2021-11-03
La Consulta non ha promosso i dpcm
Giuseppe Conte (Vincenzo Izzo/LightRocket via Getty Images)
La Corte ha respinto il ricorso del giudice di Frosinone per motivazioni tecniche. Però non ha mai affermato che il premier può essere arbitro dei diritti costituzionali.La Verità ha già pubblicato due ottimi contributi di Daniele Capezzone e Carlo Tarallo che hanno messo in evidenza le criticità sottese alla sentenza 198 del 2021 della Corte costituzionale che, secondo la vulgata, avrebbe «salvato» i dpcm di Giuseppe Conte. A riguardo ci sentiamo di svolgere alcune riflessioni funzionali a inquadrare nel sistema di giustizia costituzionale italiana la recente pronuncia del giudice delle leggi. La decisione di Palazzo della Consulta è, com'è noto, al contempo di inammissibilità e di rigetto: di inammissibilità perché il giudice di pace di Frosinone aveva indicato nella sua ordinanza di rimessione alla Corte disposizioni normative del decreto legge numero 6 del 2020 non più applicabili al giudizio pendente davanti a lui, in quanto era intervenuto il decreto-legge 19 del 2020 volto ad uniformare le diverse misure di contenimento per impedire la diffusione dell'agente virale Sars-Cov-2; di rigetto poiché il giudice costituzionale ritiene che non sussista la violazione degli articoli 76 e 77 della Costituzione vigente, o meglio che l'attribuzione al presidente del Consiglio dei ministri pro tempore del potere di adottare i dpcm non costituisca una delega anomala, ma semplicemente una modalità di attuazione del decreto legge. La Corte, però, con la sua sentenza, non dichiara la conformità del decreto legge n. 19/2020 a Costituzione, ma si limita a giudicare non fondata l'eccezione di costituzionalità relativamente ai parametri, ossia alle sole norme costituzionali ed alle argomentazioni addotte, che il giudice di pace di Frosinone aveva invocato. Pertanto, nulla vieta a un altro giudice di poter adire la Corte, indicando diversi profili di possibile illegittimità sorretti da motivazioni differenti rispetto a quelle analizzate nella sentenza numero 198 del 2021. Sarebbe, invece, stato interessante chiedere a Palazzo della Consulta se un provvedimento provvisorio avente forza di legge del governo, fondato sui presupposti giustificativi di straordinarietà, urgenza e necessità ai sensi dell'articolo 77, comma 2 della Costituzione, possa contenere disposizioni normative a efficacia differita (come per i vari decreti legge sul green pass), cioè idonee a produrre i loro effetti a distanza di tempo rispetto alla data della loro entrata in vigore e se un dpcm, un atto formalmente amministrativo non sottoposto ad alcun controllo preventivo (neppure da parte del presidente della Repubblica), abbia titolo per bilanciare interessi costituzionali contrapposti (la salute quale «interesse della collettività» e altri diritti costituzionalmente tutelati) sottraendoli alla valutazione del decisore politico e affidandoli unicamente al presidente del Consiglio dei ministri. Infatti, anche ammesso che un decreto legge, in alcuni casi, presenti norme non immediatamente applicabili, questo, ha precisato la Corte costituzionale nella sentenza numero 16 del 2017, può concernere «qualche aspetto» e non certamente interi decreti o una pluralità di misure di contenimento. Il rischio non è quello di legittimare un ulteriore abuso nella già bulimica decretazione legislativa di questo anno e mezzo di pandemia? Dovremmo, allora, rassegnarci all'affermarsi, sul piano sostanziale, di una nuova Costituzione dell'emergenza?
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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