2019-12-28
La miglior recensione di Pinocchio l’ha scritta il teologo Giacomo Biffi
Pinocchio di Matteo Garrone (ufficio stampa)
Quello di Matteo Garrone è il film del momento che riporta in sala l'opera di Carlo Collodi, interpretata in passato in chiave massonica, gay e marxista. Ma solo la lettura del cardinale sa spiegare la «storia sacra» tra il padre e il figlio.Il Pinocchio di Matteo Garrone, per ora, sembra tenersi alla larga dalla maledizione di celluloide che ha colpito vari registi e attori decisi a misurarsi con il burattino più celebre del mondo. A partire proprio da Roberto Benigni, che in questo film, nei panni di Geppetto, riscatta la mediocre performance del 2002: una pellicola con un costo hollywoodiano (circa 45 milioni di euro) ma con incassi da cinema parrocchiale soprattutto all'estero. Garrone sembra essere partito molto bene: a Santo Stefano ha dominato il botteghino, a Natale si è conteso la cima del podio con il cinepanettone di Ficarra e Picone. Comunque vada a finire, l'uscita di questo lungometraggio ha goduto di una campagna mediatica potentissima. Di Pinocchio si è parlato ovunque, in tutti i modi possibili. È stato poco (o per nulla) citato, però, un libro fondamentale, uno dei più belli e intensi mai scritti riguardo al burattino di legno. Si intitola Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico a «Le avventure di Pinocchio». Il piccolo gioiello porta la firma di Giacomo Biffi (1928-2015), che lo scrisse nel 1976, proprio nell'anno in cui ricevette l'ordinazione episcopale. Il volume uscì nel 1977 da Jaca Book, che lo ha appena riportato nelle librerie in un nuova edizione, la quattordicesima. Al primo approdo nelle librerie, il testo fu sostanzialmente ignorato dal mondo laico. Era prevedibile: fuori infuriava la contestazione e Biffi era già una voce irriducibile al coro. Oggi, tuttavia, questo agile oggetto di 220 pagine circa si rivela più prezioso che mai. È, a tutti gli effetti, un manuale utile a combattere l'ideologia dominante, nonché uno dei pochi testi che abbiano la forza di svelare il significato profondo di Pinocchio. Il capolavoro di Collodi, è noto, negli anni è stato presentato come un libro massonico, una storia di iniziazione esoterica. Non sono mancate le interpretazioni marxiste, come quella di Alberto Asor Rosa che - nel 1975, quasi in contemporanea con l'opera di Biffi - vide in Pinocchio «un richiamo alla virtù operosa e trasformatrice del lavoro».Ultimamente, poi, va molto di moda il burattino arcobaleno. Fu Michela Murgia, su Rai3, a spiegare che Geppetto è l'emblema di «una paternità alternativa, di quelle senza una madre biologica, il tutto a dimostrazione che si può nascere come una cosa e diventare persona attraverso le relazioni». Il drammaturgo Tindaro Granata, invece, ha portato a teatro Geppetto e Geppetto, ovvero «la storia realisticamente inventata di Tony e Luca, una coppia che decide di avere un bambino sfidando i pregiudizi di genitori e amici contrari all'utero in affitto. I due vanno in Canada, e come Geppetto, il primo papà single della storia, “fanno", “fabbricano", “costruiscono", “creano" il loro piccolino». Certo, Pinocchio è una storia esemplare di paternità, ma i babbi gay c'entrano poco. Anzi, a dirla tutta c'è pure una celebre lettura del romanzo che agli attivisti Lgbt potrebbe non fare molto piacere. È quella dell'analista junghiano Claudio Widmann, che in Pinocchio siamo noi (Magi) ha offerto una descrizione piuttosto ruvida di Geppetto. Il falegname, spiega Widmann, vuole creare un burattino meraviglioso con cui girare il mondo, esibirsi e raccattare qualcosa da mettere sotto i denti per scacciare la miseria nera da cui è afflitto: «Il pover'uomo crede di aver trovato una soluzione ai suoi problemi; il burattino è il supporto protesico alle sue inabilità, l'estensione efficiente delle sue inefficienze. La psicologia parla in questi casi di figli concepiti come “estensione narcisistica" di sé». In effetti il riferimento al mondo arcobaleno potrebbe risultare calzante. L'interpretazione di Giacomo Biffi, però, sorvola un altro terreno, e risulta particolarmente attuale nel capitolo decimo, intitolato O il padre o il burattinaio. È qui che la favola esplode in tutto il suo potenziale. Invece di andare a scuola, Pinocchio s'infila di nascosto nel teatro dei burattini di Mangiafoco (nel film di Garrone è interpretato da Gigi Proietti). Lì incontra altri suoi simili: burattini di legno che però, a differenza sua, sono legati a fili manovrati dal barbuto burattinaio. Nella differenza fra uomo e burattino c'è tutto il senso profondo del libro collodiano. «La pertinenza del raffronto uomo-burattino», scrive Biffi, «pare oggi imporsi senza contrasti alla coscienza comune: la cultura contemporanea è tutta tesa a squarciare il velo sottile di un'apparente umanità per denudare il pupazzo senz'anima, che sarebbe la nostra verità soggiacente». «È sempre più largamente accolta», prosegue il cardinale, «l'ipotesi antropologica che spiega ogni atto e ogni risoluzione come prodotto ineluttabile delle forze economiche, dell'istinto sessuale, della cieca volontà di potenza, dei mezzi occulti di persuasione: i “fili invisibili"; e, poiché fatalmente si diventa quello che si è convinti di essere, l'uomo si assimila progressivamente a una marionetta appena rivestita di una illusoria apparenza di libertà». Secondo molte teorie, sostiene Biffi, per emanciparsi il burattino non deve far altro che eliminare il burattinaio. Ma il problema è che, morto un Mangiafoco, se ne fa subito un altro. Dove risiede, allora, la vera libertà? Per Biffi va cercata oltre il materialismo incarnato da Mastro Ciliegia (quello che non vuol sentire la strana, magica vocina proveniente dal ciocco di legno da cui nascerà Pinocchio). A distinguere Pinocchio da tutti gli altri burattini è il fatto che lui ha un padre. Tanto che Mangiafoco, a un certo punto, deve lasciarlo andare: «Se ha un padre, ha un destino filiale; se ha un destino filiale, è designato, pur avendo ancora una struttura legnosa, a una condizione di sostanziale libertà». Nella visione di Biffi, come ovvio, il padre non può essere che quello celeste. «Quella di Pinocchio è la sintesi dell'avventura umana», spiegò il cardinale a Sandro Magister. «Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Tra i due estremi c'è la storia del libro. Che è identica, nella struttura, alla storia sacra: c'è una fuga dal padre, c'è un tormentato e accidentato ritorno al padre, c'è un destino ultimo che è partecipazione alla vita del padre. [...] Pinocchio è una fiaba. Ma racconta la vera storia dell'uomo, che è la storia cristiana della salvezza». E non c'è nemmeno bisogno d'esser credenti per comprendere che è nella dimensione verticale, paterna, che risiede la vera libertà. Senza la quale restiamo solo miseri burattini nelle mani dei tanti Mangiafoco che affollano il nostro presente.