma un uomo politico a un altro uomo politico. Quasi nessuno si sarebbe scandalizzato perché si dà istintivamente per scontato che in politica non conti la distinzione tra ragione e torto, ma quella tra ciò che conviene e ciò che non conviene rispetto all'obiettivo primario che è quello del potere, da acquisire e mantenere, nella migliore delle ipotesi, mediante il consenso popolare e, nella peggiore, mediante scambio di illeciti favori. Ciò può piacere o non piacere ma è, è stato e sarà sempre così. Lo scandalo nasce quindi proprio dal fatto che il concetto sia stato espresso in un ambito, quello appunto della magistratura, nel quale il criterio guida dovrebbe essere invece quello della ragione o del torto, da distinguersi secondo i canoni del diritto e le prescrizioni della legge, di cui ogni magistrato dovrebbe aspirare a essere e ad apparire fedele esecutore. E che, in effetti, sotto questo profilo vi sia materia di scandalo è sacrosantamente vero. L'errore, però, nel quale molti possono cadere è quello di pensare che alla sua origine vi sia solo la cattiva qualità delle persone dei singoli magistrati e che a essa possa in qualche modo tentarsi di porre rimedio escogitando migliori meccanismi di selezione e di controllo sul loro operato (leggi: riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, riforma del sistema di conferimento degli incarichi, separazione delle carriere, eccetera). Ma in realtà il problema è, come si suol dire, a monte ed è costituito essenzialmente dal fatto che la magistratura, o meglio, la sua ala marciante (dietro la quale si è mossa, per dirla con Napoleone, tutta l'intendenza) ha puramente e semplicemente occupato lo spazio che la classe politica ha via via lasciato libero, a cominciare da quando, frastornata e intimidita dalla marea montante delle indagini del pool «Mani pulite», fece karakiri, riducendo quasi al nulla, di fatto, la sfera di operatività dell'immunità parlamentare mediante la riscrittura dell'art. 68 della Costituzione. Una volta occupato il luogo della politica è naturale, quindi, che la magistratura abbia fatto propria anche la logica sulla base della quale si muove la politica, applicandola in modo tanto più disinvolto quanto maggiore sia stata la percezione della sostanziale acquiescenza prestata non solo da parte della classe politica ma anche, al di là di singole manifestazioni di sporadico dissenso, da parte di una larga fetta della stessa opinione pubblica. Quest'ultima, infatti, pur nutrendo sempre minor fiducia anche nella stessa magistratura, ha continuato a coltivare il diffuso convincimento che debba essere, nonostante tutto, la magistratura a tenere sotto controllo una classe politica che, «a priori» viene ritenuta, a torto o a ragione, globalmente inaffidabile sotto il profilo, in particolare, dell'onestà e del disinteresse personale. E sono queste le qualità che generalmente (e superficialmente) si ritiene siano essenziali nell'uomo politico, a preferenza, addirittura, della capacità che, invece, dovrebbe, a rigore, occupare il primo posto. Pochi sono, infatti, coloro che conoscono e meno ancora quelli che saprebbero oggi intendere nel suo corretto significato il monito di Benedetto Croce, il quale attribuiva a «volgare inintelligenza circa le cose della politica la petulante richiesta che si fa dell'onestà nella vita politica», spiegando quindi che «l'onestà politica non è altro che la capacità politica»; il che altro non voleva dire se non che la disonestà va censurata e combattuta nella misura in cui si traduca (come, in realtà, quasi sempre avviene), anche in una incapacità politica e, quindi, in una percepita e oggettiva inidoneità del soggetto a perseguire e realizzare gli interessi e le giuste aspettative della collettività. Ma per combattere disonestà e incapacità nulla è meno indicato di un governo dei giudici, essendo questo, in realtà, a ben vedere, il peggiore dei governi che si possano immaginare. I casi, infatti, sono due: o i giudici acquisiscono, come si è detto, la mentalità e la logica della politica, comportandosi di conseguenza, senza però dover rispondere, come invece i politici, a un elettorato che possa bocciarli e mandarli a casa, e senza quindi essere gravati della responsabilità politica che costituisce, di norma, il naturale e necessario contrappeso all'assunzione di un qualsivoglia potere politico per evitare che lo stesso prenda i caratteri del dispotismo; oppure i giudici mantengono la loro naturale forma mentis, che è quella che mette al primo posto la ricerca della giustizia nel caso singolo di cui sono di volta in volta chiamati a occuparsi, e questo li rende allora del tutto inadatti a far propria la visione politica delle cose, per la quale è invece necessario individuare l'interesse comune da considerare prevalente e da realizzare, quindi, con il sacrificio degli interessi e, non di rado, anche dei diritti dei singoli. Quale dunque il rimedio ? Semplice a dirsi ma tutt'altro che semplice a farsi. La politica, anche se al momento rappresentata da soggetti che, mediamente, non appaiono di eccelsa qualità, dovrebbe trovare il coraggio e il modo di riappropriarsi degli spazi che fisiologicamente le sarebbero propri, estromettendone la magistratura. Due potrebbero essere le vie da percorrere per tentare, se non di conseguirlo, quanto meno di avvicinarsi a un tale obiettivo: la prima, il ripristino puro e semplice dell'immunità parlamentare, quale prevista dall'art. 68 della Costituzione nella sua originaria formulazione, in base alla quale non poteva neppure instaurarsi alcun procedimento penale a carico di un membro del Parlamento senza previa autorizzazione della Camera di appartenenza; la seconda, la riconduzione del pubblico ministero alla sua originaria funzione di organo preposto non alla ricerca ma alla ricezione delle notizie di reato sulla base delle quali, previa verifica della loro fondatezza, esercitare poi l'azione penale; funzione, questa, che era così delineata nel vecchio codice di procedura penale, vigente fino al 1988 e nel presupposto della quale fu stabilito, con l'art. 112 della Costituzione, che il pubblico ministero avesse l'obbligo di esercitare l'azione penale. Un tale obbligo, infatti, intanto ha ragion d'essere in quanto la notizia di reato sia portata a conoscenza «ufficiale» del pubblico ministero da altri soggetti i quali siano tenuti a farlo (come gli organi di polizia) o anche ne abbiano solo facoltà (come è per qualsiasi privato cittadino); non quando sia lo stesso pubblico ministero ad andarsi a cercare quella notizia dove meglio crede (come oggi è possibile sulla base dell'attuale codice di procedura penale), avvalendosi di una illimitata discrezionalità che fatalmente può assumere e, di fatto, frequentemente assume colorazioni puramente politiche. Qualcuno propose a suo tempo, com'è noto, senza gran fortuna, un «ritorno allo Statuto» , per porre un freno a quello che era o appariva lo strapotere del Parlamento rispetto all'Esecutivo che, nominalmente, faceva capo al Re. Chissà se qualcun altro vorrà oggi proporre, sperando in una miglior sorte, un ritorno alla Costituzione per rimediare a quello che non appare ma è sicuramente uno strapotere, di fatto, della Magistratura (ivi compresa la Corte costituzionale) rispetto agli altri poteri dello Stato.