
Da Greta ai cibi verdi, si riscopre l'ambiente solo nella versione «commerciale». Il libro di Peter Heller ne mostra l'altro lato.Sembra che la natura sia tornata molto di moda. Le città si riempiono di ristoranti che vendono cibi naturali, gli scaffali dei supermercati traboccano di alimenti in confezioni verdi, presentati come genuini e freschi, quasi che fossero appena colti anche se ovviamente sono artefatti e surgelati. In libreria spopolano i volumi dedicati alla riscoperta dell'ambiente: bagni di foresta, benefici della clorofilla, coltivazione di orti sul terrazzo: manca soltanto che qualcuno riesca a passare con il trattore per arare il salotto e siamo al completo. Ah, e non dimentichiamoci gli amici animali: manuali, romanzi, fumetti, anche attorno ai cuccioli è fiorito un mercato straordinario. Dunque stiamo riscoprendo l'importanza di vivere a contatto con la natura? Beh, in realtà non è proprio così. Quello a cui assistiamo è piuttosto lo spettacolo della natura. Ovvero una versione consumistica e addomesticata della Madre Verde. La natura ci piace solo quando ci fa comodo. Quando serve a distrarci da altri e più gravi questioni. È un po' il «modello Greta», l'ambientalismo per signorine che oggi va tanto di moda. I ragazzini entusiasti sfilano in strada, protestano contro il riscaldamento globale, dicono che l'estinzione è prossima, e intanto continuano a scambiarsi messaggini sul cellulare, favorendo l'espansione della dittatura tecnologica che divora sia noi che l'ambiente circostante. Ci laviamo la coscienza pensando che un paio d'ore sotto gli alberi ci guariranno da ogni malanno. C'è chi si sente soddisfatto e «impegnato» perché ha comprato il libro di Greta, così può rimettersi in auto il giorno seguente a cuor leggero. Intendiamoci: che sia necessario recuperare un legame con il mondo vegetale e, più in generale, con la Terra, è un dato di fatto. «Non ci si può accontentare», scrive il filosofo Michel Onfray nel saggio Thoreau. Vivere una vita filosofica (Ponte alle Grazie). «Ci vuole anche e soprattutto, innanzitutto, il contatto con la natura, la sperimentazione della presenza al mondo, la pratica sensuale e sensoriale. Quindi guardare, contemplare, osservare, scrutare, percepire, ascoltare, avvertire, toccare, palpare, tastare, sfiorare, sentire, fiutare, annusare, respirare, gustare». Sono tutte attività, queste ultime, che giorno dopo giorno andiamo perdendo. A cominciare proprio dal gusto. Lo spiega bene lo scrittore americano Michael Pollan in un bel libro appena ripubblicato da Adelphi e intitolato In difesa del cibo. Egli sostiene che, per salvare la nostra salute (e in parte anche la nostra anima) abbiamo bisogno di evitare il più possibile «qualsiasi cibo che sia stato lavorato a tal punto da essere più un prodotto dell'industria che della natura». Dunque sì, abbiamo un bisogno tremendo di riavvicinarci alla natura e di abbandonarci al suo abbraccio. Tuttavia, dicevo, la natura, oggi, ci aggrada soltanto quando è facile da gestire, quando ci compiace. Quando ci viene somministrata a piccole dosi, e controllabili. Una natura industrializzata e messa in commercio. La natura «vera», quella davvero selvaggia, ci terrorizza, e - come società - tendiamo a combatterla. Se «naturale» è il piatto che ci viene servito nel ristorante alla moda, siamo felici. Se naturale è la famiglia, invece, apriti cielo. In quel caso, la natura va combattuta e modificata. Ma il bello della natura è anche questo: che sottometterla non si può, o comunque quando lo si fa si pagano conseguenze pesanti. A questo proposito, è molto istruttivo leggere un bel romanzo di Peter Heller appena edito da Solferino e intitolato Il fiume. Parla di Jack e Wynn, due amici che s'incontrano all'università. Amano l'attività fisica e le vacanze «selvagge» in mezzo al verde. Durante uno dei loro viaggi, però, si trovano a fare i conti con la brutalità della natura, con la sua spietata verità. La natura che amavano finché era nelle loro mani, diviene improvvisamente ostile. Non dobbiamo dimenticarla mai, questa dimensione misteriosa: ci ricorda quanto siamo piccoli e vulnerabili. E ci insegna a fare i conti con la natura nel suo complesso: con i suoi lati comodi e con quelli spaventosi. Gli stessi che si ritrovano nella vita di ogni essere umano, anche se a volte vogliamo credere che non sia così.
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