
L'uscita del presidente della Camera sul 2 giugno «dedicato ai rom» è stata presa malissimo ai piani alti del Movimento. Ma non ha provocato un effetto emulazione. Il dissenso tra senatori e deputati è limitato a pochi. Che, al massimo, si immolerebbero per Beppe Grillo.All'ombra del Fico c'è spazio per tutti. Tanto, almeno per ora, contare i dissidenti grillini e arrivare a una dozzina è già un'impresa. E il giorno dopo la sortita del presidente della Camera su rom e migranti, i vertici del Movimento ripetono tutti la stessa accusa: «È stata un provocazione a freddo, una cosa per rompere con l'alleato di governo». Insomma, tra gli oltre 300 deputati pentastellati non sembrerebbero esserci zone grigie, paludi dove aspettano coloro che sognano un governo con il Pd. Un cambio di alleanze che ovviamente non è da escludere, prima o poi, ma che avverrà solo dopo che Beppe Grillo, Davide Casaleggio e Luigi Di Maio avranno sancito una nuova linea. Più corposa, invece, sembra essere la pattuglia di chi andrebbe volentieri al voto anticipato, ma solo con una nuova legge elettorale. Gli oppositori di Di Maio e del governo con il Carroccio sono «solo quelli che parlano pubblicamente», fa notare uno dei suoi colonnelli. Qualcuno dichiara alle agenzie, altri si sfogano sui social. Sembrano tanti perché gli altri stanno zitti e non rispondono, salvo rarissime eccezioni, ma alla fine sono i soliti quattro gatti. Il primo, però, non è un gatto: è il presidente della Camera, tiene in linea di massima un profilo istituzionale, se partecipa a riunioni del Movimento pretende di non essere coinvolto in discussioni sul governo, non attacca mai frontalmente e si limita a fare qualche predica generica. Per questo, il giorno dopo la Festa della Repubblica, i deputati grillini sono ancora stupiti che Roberto Fico sia stato capace di affermare: «Oggi è la festa di tutti quelli che si trovano sul nostro territorio, è dedicata ai migranti, ai rom, ai sinti, che sono qui ed hanno gli stessi diritti». Parole molto nobili, è il commento dei più simpatetici, «ma la dedica è davvero eccessiva». Ai piani alti del Movimento, sono state prese malissimo e i capi hanno trovato in questa uscitaccia di Fico la volontà di arrivare alla rottura con la Lega, di creare un caso con Matteo Salvini, che per altro Luigi Di Maio e Beppe Grillo sospettano di non aspettare altro. Chi avrebbe voluto fare a meno del referendum interno su Di Maio attraverso la piattaforma Rousseau, o quanto meno si sarebbe augurato un risultato meno prebiscitario (il vicepriemier ha preso l'80% dei voti), continua a ripetere che stare in questo esecutivo gialloblù è un suicidio politico. Senatrici come Paola Nugnes ed Elena Fattori sono critiche ormai da mesi, ma qualche perplessità sulla linea del «capo politico del Movimento», specie dopo il voto delle europee, è stata espressa anche da Virginia La Mura, Matteo Mantero, Nicola Morra, Alfonso Ciampolillo, Primo Di Nicola e Gianluigi Paragone. A Palazzo Madama, com'è noto, i margini del governo sono di soli quattro senatori, ma sostenere che vi siano otto grillini in bilico, com'è stato fatto, è una forzatura assoluta. Soltanto Nugnes e Fattori procedono veramente fuori dai ranghi e gli altri hanno semplicemente espresso qualche dubbio, come nei partiti «normali». Alla Camera, Doriana Sarli è sicuramente ritenuta molto autonoma e lo stesso vale per Andrea Colletti, ma per il resto, anche chi si concede qualche critica, di solito lo fa perché fa parte dei fondatori e sa che magari perfino alla Casaleggio ammettono che potevano essere scelti come sindaco o ministro. È il caso della napoletana Carla Ruocco, della romana Roberta Lombardi o del pratese Luigi Gallo. Quando la Lombardi parla di Virginia Raggi non le manda a dire, ma da quando lo fa anche Di Maio è difficile accusarla di avere poca carità di patria. Insomma, non si tratta di una falange particolarmente numerosa, ma soprattutto sarebbe scorretto sommarli tutti insieme in un ipotetico gruppo ansioso di sostenere la leadership di Fico o di Alessandro Di Battista, perché quelli che abbiamo chiamato «ortodossi» sono legatissimi a Beppe Grillo, il fondatore, e il tema, se mai, è un altro: chissà che non sia proprio Grillo colui che sta pensando in qualche modo a tornare in campo. Molti segnali ci sono e uno è proprio il fatto che i suoi fedelissimi, anche se non possono più vedere Salvini, stanno dicendo a tutti che attaccare Di Maio fa il gioco dei nemici del Movimento.Ma se c'è un dato davvero sorprendente, quando si prova a sondare gli umori della pancia grillina, quella che sgobba in Parlamento e lavora in silenzio, è che a quasi un anno e mezzo dall'exploit delle politiche pare che neppure i vertici sappiano esattamente come e quanto sia spaccato l'elettorato M5s tra «destra» e «sinistra». «Non ci sono analisi, non abbiamo dati certi», dice un senatore, che poi scherza: «Siamo meno scientifici di quanto credano i giornalisti». Insomma, tutti a dire, a seconda delle utilità, che mezzo elettorato viene da sinistra e mezzo da destra; oppure che il grosso è di sinistra e non vede l'ora di dare un bel calcione alla Lega, ma poi nessuno sa veramente come stanno le cose e nessuno sa se Fico o Di Battista hanno davvero delle legioni, o delle coorti, o dei semplici manipoli. Si sa solo, come ha confermato ieri uno studio dell'istituto Cattaneo, «che cresce il processo di meridionalizzazione dell'elettorato di M5s», nonostante il crollo al Sud delle europee. Fuori dall'«ombra di Fico» c'è invece un'area molto più vasta, poco dichiarata e tutta da valutare che vorrebbe le elezioni anticipate e basta. Succeda quel che succeda. In codice, qualcuno ama definirla la linea del «Meglio morire combattendo». Ieri è uscito allo scoperto il succitato Colletti, proponendo di andare alle urne, ma solo dopo aver aggregato il consenso necessario ad avere una nuova legge elettorale proporzionale con sbarramento al 4-5%. Le possibilità di realizzazione sono al momento vicine allo zero.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.