
La sentenza di Lipsia che permette alle città tedesche di vietare la circolazione delle vetture a gasolio è un colpo per l'industria dell'auto ma anche un boomerang ecologista. Sarà impossibile abbassare le polveri sottili: lo dimostrano la fisica e la chimica.Tra proclami ecochic e pubblicità ingannevole la guerra ai motori diesel scatenata dalla sentenza del tribunale di Lipsia nel marzo scorso rischia di essere un boomerang per l'ambiente. Non pare vero alle giunte di sinistra di poter approfittare di quanto deciso dai giudici tedeschi per poter vietare la circolazione dei propulsori a gasolio, ma non riusciranno comunque ad abbassare le famigerate polveri sottili perché la fisica e la chimica dicono cose differenti.L'industria è riuscita a ridurre il livello delle emissioni di molto, ma soltanto sulle auto più nuove che nessuno regala, ma vietare il diesel è un grande errore poiché i più moderni tra questi propulsori abbattono molto il CO2, e grazie ai filtri delle versioni più moderne ed evolute emettono ben poco Pm10, Pm2.5 e ossidi d'azoto. Viceversa, i propulsori a benzina ottengono risultati differenti in termini di livelli degli inquinanti, ma sopprimere tutte le emissioni resterà impossibile almeno finché la tecnologia elettrica non sarà matura, disponibile, diffusa e sostenibile per il pianeta almeno quanto quella degli idrocarburi.La chimica insegna che il termine CO2 indica l'anidride carbonica, ovvero uno dei gas responsabili dell'effetto serra, sul quale si pagano multe nell'ambito dei protocolli internazionali e in seno alla Ue, ma non è nocivo per l'uomo come gli inquinanti classici come l'ossido di carbonio, gli idrocarburi incombusti, l'ossido d'azoto e appunto il tanto odiato particolato.Purtroppo tanto più una vettura consuma, tanta più CO2 emette a prescindere dal carburante usato. È una legge a cui non si sfugge ed è un errore pensare che catalizzatori e filtri riducano l'emissione di questo gas. L'unico modo sarebbe diminuire i consumi. Ma per bruciare meno si produce meno energia termica e cinetica, e siamo daccapo.Oggi in Italia vietare il diesel significherebbe bloccare quasi 15 milioni di autovetture, oltre la metà del parco circolante. Per esempio il sindaco meneghino Giuseppe Sala è tra chi è saltato subito sul carro del no diesel, ma la sua presa di posizione non è passata inosservata ai circa 150.000 automobilisti lombardi che hanno appena ordinato una nuova autovettura diesel (Euro 6) e che se la vedranno svalutare immediatamente ancora prima di ritirarla di almeno 2.500 euro, ovvero un salasso di oltre 30 miliardi almeno considerando il parco circolante. Il punto è invece che a Milano si continuano a ridurre le carreggiate delle strade e a mettere limiti di velocità più bassi, così il tempo di permanenza di un'autovettura nello stesso spazio si allunga e anche un numero inferiore di auto che transitino nella medesima via entro un determinato periodo di tempo inquinerà più di prima.Gli italiani in genere sarebbero felici di lasciare l'auto in garage, ma rinunciarvi tout-court è impossibile, sia perché non si vive di sola città, sia perché il noleggio in tutte le sue forme presenta ancora grandi limitazioni e non tutta questa grande convenienza. Per esempio, a 26 centesimi al minuto, una Fiat 500 «sharing» per due ore costa oltre trenta euro, e se da un lato non la si deve mantenere, dall'altro è anche vero che a fare la scampagnata domenicale non ci si può andare.Riguardo le auto elettriche è evidente che la mancanza di punti di ricarica fuori città e sulle strade provinciali è il vero limite all'utilizzo, ma c'è di più.Tornando alla fisica, una considerazione veritiera su quali siano davvero le automobili più efficienti nasce dalla definizione stessa del termine «rendimento». Senza ritornare sui banchi ricordiamo che non riguarda direttamente la potenza del motore (o dei motori, nel caso ibrido), bensì il peso del carburante bruciato nell'unità di tempo per sviluppare una determinata potenza. Chi ne brucia meno vince. Non ci vuole il Nobel per capire che il peso delle vetture a pieno carico influirà sul consumo e quindi sull'inquinamento, seppure esso sia mitigato da catalizzatori e filtri anti-particolato.Se si prendono a confronto una piccola autovettura a gasolio che con circa 1200 kg di peso totale trasporti 5 persone a 100 km/h, il suo equivalente ibrido sarà giocoforza più pesante dovendo trasportare anche le batterie, oppure dovrà essere contestualmente meno robusta o meno performante, ed anche se il motore endotermico di quest'ultima fosse più potente interini di cavalli (diciamo un 1500cc a benzina contro un 1200 cc diesel), esso dovrebbe mantenere un regime di rotazione più alto del diesel per generare la medesima potenza e coppia.Dunque, semmai, qualche sindaco sul piede di guerra contro i diesel aprisse gli occhi, sarebbe costretto ad ammettere che in un futuro prossimo il motore di questo tipo vedrà comunque una ripresa perché gli automobilisti si renderanno conto che si tratta di motorizzazioni davvero efficienti: mettiamo meno idrocarburi per fare più strada. Infatti chi ha un'auto a metano si sarà accorto che il potere calorifico del gas è inferiore, e con un pieno si fanno la metà dei chilometri, come ha peraltro dichiarato recentemente l'amministratore delegato del gruppo Volkswagen, Matthias Müller.Le micropolveri che respiriamo in città nascono anche e soprattutto da caldaie, dai sistemi frenanti che sono installati anche su auto ibride, elettriche e a gas.Nessun idrocarburo se non il diesel, se usato da solo, consente oggi di trasportare cinque persone per almeno 600 km con un regime di funzionamento contenuto sviluppando la potenza sufficiente per farlo a una velocità accettabile. E infatti gli italiani, che di motori in genere ne capiscono, sono i soli in Europa che continuano a chiedere più auto diesel, quando per esempio in Germania nel 2017 sono calate dell'8%, ma anche per un costo della benzina inferiore al nostro.Riguardo all'anidride carbonica, le regole comunitarie già fissano una riduzione delle emissioni obbligando i costruttori a scendere dai 118 g/km del 2016 a 95 g/km entro il 2021. Applicando le leggi della fisica, in termini di consumo significa che se oggi un'auto riesce a fare cento km con 4,5 litri di carburante, tra sei anni per rientrare nelle norme europee dovrà consumarne meno di quattro ogni cento km se alimentata a benzina; 3,6 se alimentata a gasolio; 5,9 se è alimentata a Gpl o bruciare 3,46 kg se alimentata a metano.Sbugiardati sindaci e assessori, è evidente che sono risultati irraggiungibili senza considerare i motori Diesel. Tra questi, la riduzione delle emissioni tra un Euro 4 e un Euro 5 è notevole, tanto che prima del settembre 2019 non sarà consentito alcun blocco dei mezzi che li utilizzano. Per esempio, se tutti i diesel circolanti fossero come quelli incriminati dal dieselgate, ovvero moderni, il problema delle micropolveri non si porrebbe.Non su tutte le classi di autovetture il diesel rimane la soluzione più efficiente, per esempio sulle citycar lo vedremo probabilmente scomparire perché abbassare le emissioni nocive su cilindrate ridotte è ancora più complesso, non a caso diverse case non propongono più motorizzazioni di questo tipo al di sotto del 1400cc, come sostiene Steven Armstrong, numero uno di Ford Usa.Il punto rimane sempre la percorribilità delle strade: Parigi, Londra e Amsterdan hanno reso decisioni che certamente andranno riviste e la sentenza del tribunale di Lipsa di dare ragione alle municipalità di Düsseldorf e Stoccarda di voler vietare i diesel senza la necessità di un provvedimento nazionale.Le case automobilistiche seguono la domanda, ma è anche vero che i maggiori mercati mondiali, ovvero Usa e Cina, non sono avvezzi a usare questa tecnologia che in due decenni ha consentito di ridurre del 92% gli ossidi di azoto (NOx) e del 97% per le polveri sottili (Pm10). Questo fatto è importante soprattutto quando si sente affermare da un colosso come Toyota che non farà più motori diesel dal 2018, ma non certo per i sindaci europei, bensì perché il volume d'affari sta altrove e comunque da questa scelta sono ovviamente esclusi i veicoli commerciali e i fuoristrada che tanto piacciono a chi ama le scampagnate.Sempre la fisica, convertendo i cavalli in chilowatt, ci ricorda che se oggi potessimo sostituire tutte le auto diesel con macchine elettriche l'impatto della richiesta di produzione dell'energia farebbe rialzare i livelli di inquinamento perché costringerebbe a bruciare più petrolio di quanto non se ne consumi ora, al fine di essere prodotta e disponibile 24 ore al giorno ovunque, mentre ora la richiesta di idrocarburi avviene quando si fa il pieno di diesel o benzina.La stessa Ue sostiene che soltanto il 14% delle emissioni di Pm10 e Pm 2,5, cioè a parole i grandi nemici dei nostri sindaci, sono prodotti dal trasporto, e di questa modesta quantità circa il 6% è trattenuto dai filtri anti particolato dei mezzi stessi (che però da qualche parte andranno anche smaltiti). Freni, pneumatici e olii producono il resto, ma il restante 86% di polveri arriva da impianti di riscaldamento non controllati.Se l'elettrico e l'ibrido continueranno a migliorare sarà anche corretto acquistare queste soluzioni, almeno finché non esisteranno tasse o limiti sull'inquinamento generato da chi produce e smaltisce le batterie, poiché il litio presente sulla Terra si ricava nelle miniere, e nonostante in Australia, Sudamerica e Africa ce ne sia, esso è molto meno del petrolio ancora disponibile.Arriveranno incentivi per chi abita a Milano e Roma in modo da facilitare il cambio dell'automobile? Difficile, perché se anche questi ammontassero a 3.000 euro per automezzo servirebbero almeno 50 miliardi da far piovere nelle tasche degli automobilisti nel quinquennio 2019-2024.Facile aspettarsi che si vorranno accontentare i politici del momento senza però poter obbligare alcuno a fermarsi, come già accaduto ai tempi dell'apparizione della benzina verde. Così chi è propenso e nella possibilità di cambiare automobile lo farà inquinando da poco ad ancor meno, chi non potrà permettersi il cambio continuerà a inquinare più di tutti.
Donald Trump (Ansa)
La Corte Suprema degli Stati Uniti si appresta a pronunciarsi sulla legittimità di una parte dei dazi, che sono stati imposti da Donald Trump: si tratterà di una decisione dalla portata storica.
Al centro del contenzioso sono finite le tariffe che il presidente americano ha comminato ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa). In tal senso, la questione riguarda i dazi imposti per il traffico di fentanyl e quelli che l’inquilino della Casa Bianca ha battezzato ad aprile come “reciproci”. È infatti contro queste tariffe che hanno fatto ricorso alcune aziende e una dozzina di Stati. E, finora, i tribunali di grado inferiore hanno dato torto alla Casa Bianca. I vari casi sono quindi stati accorpati dalla Corte Suprema che, a settembre, ha deciso di valutarli. E così, mercoledì scorso, i togati hanno ospitato il dibattimento sulla questione tra gli avvocati delle parti. Adesso, si attende la decisione finale, che non è tuttavia chiaro quando sarà emessa: solitamente, la Corte Suprema impiega dai tre ai sei mesi dal dibattimento per pronunciarsi. Non è tuttavia escluso che, vista la delicatezza e l’urgenza del dossier in esame, possa stavolta accelerare i tempi.
Gennaro Varone
Il pubblico ministero Gennaro Varone sulla separazione delle carriere: «Le correnti sono orientate proprio come un partito politico».
«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).
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Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.






