2020-02-23
La liberazione della Rackete è un’assurdità
Secondo la Cassazione la capitana, che speronò una nave delle Fiamme gialle, stava compiendo il suo dovere di portare i migranti in un «luogo sicuro». Ma la scelta di forzare il blocco a Lampedusa ha violato sia le regole di salvataggio che la sovranità italiana.È stata da poco depositata, com'è noto, la motivazione della sentenza con la quale la Cassazione ha avallato la decisione del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Agrigento che aveva negato la convalida dell'arresto della «capitana» Carola Rackete, a suo tempo effettuato nella ritenuta flagranza dei reati a lei addebitati di resistenza a pubblico ufficiale e resistenza o violenza a nave da guerra. Al di là delle più che prevedibili prese di posizione politiche pro o contro le ragioni che, nella motivazione, sono state addotte dalla Corte a sostegno della propria decisione, vale la pena di chiedersi se tali ragioni siano o no dotate di quella indiscutibile fondatezza giuridica o, quanto meno, di quella intrinseca plausibilità che, trattandosi di una sentenza della Cassazione, dovrebbero darsi per scontate. Con tutto il rispetto dovuto alla Suprema corte, sembra giusto e doveroso rispondere negativamente. E vediamo subito perché. Tanto per cominciare, e per quanto valga, va ricordato che il procuratore generale presso la Corte aveva chiesto che, in accoglimento del ricorso a suo tempo proposto dalla Procura della Repubblica di Agrigento, l'ordinanza del Gip venisse annullata e venisse in tal modo riconosciuto che l'arresto era stato legittimo. La contraria decisione adottata dalla Corte si basa, nell'essenziale, sul seguente ragionamento: la Rackete, nel porre in essere la condotta a lei addebitata (consistita, come si ricorderà, nell'avere speronato una motovedetta della Guardia di Finanza che, come da ordini ricevuti, aveva cercato di impedirle l'ingresso nel porto di Lampedusa), avrebbe agito nell'adempimento del dovere di condurre in un «luogo sicuro», come previsto dalle Convenzioni internazionali, i naufraghi presi a bordo giorni addietro al largo delle coste della Libia; ragion per cui sarebbe stato applicabile l'articolo 385 del codice di procedura penale, in base al quale, per quanto qui interessa, l'arresto è vietato «quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell'adempimento di un dovere»; il che, oltretutto, lascia chiaramente intendere che anche l'esito finale del procedimento penale dovrà essere quello della totale assoluzione dell'imputata. Ora, questo ragionamento, in sé e per sé, sarebbe perfetto. Peccato, però, che esso dimentichi un particolare di decisiva importanza: quello, cioè, che il comandante della nave soccorritrice ha sì il dovere di condurre i naufraghi in un luogo sicuro (place of safety) ma non ha affatto il diritto di scegliere a sua discrezione quale debba essere questo luogo sicuro, qualora non voglia attenersi alle indicazioni che, proprio sulla base delle Convenzioni internazionali (come ricordato nella stessa sentenza della Cassazione), gli debbono essere fornite dal «governo responsabile per la regione Sar in cui sia avvenuto il recupero». Meno che mai si può poi riconoscere allo stesso comandante il diritto di imporre quella sua scelta alle autorità dello Stato nel cui territorio si trova la località che egli, a suo personale, insindacabile giudizio, abbia considerato rispondente più di ogni altra ai prescritti requisiti di sicurezza. Questo significa che, nel nostro caso, come in tutti gli altri analoghi casi prima e dopo di esso, la Rackete, avendo ritenuto, per le note ragioni, di non aderire all'indicazione del «luogo sicuro» fornita dalle autorità di governo della Libia (nella cui zona Sar era avvenuto il recupero dei naufraghi), avrebbe dovuto, in linea di principio, limitarsi a chiedere istruzioni sul da farsi alle autorità competenti dello Stato di bandiera della nave da lei comandata, perché fossero esse, se del caso, previa eventuale intesa con le autorità di altri Stati (ivi compresa l'Italia), a provvedere all'individuazione di un diverso «luogo sicuro». Ma, ammesso pure (e non concesso) che fosse legittimata ad individuare essa stessa un tale luogo nel porto italiano di Lampedusa, mai e poi mai avrebbe poi potuto pretendere di entrarvi a forza, contro l'espresso divieto oppostole dalle legittime autorità dello Stato italiano. Tutt'al più, ritenendo illegittimo questo divieto, avrebbe potuto impugnarlo davanti al Tar (come avvenuto in altri casi) chiedendo anche la sospensione della sua esecutività; sospensione che, volendo, può essere concessa anche entro un brevissimo lasso di tempo. Escluso, quindi, che la condotta della Rackete potesse ritenersi giustificata dall'adempimento di un dovere, si sarebbe potuta prospettare, in via puramente astratta, solo l'applicabilità dell'altra causa di giustificazione costituita dallo «stato di necessità», che sussiste, secondo quanto previsto dall'articolo 54 del codice penale, quando chi ha commesso il fatto vi sia stato «costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona». Ma ciò non è avvenuto. Nella stessa sentenza della Cassazione, infatti, come pure nella precedente ordinanza del Gip, non si trova, di questa causa, il benché minimo cenno; e ben a ragione, dal momento che, in realtà, era risultato del tutto pacifico che nessuno di coloro che si trovavano a bordo della nave correva pericolo di vita o di altro «danno grave alla persona». La nave, infatti, era in condizioni di assoluta sicurezza e i «migranti» (come ricordato anche, «ad abundantiam», nel ricorso a suo tempo proposto dalla Procura della Repubblica) erano «costantemente monitorati ed assistiti da personale sanitario e dalle forze dell'ordine». Non sembra poi inutile aggiungere, a questo punto, che se il ragionamento seguito dalla Cassazione fosse corretto, esso avrebbe portato ad escludere la penale responsabilità della Rackete anche con riguardo ai reati di lesioni o, addirittura, di omicidio che, sia pure (in ipotesi) come conseguenze non volute della condotta da lei posta in essere, sarebbero stati configurabili nel caso che taluno degli occupanti della motovedetta speronata fosse rimasto ferito o ucciso. Una volta, infatti, ritenuto che una determinata condotta sia oggettivamente giustificata, risultano automaticamente giustificati tutti i reati dei quali, altrimenti, sulla base di quella stessa condotta, dovrebbe rispondere chi ne è stato autore. In realtà, qualora si fosse malauguratamente verificata un'eventualità del genere di quelle ora accennate e, ciononostante, fosse stata negata la legittimità dell'arresto per la ritenuta non punibilità della responsabile dell'evento, molto difficilmente la Cassazione avrebbe avuto l'ardire di avallare una tale decisione, tanto essa le sarebbe apparsa, giustamente, come assurda. Ma se un principio quale è quello affermato dalla Corte con la sentenza di cui ora ci occupiamo è tale per cui dalla sua applicazione potrebbero derivare conseguenze assurde questo può significare una cosa soltanto: che quel principio (ci si perdoni la brutale franchezza) è sbagliato. In definitiva, dunque, resta solo da sperare che la sentenza in questione non sia assunta in avvenire come valido precedente ma dia luogo, piuttosto, se e quando se ne ripresenterà l'occasione, ad un salutare ripensamento.