2020-06-24
La Consulta «porte aperte» nasce dai giudici indipendenti dalle leggi
I magistrati hanno ormai abbandonato il ruolo di interpreti delle norme per assumere quello di solenni custodi della verità e di creatori del diritto Il caso di Luca Palamara è una conferma.Chi ha letto i resoconti delle intercettazioni di Luca Palamara, al centro dello scandalo del Consiglio superiore della magistratura, si sarà giustamente indignato perché chi avrebbe dovuto tutelare la legge pensava invece alle prebende proprie e degli amici. E si sarà detto: «in che tempi viviamo». A ragion veduta, perché i tempi sono schiodati, ma non molto più di quanto lo fossero quelli andati. Basta leggere un libretto del 1820 di François Guizot per accorgersi che non c'è nulla di nuovo sotto il sole e che il rapporto dei giudici con il potere nello Stato di diritto ha sempre rappresentato un problema.La Costituzione come insieme di valori ha avuto un effetto a cascata su tutti i gradi dell'ordinamento giudiziario, nel senso che se la Costituzione deve essere la bussola di tutti i giudici, l'interpretazione finisce con l'essere sempre in qualche modo creativa. Il giudice non applica, crea. La sentenza è una legge, individuale ai gradi più bassi e generale in quelli supremi e costituzionali. Insomma: a partire dalla Rivoluzione francese, che aveva vietato al giudice l'interpretazione della legge, si è messo in moto un meccanismo inesorabile: il giudice ha scoperto di essere un legislatore e potendo fare indirettamente le leggi ha affinato la sua volontà di potenza. È un errore pensare che i giudici siano «a servizio», anche se ogni tanto si scopre che qualcuno aveva questo o quel rapporto oscuro: i giudici sono un potere, anche se la Costituzione parla di «ordine», ed essendo un potere si sviluppa anche una volontà di potenza, che si colloca non solo negli interstizi del sistema, ma sempre più spesso fuori e al di sopra del sistema. Chiedere al giudice di interpretare la norma secondo i metodi classici significa offendere colui il quale detiene una sapienza che non può dipendere dalla debole e contorta volontà del legislatore di turno. Ci sono giudici di scarsa cultura, che vengono colti in flagrante in turpiloqui, motteggi e progetti di arrampicature danarose, ma anche giudici onesti, tecnicamente attrezzati che in fondo si ritengono capaci di dire loro quello che «deve» essere diritto.Si tratta di un fenomeno, questo del disprezzo da parte di certi giudici delle leggi positive in nome di qualcosa di «più alto», che viene da lontano. Già nel 1950 Francesco Carnelutti, lamentando la crisi della legge, scriveva che la crisi «si ripercuote nel campo del giudizio, in quanto si risolve in una perdita di prestigio della legge, e con ciò favorisce la disobbedienza, […] perfino del giudice, sul quale operano complessi stimoli per allentare i legami che lo vincolano al sistema». E continuava ricordando la «aperta negazione del valore imperativo della legge nelle sentenze di una nota corte di appello» (La crisi del diritto, Cedam).Nel 1950 mancavano ancora sei anni all'istituzione della Corte costituzionale, ovvero alla trasformazione dello Stato di diritto: dalla legge sacra perché voluta dalla nazione alla legge costituzionale sacra perché contiene valori ed è anzi un sistema di valori, i quali vogliono essere imposti; d'ora innanzi saranno i giudici ad imporli, interpretando i princìpi della Costituzione, quelli dichiarati e quelli che verranno di volta in volta scoperti. Ciò che determina l'impossessamento del processo di produzione del diritto da parte dei giudici è la rivoluzione dei diritti dell'uomo, anzi «umani», che essendo universali si collocano al di sopra della Costituzione e dei quali i giudici sono i veri custodi.E così si arriva all'apertura della Corte costituzionale alla società civile, azione impensabile in uno Stato di diritto classico, ma logica quando il diritto è un fenomeno soggetto alle trasformazioni e all'imperio dei valori, che sono arbitrari e devono essere giustificati con il consenso. Il giudice non è più un ordine dello Stato, ma un potere custode prima della verità, poi della virtù, infine del proprio potere, che riconosce solo i colleghi delle altre corti, nazionali e sovranazionali, con i quali intreccia le cosiddette «reti giudiziarie». Anello intermedio tra il giudice cui pensava Carnelutti nel 1950 e quello di questi giorni è stato il «pretore d'assalto» del dopo-68, di cui si può leggere nel Diario di un pretore di Romano Canosa (Einaudi), che in pagine significative racconta con compiacimento di quando i corridoi della sua pretura erano invasi dalle tute blu degli operai, l'omologo della società civile cui oggi vuole «aprire» la Consulta il Presidente Cartabia. Ecco perché, al momento, l'unica soluzione praticamente efficace si è rivelata quella della determinazione per legge dei poteri delle procure, giudiziari e specificamente delle corti costituzionali in paesi come la Polonia e l'Ungheria, le cosiddette «democrazie illiberali». Una soluzione che lascia certo perplessi per paesi come il nostro, di più radicata civiltà giuridica, senonché bisogna anche sapere che a Venezia ci sono dei signori, molto amici proprio dei giudici, che ogni tanto si riuniscono per favorire «la democrazia attraverso il diritto», ovvero le sentenze, e valutare il «tasso di democraticità» di questo o quel paese: è la Commissione di Venezia del Consiglio d'Europa. E in effetti fino a quando l'alternativa sarà tra un governo democraticamente eletto (come quello ungherese) e un consesso di sconosciuti «illuminati di Baviera» dalla dubbia legittimazione popolare che ci insegnano cos'è la democrazia e quanto «democratico» è un paese, la scelta sarà inevitabilmente per le «democrazie illiberali».
(Totaleu)
«Tante persone sono scontente». Lo ha dichiarato l'eurodeputato della Lega in un'intervista al Parlamento europeo di Strasburgo.