2019-07-20
Marco Martino: «La furia dei clan nigeriani nella loro bibbia»
Il capo della Squadra mobile di Torino rivela tutti i particolari dell'inchiesta che ha sgominato dei nuclei della criminalità africana: «Sono pericolosi e molto violenti, con fitti collegamenti con l'estero. Si riconoscono grazie a dei codici fissati nel loro “libro verde"».Quando l'uomo del clan ha dettato l'indirizzo, gli investigatori hanno capito subito che poteva trattarsi di roba seria. Hanno intercettato il pacco partito dalla Nigeria e hanno fatto quella che definiscono «una scoperta preziosissima per l'inchiesta». Un libro. La Green Bible, la bibbia verde della mafia nigeriana, con i suoi comandamenti, le sue regole e la scala gerarchica. E, così, gli investigatori della Squadra mobile di Torino che l'altro giorno, insieme ai colleghi di Bologna, hanno smantellato un clan che si era ben radicato all'ombra della Mole, hanno scoperto che in molti casi i codici sono identici a quelli delle mafie tradizionali italiane.«Hanno capi che chiamano don, proprio come da noi. E codici criminali che abbiamo trovato scritti in quel libro e tramandati da capo a sottoposto in via piramidale». Il primo dirigente della polizia di Stato Marco Martino guida la Squadra mobile di Torino, una delle prime città che ha fatto i conti con la mafia nigeriana. Quello di giovedì scorso, infatti, non è che l'ultimo blitz. Qui è da tempo che gli investigatori tengono d'occhio i nigeriani. Seguono le loro mosse. E hanno anche ottenuto la collaborazione di un pentito che, esattamente come in una inchiesta siciliana, li ha accompagnati nel mondo oscuro del clan dei Maphite, che a Torino era anche spaccato in due: da un lato c'era la Famiglia latina e dall'altro la Famiglia vaticana.Dottor Martino, che livello di infiltrazione avete riscontrato nel tessuto sociale?«A volte gli affiliati riescono a mimetizzarsi tra la popolazione comune, alcuni di loro hanno anche un lavoro stabile e conducono una vita assolutamente normale».Ciò non toglie che siano molto pericolosi e, come sottolineato negli atti dell'inchiesta, sono anche aumentati numericamente dopo gli sbarchi a Lampedusa.«Sono pericolosi e molto violenti. Già nei riti di affiliazione si denota una crudeltà fuori dal comune, con prove durissime da superare prima di riuscire a ottenere la fiducia del gruppo e dei capi. Noi siamo intervenuti in un momento di crisi, proprio mentre i rapporti all'esterno del gruppo si stavano surriscaldando e la situazione poteva diventare esplosiva».C'erano problemi con qualche mafioso locale?«No, anzi, con uomini della criminalità organizzata italiana abbiamo riscontrato qualche contatto che stiamo approfondendo e buone relazioni collaborative». Allora cominciavano a dar fastidio ad altri nigeriani?«Uno dei gruppi non riconosceva all'altro la possibilità di affiliare nuovi uomini e non accettava la presenza di un altro capo sul territorio».Litigavano, insomma.«Non esattamente. In realtà le questioni si consumavano nel gruppo di appartenenza, ma gli animi cominciavano a surriscaldarsi. E mentre li ascoltavamo con i più potenti mezzi che la normativa antimafia ci mette a disposizione abbiamo scoperto fitti collegamenti con cellule estere»Erano eterodiretti?«Più che altro erano controllati, ma questo è un po' ciò che accade anche con altre cellule sparse sul territorio italiano».E magari finivano proprio all'estero i flussi finanziari.«Esatto. E senza lasciare traccia. Niente conti corrente, niente carte di credito. E neanche money transfer. Usavano il classico metodo degli spalloni con la 24 ore. Abbiamo monitorato una partenza in aereo prenotata solo poche ore prima, proprio perché rendendola improvvisa diventava meno verificabile». Era l'incasso della droga?«È una delle attività prevalenti, insieme allo sfruttamento della prostituzione. C'erano aree della città completamente nelle loro mani. Tanto che, in un caso, cominciavano a innervosirsi gruppi di cittadini pachistani che in un quartiere gestiscono dei negozi. Ma i nigeriani sono violenti anche al loro interno. Abbiamo scoperto una notevole capacità d'intimidazione e ai capi veniva riconosciuta molta autorevolezza».Torniamo ai codici.«Per indicare la città di Torino, ad esempio, veniva usato un codice numerico. E per rendersi riconoscibili ai loro connazionali, gli affiliati Maphite indossavano baschi o abiti di colore verde. Una forma di comunicazione non verbale, diretta ad altri rappresentanti della comunità nigeriana che, riconoscendo quei simboli sapeva esattamente con chi aveva a che fare. È stato possibile capirci qualcosa proprio grazie alla bibbia verde che abbiamo intercettato. Ogni gesto è ben catalogato nel libro ed è riconosciuto da tutta la comunità».E poi c'è un collaboratore di giustizia.«Che ha dato un altro importante contributo non senza correre dei rischi. Nel gruppo, infatti, cominciavano a sospettare qualcosa ed erano diventati diffidenti».Avete trovato armi?«I nigeriani, è risaputo, prediligono le armi bianche, coltelli, machete, roncole. A Bologna, durante, le perquisizioni è saltato fuori qualcosa. Ma questo non vuol dire che sia una mafia meno pericolosa. Per fortuna è ancora molto rozza e, pur presentando tutte le caratteristiche dei clan, è ancora a livello embrionale, ossia il momento giusto per intervenire e provare a debellarla».
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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