2021-10-23
La Consulta si aggrappa ai cavilli per «assolvere» i dpcm di Conte
Guseppe Conte (Getty images)
La Corte boccia il ricorso e ignora le gravi anomalie istituzionali ricadute sui cittadiniIeri, la Consulta ha depositato la sentenza, anticipata da un comunicato del 23 settembre, con la quale ha «assolto» i dpcm di Giuseppe Conte. Più precisamente, la Corte ha stabilito che il decreto legge 19/2020, in virtù del quale era stato sanzionato un cittadino laziale, reo di aver violato il lockdown, non è illegittimo: esso, a differenza di quanto ipotizzato dal giudice di pace di Frosinone, non ha delegato alcuna funzione legislativa al presidente del Consiglio - il che sarebbe stato incostituzionale. Semmai, si è limitato a «tipizzare», a fornire una determinazione giuridica alle misure adottabili dal premier, secondo principi di adeguatezza e proporzionalità, circoscrivendo l’esercizio della discrezionalità amministrativa. Quel che è accaduto si presta a due ordini di riflessioni. La prima, più di pancia: tocca constatare che, quando si tratta di decidere tra le prerogative dello Stato e i diritti del cittadino, la Corte costituzionale tende a dar ragione al potere costituito. È andata così, appunto, con i provvedimenti anti Covid, che per mesi hanno costretto gli italiani ai domiciliari. Peraltro, contro il parere degli esperti, i quali, come si apprese dai verbali del Cts desecretati, a marzo 2020 non avevano affatto chiesto una serrata nazionale. D’altronde, con una bella faccia fresca, anche Roberto Speranza, ad aprile, ha dovuto ammettere che «all’aperto il virus si diffonde molto meno». Dunque, non c’era ragione scientifica per chiuderci in casa. Ma il copione s’è ripetuto pure con l’ok dell’altro giorno alla proroga del blocco degli sfratti, sulla quale la Consulta ha fatto spallucce: tanto, la disposizione sparirà a fine anno. Direte voi: i giudici hanno tutelato i morosi incolpevoli, cioè le famiglie rovinate dall’epidemia. Vero solo in parte, perché il Covid c’è stato per tutti, locatari e locatori. Anche questi ultimi, spesso di reddito medio-basso, potrebbero aver perso il lavoro. Solo che lo Stato, senza neppure riconoscere adeguati indennizzi, ha scaricato su di essi l’onere di assicurare un tetto alle vittime della crisi crisi. Crisi aggravata proprio da quelle misure draconiane decise dal governo. Prima ancora, a ottobre 2020, la Corte costituzionale aveva avallato lo stop alle rivalutazioni delle cosiddette «pensioni d’oro» e il contributo di solidarietà, anche se non di durata quinquennale. Un’altra «bollinatura» a una discutibile decisione politica, sull’onda di un populismo, questo sì, pericoloso, poiché pronto a calpestare lo Stato di diritto pur di punire la fantomatica «casta». Come se non bastasse, una sentenza di luglio 2021 ha invece bocciato la revoca dei trattamenti assistenziali riservati ai condannati per mafia e terrorismo, che scontino la pena fuori dal carcere: lo Stato - poverini - non può «privarli dei mezzi per vivere». Insomma, il diritto dei mafiosi e dei terroristi a percepire gli assegni pubblici non si tocca; quello dei cittadini a uscire di casa, invece, è conculcabile, nel nome della presunta sicurezza sanitaria. La seconda riflessione riguarda la surrettizia trasformazione del nostro sistema politico. A leggere la sentenza della Consulta sui dpcm, si ha l’impressione che a salvare una grave anomalia istituzionale, tra l’altro a suo tempo denunciata da ex membri della stessa Corte, come Sabino Cassese, oltre che dall’allora presidente, Marta Cartabia, siano stati dei cavilli. Ad esempio, la Consulta ha dovuto dichiarare inammissibili le questioni sollevate in merito al primo dl censurato dal giudice di Frosinone, il 6 del 2020, perché era già scaduto quando era stata comminata la sanzione oggetto del ricorso. Per il resto, spicca la circolarità del ragionamento della sentenza: è vero che il dpcm del 10 aprile 2020 fissava «ulteriori disposizioni attuative» di un dl precedente, quello del 25 marzo; ma è anche vero che ogni decreto legge ha banalmente riprodotto le misure introdotte dai dpcm antecedenti, in una spirale a ritroso che, da ultimo, rimanda alla dichiarazione di stato d’emergenza. Sulla quale, però, la Consulta non è stata interpellata e, dunque, non si è pronunciata. Eppure, il giudice di pace del Lazio aveva espresso riserve sulla sua legittimità, rilevando che il riferimento alle «calamità naturali», contenuto nel decreto legislativo sulla Protezione civile (1/2018), non avrebbe dovuto includere il «rischio sanitario» derivante dall’epidemia.Inoltre, i passaggi parlamentari nel pieno dell’emergenza sono stati delle pure e semplici ratifiche. Non che le Camere abbiano brillato per coraggio e pertinacia, ma l’Aula era sottoposta a un ricatto permanente: opporsi al Re Sole Conte significava essere additati quali nemici della salute pubblica.Si sta perciò realizzando l’incubo di qualunque padre costituente: sta cambiando la sostanza di un organismo politico, sebbene le forme rimangano inalterate. Tra stato d’emergenza scivolato nello stato d’eccezione e introduzione graduale di un sistema di credito sociale, di cui il green pass è il prodromo, la Costituzione è sempre più lettera morta, quantunque i singoli provvedimenti che l’hanno picconata risultino formalmente ineccepibili. Nessuna «rigidità» della Carta, nessuna istituzione di garanzia, come dovrebbe essere la Consulta, hanno arginato la deriva. E per preoccuparsene, non occorre convincersi che viga già una feroce dittatura: tra l’idealtipo della democrazia liberale e la distopia del regime cinese, ci sono tanti gradini intermedi. Noi li stiamo scendendo di corsa.
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)