2020-07-05
La cucina francese? È nata a Venezia
Nella sua storia millenaria la città lagunare è stata il centro del mondo per qualche secolo. Emporio riconosciuto del lusso europeo. Altro che Via della Seta, qui si aprì la Strada dello Zucchero. I piatti e le tradizioni culinarie locali furono copiate dalle corti parigine.Quando si parla di Venezia si possono aprire scenari infiniti. Altro che i percorsi a fotocopia guidati da un occhio distratto che va poco oltre San Marco e qualche calle d'intorno. Scendendo di panza le solite cose note, che mettono a fuoco qualche sarda in saor e un baccalà conseguente. Una città con una tale storia (anche golosa) alle spalle che ci si chiede come faccia qualcuno a varcare soglie foreste, che sanno di hamburger o sushi all'ingrosso. Nella sua storia millenaria Venezia è stata il centro del mondo, per qualche secolo. Le sue flotte mercantili solcavano il Mediterraneo con il noleggio pagato in anticipo da mercanti che poi trattavano in tutto il continente europeo oggetti di pregio. Venezia ne era l'emporio riconosciuto, tanto che già attorno all'XI° secolo esistevano i «sacchettis Venetis», ovvero profumate spezie che venivano accaparrate dai mercanti a prezzi altissimi e lasciate in eredità assieme ai gioielli di famiglia. Il lusso d'Europa si alimentava a Venezia con traffici senza confini: bizantini, tartari, turchi, persiani. Il leone di San Marco pioniere nell'aprire, ad esempio, la strada dello zucchero, dall'Arabia ai mercati di Rialto. All'inizio ricercati prodotti da farmacia: pasticche, confetti erano un regalo particolare per persone di riguardo. Uno storico delle crociate, Albert d'Aix, registra come il prodotto di canne mielate «dava un succo che veniva raccolto e conservato in vasi per farlo indurire fino a diventare come sale fino o neve». I crociati ne facevano delle pappe mescolandolo con acqua e pane e si nutrivano «quando erano tormentati dalla fame durante gli assedi». Venezia ne deteneva il monopolio commerciale tanto che la prima raffineria venne aperta nel 1598 da Rodrigo da Marchiano, un ebreo di origini portoghesi che, all'inizio, lo importava dal Marocco. Poi si iniziò a produrlo a Candia (l'odierna Creta), da parte di alcune famiglie veneziane locali. Così si spiega l'origine della frutta candita. A quel tempo omaggio di lusso, tanto che ogni nuovo procuratore di San Marco offriva a tutti i membri del Maggior Consiglio alcuni pani di zucchero al suo insediamento. Rimane negli annali della Repubblica Serenissima l'accoglienza riservata, nel 1574, al futuro re di Francia Enrico III. In uno dei tanti banchetti gli venne fatta la sorpresa di una colazione dove tutto, piatti, posate, statue di contorno, era stato modellato con perfetta arte zuccherina da Nicolò della Cavalliera. Talmente d'effetto che se ne accorse solo al momento di indossare il tovagliolo…che gli si sbriciolò tra le mani. Una Venezia che aveva basato le sue fortune sui traffici mercantili, ma attentissima alla qualità, con un ferreo controllo statale sulle sofisticazioni e possibili frodi. Documenti del 1310 testimoniano come si vietava ai pestatori di spezie «di usare ingredienti altri al di fuori di quelli di buona qualità». Uno stato sempre vigile anche sul rapporto tra qualità e prezzo, tanto che già nel 1173 il doge Sebastiano Ziani vietava agli osti di annacquare il vino o mescolare vini diversi, pur con qualche eccezione, ad esempio con un uso controllato «di prima acqua» riservata ad alcuni vini provenienti dal sud, giusto per stemperarne i possibili eccessi di Bacco, tra le calli. Venezia attenta a regolare diverse attività commerciali attraverso le varie corporazioni, con delle singolari curiosità. Ad esempio i pestrini erano coloro che macinavano il grano con grosse mole di pietra azionate da docili vacche che, oltre alle loro fatiche, fornivano anche il latte. Ecco perché, un tempo, a Venezia i lattai si chiamavano pestrini. Vi è poi la storia dei pistori, gli attuali panettieri. A quel tempo vi erano due tipi di pane: il pan bianco (con fior di farina) e il pan traverso (con farina integrale, quindi scuro). I pistori non potevano cuocere, per legge, i due tipi di pane nello stesso forno. Città marinara, Venezia era anche consumatrice di pan biscotto. I forni erano gestiti dallo Stato con manodopera tedesca sotto una attenta vigilanza delle autorità marittime. Nell'isola di Sant'Elena furono fatti costruire ben trentaquattro forni dedicati. La conferma della qualità di questo pane da lunga conservazione nel 1821 quando, in un magazzino a Creta, ceduta dai veneziani ai turchi nel 1669, se ne trovarono dei resti «ben conservati e ancora gradevoli», come testimoniato da un cronista dell'epoca. Con questo pan biscotto si preparava per i marinai un rancio chiamato frisopo. Veniva sbriciolato e bagnato in un liquido, che poteva essere acqua di mare, diluita con olio e aceto. Era il frisopin de mar, ingentilito con aglio e cipolla. Vi era poi la versione «de tera», utile alle milizie quando facevano razzia di pollame in terraferma, consumati lessi o in brodo. Ma dato che (anche) del frisopo non si butta via niente, ecco le varianti domestiche. Il frisopin dei putei (dei bambini), con latte e miele, e quello dei veci, con vin caldo, miele, cannella, chiodi di garofano. Nel Cinquecento Venezia divenne la capitale europea (e quindi mondiale) della stampa. Un volano incredibile per diffondere le tradizioni locali, o assimilare i migliori piatti delle cucine di corte rinascimentale. Come ben descritto dai dipinti dei maestri dell'epoca, Paolo Veronese su tutti. Autori quali Bartolomeo Stefani, Domenico Romoli, detto il Panunto, Bartolomeo Scappi descrivono piatti che poi, con nomi diversi, diventeranno pietre miliari, ad esempio, della cucina francese, con qualche curiosità, tipo la rucchetta (l'odierna rucola), cui si attribuivano virtù afrodisiache, posto che, dello zabaione, ne faceva uso rinvigorente e seriale un certo Giacomo Casanova. Puntuale cronista di un'epoca che si avviava verso una gaudente decadenza Carlo Goldoni, le cui commedie erano spesso ambientate in cucina o negli immediati dintorni, quali La Locandiera e molte altre. Autentiche testimoni di archeologia golosa, con piatti dimenticati, come ad esempio lo stufadin, un assemblaggio di carni diverse, messe in una pentola di coccio chiusa ermeticamente e affidata al fornaio il quale la poneva a lenta cottura nella stua, un piccolo locale posto sopra il forno quotidiano, dove si entrava carponi e si lasciavano a pipare lentamente le pignatte affidate dalle diverse famiglie. Un capitolo a parte, sulla staffa, va riservato al caffè, che vede ancora una volta Venezia pioniera. In una nota riservata del 1585 il diplomatico della Serenissima a Costantinopoli, Gianfranco Morosini, informava il Senato «dell'usanza dei Turchi di bere un'acqua negra, bollente quanto possono sofferire, che si cava da una semente che si chiama cavèe, la quale dicono che ha virtù di fare stare l'uomo svegliato». Sbarca in laguna nel 1640, come medicinale, tanto da essere venduto a carissimo prezzo dai farmacisti. Qualcuno scoprì che, se zuccherata, diventava una bevanda molto gradita agli ammalati, i quali continuarono poi a farne uso anche da sani tanto che, pochi anni dopo, divenne di uso corrente. Nel 1683 aprì la prima rivendita, in piazza San Marco, anche se il primo caffè, come luogo di ritrovo, Venezia trionfante, fu inaugurato da Floriano Francesconi nel 1720, quello che poi è passato alla storia come il Florian, dirimpettaio dell'altrettanto famoso Quadri, fondato nel 1775. Frequentato dalla migliore società dell'epoca, il Florian ebbe tra i suoi fedelissimi Antonio Canova, il celebre scultore che modellò per l'amico Floriano una bellissima gamba di legno, dopo che l'originale gli venne amputata. Nelle famiglie di allora i fondi del caffè non venivano gettati, ma servivano per il caffelatte del mattino seguente. Un adagio veneziano ricordava come «il caffè deve essere nero come la notte, caldo come el cuor, dolce come l'amor». Non erano ancora i tempi delle macchinette con le capsule predosate.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 10 settembre con Flaminia Camilletti
Margherita Agnelli (Ansa)