L’interventismo della magistratura sui trasferimenti degli stranieri in Albania non è solo un’ingerenza politica. Mette anche a repentaglio i nostri rapporti con i partner internazionali, che all’improvviso si vedono equiparati a degli Stati canaglia.
L’interventismo della magistratura sui trasferimenti degli stranieri in Albania non è solo un’ingerenza politica. Mette anche a repentaglio i nostri rapporti con i partner internazionali, che all’improvviso si vedono equiparati a degli Stati canaglia.Niente Albania. Tutti a casa, egiziani e bengalesi, i loro Paesi sono considerati pericolosi dalla magistratura e quindi non possono essere sottoposti alle procedure - eventuali di rimpatrio - per accertare se abbiano diritto o no a stare nel nostro Paese. Dietro front, avanti marsc’! La magistratura ordina la scelta politica, la politica deve eseguire.Povero Montesquieu, quello che scrisse Lo spirito delle leggi, nel lontano 1748, considerato il padre della «separazione dei poteri»: legislativo, esecutivo, giudiziario. Chissà cosa penserà dall’asteroide che gli è stato dedicato, 7064 Montesquieu. Oggi in Italia sembra che la divisione dei poteri, al posto di quella del filosofo francese, si sia trasferita tutta all’interno della magistratura. Essa fa tutto: dice quali leggi vanno bene e quali no, decide sulle leggi del governo, ostacolandone l’applicazione, impone alla politica di fare certe cose e altre no. Altro che separazione dei poteri, separazione sì, ma dalle leggi elementari di un corretto rapporto tra poteri.Sulla vicenda nello specifico altri hanno scritto sulle pagine di questo giornale e altri scriveranno; a me interessa soffermarmi su di un aspetto: quello che chiamerei internazional-diplomatico. Cosa succederà con Paesi con in quali intratteniamo regolari rapporti diplomatici dopo che la nostra magistratura, con atto unilaterale, e basato non si sa bene su quali conoscenze reali della situazione vera di quei Paesi, ha deciso che quei Paesi non sono sicuri? In base a cosa? In base a quali informazioni e fornite da chi? Forse la magistratura ha a disposizione, a nostra insaputa, una struttura diplomatico-investigativa che opera in quei Paesi e possiede, quindi, informazioni di prima mano? Perché non richiamare in fretta a casa tutti gli italiani che sono in Egitto, un po’ come quelli che sono in Libano - non residenti - per pericolosità dichiarata nella zona di Sharm el-Sheikh? E perché Paesi esteri non richiamano immediatamente in patria loro connazionali che si stanno avventurando in qualche periferia di qualche metropoli italiana o nei pressi di qualche stazione ferroviaria di grandi ma anche piccole città italiane?Capite che siamo oltre il limite? Un ministro a processo, Matteo Salvini, per aver fatto esattamente lo stesso che ha fatto la ministra che è venuta dopo di lui in almeno 13 occasioni (nave Diciotti in testa), Luciana Lamorgese. Un governo che attua un provvedimento - evidentemente discutibile, come ogni atto politico di qualsiasi governo - ma che trova un notevole interesse da capi di Paesi esteri e anche dall’Unione europea per bocca della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, oltre a premier di centrosinistra come quello inglese o quello tedesco per bocca di suoi rappresentanti, tra l’altro Verdi. No. La magistratura non ci sta, si erge a piccola Onu e decide quali Paesi siano sicuri e quali no. E chissenefrega dei rapporti diplomatici dell’Italia con quei Paesi, chissenefrega della realtà vera di quei Paesi, chissenefrega delle ambasciate italiane in quei Paesi, dei rapporti del governo e del ministro degli Esteri. No, tutto superfluo, inutile e soprattutto ingombrante nei confronti dell’azione illuminata e sovrana (a questo punto difficile appellarla diversamente) della magistratura.Già è discutibile se non illegittimo che uno Stato dichiari insicuro un altro Stato. In basi a quali poteri può farlo. Lo potrà fare, semmai, un organo terzo, che non sia né il primo Stato che denuncia, né il secondo Stato che è denunciato. No, qui è un pezzo di Stato che lo fa, arrogandosi un diritto che non ha. E se lo ha, da domani, nel mondo, ogni giudice sarà autorizzato, ogni tribunale potrà decidere se uno Stato sia sicuro o no. Non servono più neanche i servizi segreti, soldi buttati nel cesso. Ci pensano i pm e i signori giudici. E chi non è d’accordo vada a farsi benedire perché la parola è una e inappellabile: quella di uno dei tre poteri che è divenuto uno. Meglio: è divenuto trino. Decide le leggi, decide quali sono da applicare, sanziona chi non fa come dicono loro. Tre in un uno, come ai discount, il discount dello Stato. E chi avesse qualcosa da dire stia muto ed esegua. Il magistrato ha parlato, il politico esegua.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 21 novembre con Flaminia Camilletti
Gianfranco Lande durante un’udienza del processo che l’ha coinvolto (Ansa)
I parenti del consigliere hanno investito una fortuna con Gianfranco Lande. Che per prendere tempo li spingeva a fare «condoni» sui capitali.
Francesco Saverio Garofani in questi giorni viene raccontato come il gentiluomo delle istituzioni, il cattolico democratico che ha attraversato mezzo secolo di politica italiana con la felpa della responsabilità cucita addosso. Quello che nessuno racconta è che lui, insieme a una fetta consistente della sua famiglia, è stato per anni nel giro di Gianfranco Lande, il «Madoff dei Parioli». E che il suo nome, con quello dei tre fratelli, Carlo, Giorgio e Giovanna (che negli atti della Guardia di finanza vengono indicati in una voce cumulativa anche come fratelli Garofani), riempie la lista Garofani nell’elenco delle vittime allegato alla sentenza che ha raccontato, numeri alla mano, la più grande stangata finanziaria della Roma bene, insieme a quello di un certo Lorenzo (deceduto nel 1999) e di Michele, suo figlio, del cui grado di eventuale parentela però non ci sono informazioni.
Getty Images
Travaglio: «Garofani deve dimettersi». Foa: «Non è super partes, lasci». Porro: «È una cosa pazzesca e tentano di silenziarla». Padellaro: «Una fior di notizia che andava pubblicata, ma farlo pare una scelta stravagante». Giarrusso: «Reazioni assurde a una storia vera». L’ex ambasciatore Vecchioni: «Presidente, cacci il consigliere».
Sergio Mattarella (Getty Images)
Il commento più sapido al «Garofani-gate» lo ha fatto Salvatore Merlo, del Foglio. Sotto il titolo «Anche le cene hanno orecchie. Il Quirinale non rischia a Palazzo, ma nei salotti satolli di vino e lasagnette», il giornalista del quotidiano romano ha scritto che «per difendere il presidente basta una mossa eroica: restarsene zitti con un bicchiere d’acqua in mano». Ecco, il nocciolo della questione che ha coinvolto il consigliere di Sergio Mattarella si può sintetizzare così: se sei un collaboratore importante del capo dello Stato non vai a cena in un ristorante e ti metti a parlare di come sconfiggere il centrodestra e di come evitare che il presidente del Consiglio faccia il bis.
Lo puoi fare, e dire ciò che vuoi, se sei un privato cittadino o un esponente politico. Se sei un ex parlamentare del Pd puoi parlare di listoni civici nazionali da schierare contro la Meloni e anche di come modificare la legge elettorale per impedire che rivinca. Puoi invocare provvidenziali scossoni che la facciano cadere e, se ti va, perfino dire che non vedi l’ora che se ne vada a casa. E addirittura come si debba organizzare il centrosinistra per raggiungere lo scopo. Ma se sei il rappresentante di un’istituzione che deve essere al di sopra delle parti devi essere e apparire imparziale.






