
Michael Jordan puntava alto quando giocava a golf, i calciatori si danno al poker. George Clooney è andato oltre: ha il proprio casinò. Oggi vi parlo di scommesse. Gli scommettitori sono milioni nel mondo e non rinunciano a battersi contro il banco anche se il banco, dovunque, è largamente favorito. Si ha notizia di scommesse diffuse a livello popolare alcuni millenni fa. E si tratta di puro, a volte violento, gioco d'azzardo. Alcuni miei amici, in un club napoletano privato (Napoli è una città regina, nelle scommesse, a cominciare dal lotto), nelle noiose giornate di pioggia avevano l'abitudine di scommettere, guardando le finestre, su quale goccia sarebbe arrivata per prima in fondo al vetro. Ci sono molti nomi famosi, tra gli scommettitori. Ad esempio, tra i più noti e accaniti, Michael Jordan. Compulsivo e testardo: nel basket, nelle corse, nel golf. Senza riguardi per l'entità delle scommesse, 100 dollari o anche 1 milione, più di una volta a settimana. Rafael Nadal punta e scommette non solo sulle sue conoscenze nel tennis, ma anche sulla passione, più recente e coinvolgente, per il Texas Hold'em: c'è perfino chi dice che questa sarà la sua attività professionale quando chiuderà la carriera con la racchetta. Di Michael Phelps, un asso nel nuoto, si ricorda che era un gran giocatore di poker. Molto generoso e altruista: regalava spesso le sue vincite ai bambini sofferenti. Tiger Woods, nei casinò, scommetteva ad ogni puntata cifre enormi, al limite delle regole (25.000 dollari, nel suo gioco preferito, il blackjack). E avrebbe vinto, in un anno, più di qualche milione.A Hollywood, scommettitori e giocatori, d'ogni carattere e d'ogni gioco, sono decine e decine. Sean Connery, defunto pochi giorni fa a 90 anni, è stato l'inimitabile agente 007, ma anche un grande appassionato della roulette. Adorava il numero 17. E sembra che nel 1963, puntandoci ripetutamente, abbia vinto 15 milioni di lire dell'epoca nelle pause di un film che stava girando in Italia. Molto apprezzato in anni più recenti è Ben Affleck, che ha vinto due volte il premio Oscar, ed è uno specialista del blackjack. È detestato con vari pretesti dai casinò, perché si dice che sarebbe impareggiabile nel contare le carte e prevedere come riuscire a vincere. Affleck ha sempre negato. Certo è che ha girato in beneficenza molte volte le sue importanti vincite. George Clooney è un celebre giocatore e scommettitore. Ma anche un avveduto e strategico imprenditore: ha abbinato il gioco al business. E ha costruito, insieme con alcuni soci, il Las Ramblas a Las Vegas. Ed è stato protagonista di una popolarissima trilogia di film: Ocean's 11 e i due successivi capitoli. Più o meno simile Robert De Niro, protagonista di un film leggendario (Casinò) diretto da Martin Scorsese. Gran giocatore al cinema e nella vita, dunque. Ma ha progettato anche un resort casinò con uno degli uomini più ricchi d'Australia. Matt Damon ci offre un aneddoto curioso: prima di recitare la sua parte nel film Il giocatore, ha speso 25.000 dollari al casinò. Ma il suo obiettivo era quello di entrare alla perfezione nella parte che poi avrebbe recitato. Il gioco delle carte gli è rimasto in cuore, ma lo gestisce in modo consapevole e per il semplice gusto di giocare. Ed eccomi a Jennifer Lopez, che «ama» la roulette. La sua passione è ereditata dalla mamma, che avrebbe vinto nei casinò di Atlantic City 2 milioni di dollari. Nel 2010 invece Cameron Diaz, che gioca poco o niente, è stata eletta dalla rivista Maxim «Miss Texas Hold'em». Una campionessa? No, tutto è nato da un invito a partecipare ad un torneo a scopo benefico. C'è chi racconta che Pamela Anderson nel 2007 abbia sposato Rick Salomon solo perché gli doveva 250.000 dollari persi al poker.E i giocatori italiani? Cominciamo anche qui dagli sportivi. Nell'estate del 2013, 10 calciatori si riunirono per un evento benefico di poker con l'intento di raccogliere denaro per la fondazione di Sergio Floccari. Oltre al centravanti, a quel tavolo erano seduti anche Simone Pepe, Federico Peluso e il «Tir», Simone Tiribocchi. C'è Massimiliano Allegri, che proprio in una conferenza stampa della stagione 2018/19 ha colto l'occasione per fare riferimenti metaforici alla sua passione per le scommesse sull'ippica. Il calciatore scommettitore più famoso è Gigi Buffon, sul suo conto circolano storie di sapore leggendario. Sullo stesso piano Francesco Totti, che si diverte moltissimo a giocare a poker. È bravo e astuto. Con un passo indietro negli anni, Vittorio De Sica è stato il regista di due film ispirati dalla sua passione per il casinò: Il conte Max e L'oro di Napoli. Passava le vacanze abitualmente ad Ischia, una volta ha dichiarato: «Non mi trasferirò ad Ischia perché non c'è un casinò». Fedor Dostoevskij ha scritto Il giocatore in meno di un mese e sotto la pressione degli editori, lo dettò a sua moglie, forse senza sapere che sarebbe diventato uno dei capolavori della narrativa russa di fine Ottocento. La decisione di scriverne diventò un'occasione per dare forma a una visione consapevole della sua passione. Nel Giocatore, Dostoevskij studia il gioco d'azzardo e le sue forme, i diversi vizi di scommettitore, dai ricchi nobili alla classe operaia a cui rimprovera di giocare senza attenzione alla spesa.Anche Charles Bukowski fu un appassionato del betting, soprattutto scommesse sull'ippica. Una sua massima? «Scommetti solo quando puoi (permetterti di) perdere. Voglio dire senza rischiare di dormire su una panchina del parco. O di saltare tre o quattro pasti. La cosa più importante che devi fare è mettere da parte i soldi dell'affitto. Evita le pressioni. Sarai più fortunato».A chi gioca d'azzardo, e scommette, mi permetto di aggiungere i consigli e le riflessioni di quattro esperti, tra i più famosi nel mondo. Ho cercato di studiarli e applicarli anch'io. Un appassionato di scommesse sportive ed esperto di backgammon, (un particolare gioco d'azzardo da lui stesso definito nient'altro che un poker) era Lewis Deyong. Ha dichiarato che questo era il suo consiglio prioritario: «Ho un consiglio ed è la cosa più importante di tutti gli altri aspetti messi insieme. Non scommettere soldi che non ci si può permettere di perdere. Si perde la ragione e ci si mette in una situazione di pressione intollerabile, di inferiorità. Se potessi far capire 10 concetti ai lettori ripeterei 10 volte lo stesso concetto. Non si vince rimanendo senza soldi!».Dovendo competere contro colossi che hanno innumerevoli vantaggi (l'aggio, informazioni da insider, sofisticati strumenti di analisi) è facile pensare che vincere con le scommesse in maniera professionale sia impossibile. Ma non è così: come esistono i professionisti del poker, ci sono anche tante persone che si guadagnano da vivere scommettendo. Alcuni lo fanno per pagarsi le bollette, altri si garantiscono la pensione in questo modo, alcuni sono diventati milionari. All'ultima categoria appartengono Billy Walters, Haralabos Voulgaris, Teddy Covers e R.J. Bell, quattro personaggi che hanno accumulato grandi patrimoni grazie all'abilità dimostrata nel betting.Ognuno ha una strategia e un'impostazione differente, ma di questi quattro ci si può sicuramente fidare: per loro parlano i risultati e gli affidamenti ricevuti da decine di bookmakers per le vincite eccessive. Volete inseguire il sogno di diventare professionisti delle scommesse? Iniziate dai consigli di questi quattro fenomeni del betting, raccolti dal sito Football Forever.Billy Walters è con ogni probabilità il più famoso scommettitore professionista del mondo. Ha vinto decine di milioni di dollari con il suo intuito e altre abilità. Ma il talento, nelle scommesse, non basta: ogni giocatore dovrebbe informarsi leggendo tutto ciò che viene pubblicato sullo sport sul quale si decide di scommettere.«All'inizio della mia carriera ero solito mandare un gruppo di miei collaboratori all'aeroporto», ricorda Walters. «Salivano sugli aerei e leggevano tutto ciò che c'era scritto sui giornali locali e nazionali degli Stati Uniti d'America». Una strategia all'apparenza folle, ma che consentì a Walters di vincere bottini incredibili. In questo modo, infatti, diventava più informato dei bookmakers di Las Vegas, che non potevano leggere i giornali locali e non conoscevano in profondità lo stato di forma delle varie squadre, soprattutto nel basket. Ma oggi come si può fare con Internet? È ancora più semplice: il consiglio di Billy Walters è di leggere tutto ciò che è stato scritto su un determinato calciatore, una squadra, un campionato o uno sport. Se scegliete, ad esempio, di scommettere sulla Serie B, leggete tutto ciò che viene scritto su questa lega e i suoi protagonisti.«Vincere non significa semplicemente leggere dati e statistiche», spiega Walters. «Vincere vuol dire conoscere davvero le squadre su cui punti». La competenza è indispensabile. La carriera di Haralabos Voulgaris iniziò con questa mossa: scommise tutto ciò che aveva sulla vittoria dell'Nba da parte dei Lakers. Ma dopo quel successo da 455.000 dollari, Bob ha cambiato completamente strategia: si è affidato a un genio della matematica (così lo chiama) con il quale ha creato un software in grado di predire i risultati delle 1.230 partite stagionali in Nba. Così è riuscito a mantenere una superiorità di informazione statistica, calcolabile al 6%, e a vincere milioni di dollari. Il suo consiglio è quindi di sfruttare tutti i dati e le notizie a disposizione e di acquistare i software presenti sul mercato. Le quote sono importanti. Non basta indovinare l'esito, è fondamentale farsi pagare il prezzo giusto. Lo sa bene Teddy Covers, uno degli scommettitori più vincenti nella storia del gioco. «Uno degli errori più comuni dei giocatori occasionali è che non cercano le quote migliori sul mercato», ha dichiarato, grazie alla sua esperienza ventennale. «Quando compri azioni in borsa, il prezzo è lo stesso per qualsiasi azione. Ma nel betting non è così e allora dovresti sempre cercare il bookmaker che paga meglio». Il suo consiglio generico sulle favorite è di scommettere diversi giorni prima dell'evento. Così si trovano le quote migliori, e la differenza a fine anno, per un professionista, si fa sentire notevolmente.Ecco il consiglio più vecchio nella storia del gambling, ma se lo ripetono tutti un motivo c'è: senza una corretta gestione del denaro, non si va da nessuna parte. A dirlo in questo caso è R.J. Bell, che oltre ad essere uno scommettitore professionista è anche il conduttore di uno show radiofonico sul betting. «Troppi giocatori scommettono più di quanto possono permettersi all'inizio della stagione», ha spiegato. «Quando poi ci sono partite dove c'è del valore, non hanno più soldi per puntare». Il suo suggerimento per vincere è duplice; effettuare scommesse piccole a inizio stagione, e aumentarle via via. strada facendo». Volete provarci?
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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