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2019-09-28
La Consulta e i partiti agitano il populismo per agire contro la sovranità popolare
Ansa
Il «populismo» sembra diventato, insieme al «sovranismo» (che normalmente gli viene associato), il principale nemico di un «establishment» ormai caratterizzato da una pressoché generalizzata inclinazione a sinistra. Coloro che con rabbiosa veemenza o spocchiosa supponenza lo fanno oggetto dei loro attacchi si guardano bene, tuttavia, dallo spiegare quale sia, secondo loro, il preciso significato che al termine debba essere attribuito e per quale specifica ragione esso si attaglierebbe all'azione politica dei loro avversari. Il che, a fronte della sempre maggiore difficoltà che la sinistra sembra incontrare nell'acquisizione o nel mantenimento del consenso degli elettori, lascia fondatamente sospettare che il «populismo» sia solo la falsa etichetta da essa astutamente applicata al suo vero nemico, oggi costituito né più e né meno che dalla sovranità popolare. Questa è vista, infatti, come il fumo negli occhi da quanti, per interesse o per sostanziale sfiducia nella democrazia (cosa di per sé legittima ma ipocritamente nascosta), sono favorevoli a sistemi caratterizzati dalla prevalenza di poteri non derivanti da investitura popolare ma capaci, ciononostante, di contrapporsi con successo, quando non le condividano, alle scelte politiche degli organi ai quali invece quell'investitura è stata legittimamente conferita; condizione, questa, che è venuta a realizzarsi, in Italia, mediante l'uso di strumenti giuridici che, gradualmente e senza troppo dare nell'occhio, sono stati pazientemente costruiti o adattati nel corso degli anni, profittando dell'ignavia, della distrazione o dell'ignoranza di quanti avrebbero potuto o dovuto opporvisi.
Il primo di tali strumenti è consistito nella pressoché totale abrogazione dell'immunità parlamentare; istituto di cui si era sicuramente fatto talvolta un uso abominevole ma la cui scomparsa si è rivelata un rimedio peggiore del male, perché ha posto nelle mani della magistratura il destino politico di un qualunque eletto dal popolo a carico del quale venga formulata una qualsivoglia accusa penale, con effetti che possono quindi risultare, nell'immediato, esiziali, pur quando poi, all'esito del procedimento, l'accusa si riveli infondata e magari anche frutto di astute macchinazioni. Va ricordato, in proposito, che, secondo la Costituzione, «la giustizia è amministrata in nome del popolo». Risulta, quindi, del tutto assurdo che, in nome del popolo, venga sottoposto a procedimento penale un soggetto al quale deve presumersi che lo stesso popolo, investendolo del mandato parlamentare, abbia conferito la sua fiducia, e questa non sia stata revocata, come era invece possibile, vigendo l'immunità parlamentare, mediante il rilascio dell'autorizzazione a procedere da parte del Parlamento, quale organo rappresentativo della volontà popolare.
Il secondo strumento è rappresentato dalla Corte costituzionale. La sua funzione, nell'ottica dei Padri costituenti, avrebbe dovuto essere soltanto quella di cancellare dall'ordinamento le norme che imponessero obblighi, divieti o limitazioni in contrasto con la Costituzione. Già a partire dai primi anni Settanta, però, la Corte cominciò ad «allargarsi» inventando le cosiddette «sentenze additive» o anche «manipolative»; quelle, cioè, con le quali si dichiarava l'illegittimità costituzionale di una norma non per quello che essa prevedeva ma per quello che non prevedeva ma avrebbe dovuto, secondo la Corte, prevedere o prevedere in modo diverso; il che equivaleva, di fatto, alla creazione di una nuova norma, con usurpazione, quindi, di una competenza che, in realtà, sarebbe stata solo del Parlamento, titolare esclusivo, nel sistema costituzionale, del potere legislativo; indirizzo, questo, che ha avuto la sua ultima (nel tempo) manifestazione con la recentissima pronuncia che ha reso non punibile, a determinate condizioni, il reato di aiuto al suicidio. Si passò poi ad affermare che potesse dichiararsi l'incostituzionalità di una qualsiasi norma di legge sol perché ritenuta, a giudizio della Corte, «irragionevole»; ciò sulla base di un principio ricavabile, secondo la stessa Corte, dall'articolo 3 della Costituzione, il quale però, non ne fa alcuna espressa menzione, limitandosi esso a stabilire soltanto, per quanto qui interessa, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge. Inutile dire che, nulla essendovi di più opinabile del concetto di «ragionevolezza», la Corte si è in tal modo aperta la possibilità pressoché illimitata di sostituire la propria valutazione a quella che costituiva il fondamento della norma di legge sottoposta al suo esame. Come se non bastasse, in tempi più recenti, la Corte si è anche arrogata il potere di dichiarare l'incostituzionalità, in blocco, della legge di conversione di un decreto legge sol perché, a suo giudizio, quest'ultimo era stato emanato senza che esistessero, al momento, le condizioni di «straordinaria necessità ed urgenza» previste dall'articolo 77 della Costituzione; condizioni che, in realtà, dovrebbero formare oggetto di una valutazione esclusivamente politica da parte del Parlamento allorché viene chiamato, con la richiesta di conversione del decreto legge, a ratificare o meno la decisione assunta, in sua vece, dal governo.
Un terzo strumento è quello costituito dalla prerogativa che gli ultimi presidenti della Repubblica si sono autoattribuita di sindacare nel merito i decreti legge predisposti dal governo e di bloccarne, quindi, in caso di dissenso, l'emanazione; il che si pone in radicale contrasto con l'articolo 76 della Costituzione, che espressamente attribuisce solo al governo la responsabilità dell'emanazione dei decreti legge, anche se questi debbono poi assumere la veste formale di decreti del presidente della Repubblica. Anche in questo modo, quindi, viene messa da parte la sovranità popolare, giacché solo il Parlamento, che di essa è espressione diretta, è l'organo legittimato a sindacare, in sede di conversione, il merito dei decreti legge adottati dal governo. Al presidente della Repubblica può riconoscersi il potere di rifiutarne la firma solo quando essi costituiscano, con assoluta evidenza, nel loro complesso, un attentato ai principi basilari della Costituzione; cosa ben diversa dal semplice sospetto di una possibile incostituzionalità di singole disposizioni che vi siano contenute.
Un quarto strumento è poi ancora quello costituito dalla intervenuta modifica, nel 2001, dell'articolo 117 della Costituzione, per cui il potere legislativo dev'essere ora esercitato non solo, com'era già da prima, nel rispetto della Costituzione, ma anche nel rispetto di tutti «i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Ciò significa che mentre, in precedenza, l'eventuale inosservanza di quei vincoli nella creazione di una norma interna, a opera del legislatore nazionale, si sarebbe risolta soltanto nell'assunzione, da parte del medesimo legislatore, della relativa responsabilità politica per le conseguenze che, sul piano dei rapporti internazionali, ne sarebbero potute derivare all'Italia, ora quella stessa inosservanza può comportare l'eliminazione dall'ordinamento interno, per incostituzionalità, della norma di legge che ne sia ritenuta affetta. La volontà popolare della quale è da presumersi che quella norma fosse stata espressione viene quindi necessariamente a soccombere a fronte di quanto deciso, con la creazione dei vincoli in questione, da organi alla cui formazione, com'è noto, quella stessa volontà non concorre o concorre in modo assai limitato.
L'elenco potrebbe continuare ma quanto detto finora sembra sufficiente a dimostrare che la sovranità popolare si trova ormai in una condizione assimilabile a quella in cui Gulliver era stato ridotto dai lillipuziani che, mentre egli dormiva, lo avevano legato al suolo con una enorme quantità di sottili ma robustissimi fili, così impedendogli ogni movimento. Che qualcuno, appellandosi all'articolo 1 della Costituzione, voglia che almeno una parte di questi fili venga tagliata non dovrebbe, di per sé, costituire motivo di scandalo.
«È nata la “giuristocrazia”: le toghe si credono al di sopra dello Stato»
Agostino Carrino è uno dei più importanti giuristi italiani e studia da anni il rapporto tra politica e potere giudiziario. Un tema che è tornato ad approfondire nel suo recente La Costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti (Mimesis) e che, come dimostra la pronuncia della Consulta sul caso Cappato, è di drammatica attualità.
Professore, per uno Stato fondato su separazione dei poteri e principio di rappresentanza democratica, l'intervento della Corte costituzionale è un'anomalia?
«Per una valutazione completa dovremo attendere la pubblicazione della sentenza nel merito dell'articolo 580 del codice penale. Al momento la Corte non legittima un “diritto al suicidio", né ha depenalizzato l'aiuto al suicidio; è possibile però che la sentenza venga recepita ideologicamente in tal senso. Comunque, il problema generale cui lei accenna, ovvero il rapporto tra giustizia e politica, non tocca solo il nostro ordinamento».
No?
«Per una bizzarra, ma istruttiva coincidenza, prima della sentenza della Consulta sul caso Cappato, abbiamo avuto la sentenza della Corte Suprema del Regno Unito sulla decisione del primo ministro di prorogare la chiusura della Camera dei Comuni».
Certo. Una riposta alla mossa di Boris Johnson per blindare la Brexit.
«A parte gli ambiti differenti, in entrambi i casi è evidente una supplenza del potere giudiziario rispetto al potere politico. Se di anomalia si tratta, è un'anomalia che io definisco strutturale: nello Stato di diritto come si è formato dall'Ottocento a oggi, il potere giudiziario inevitabilmente “tracima"».
Gli «sconfinamenti» sono iscritti nella forma che ha assunto lo Stato di diritto?
«Più o meno. Persino nel Regno d'Italia, negli anni Ottanta dell'Ottocento, la Corte di cassazione a sezioni riunite decideva sulla legittimità dei decreti legge del governo. Il problema non è tanto la divisione dei poteri - che è una tecnica da elogiare ma impraticabile, realisticamente - quanto l'equilibrio dei poteri. Da noi quello che manca è la buona qualità della classe politica in generale. A quel punto, prima o poi, subentra il giudice».
Ecco: qualcuno osserva che il Parlamento avrebbe potuto legiferare prima e che, se esistono buchi nell'ordinamento, è normale che altri organi istituzionali intervengano a tappare le falle. Ma bisogna davvero legiferare su tutto?
«Il potere legislativo non è obbligato a legiferare. Anzi, per certi aspetti un potere consapevole di sé dovrebbe legiferare il meno possibile. Troppe leggi sono un disastro per i popoli civili. Legiferare su tutto è una limitazione delle libertà individuali. Uno Stato che mi regola anche nel privato è peggio di uno Stato cosiddetto totalitario».
Il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, disse che la decisione sul fine vita aveva inaugurato un principio di «collaborazione» tra Consulta e Parlamento. Lui sosteneva che così la Corte avrebbe aiutato il Parlamento a svolgere al meglio la sua funzione. E se invece, al contrario, lo svuotasse?
«Il giudice deve essere un potere dello Stato. Ma quando si erge a interprete autorizzato del mondo mobile di diritti che si gonfiano sempre più e costruisce su principi che possono prescindere dalla legge positiva, vuol dire che egli si ritiene, in virtù del primato della Costituzione sullo Stato e dell'interpretazione per principi e non per regole, teorizzata proprio da alcuni degli attuali giudici della Consulta, al di sopra dello Stato stesso, in nome di astratti “diritti dell'uomo" slegati dalla cittadinanza».
La sentenza della Consulta costituirà un precedente pericoloso? Politici irresponsabili potrebbero essere tentati di demandare le decisioni ai magistrati, dall'altro questi ultimi potrebbero essere tentati di fare i legislatori senza passare per le elezioni.
«Non è questione di precedenti, ma di tendenza, di un processo involutivo».
Cioè?
«Lo Stato dei giudici e, in particolare, il “diritto giudiziario", non sono un futuro possibile, ma una realtà presente, con la quale fare i conti».
Cosa potrebbe fare la politica per correggere il processo involutivo?
«Lo Stato dei giudici o la “giuristocrazia", come dicono gli americani, può essere controllato e il giudice tornare a essere un organo funzionale allo Stato solo in presenza di un personale politico autorevole. Sul vostro giornale, Marcello Veneziani ci ha invece presentato una realtà politica tristissima, fatta di maschere di carnevale. Non a caso, per questa gente, meno si vota e meglio è».
Dicono che non si può votare di continuo...
«In America si vota ogni due anni. Anche per questo, da noi, la prima riforma costituzionale da fare sarebbe ridurre le legislature da 5 a 4 anni».
A questo punto come si orienteranno i giudici che dovessero affrontare situazioni tipo quella di Marco Cappato?
«Potremo avere, in casi diversi, sentenze non omogenee, sulle quali dovrà intervenire la Cassazione, finché il legislatore non avrà dettato linee uniformi, su presupposti, figure coinvolte e procedure anche per quanto riguarda il diritto all'obiezione di coscienza».
Quali sono i rischi?
«Sono possibili criticità nel rapporto tra la decisione del soggetto sofferente e l'atto di chi dovrebbe procedere per esempio alla somministrazione del farmaco. Il rischio che la confusione aumenti esiste. La mia paura, poi, è che, in presenza di un legislatore qualitativamente debole come quello odierno, ci saranno compromessi poco razionali ed eticamente discutibili».
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La Corte costituzionale crea nuove norme usurpando il ruolo del Parlamento. Il Quirinale sindaca nel merito i decreti legge.«È nata la "giuristocrazia": le toghe si credono al di sopra dello Stato». Lo studioso Agostino Carrino: «La decisione sul caso Cappato genererà sentenze disomogenee finché il Parlamento approverà una norma, che sarà un pessimo compromesso. Ma se i giudici legiferano è pure colpa della politica imbelle».Lo speciale comprende due articoli. Il «populismo» sembra diventato, insieme al «sovranismo» (che normalmente gli viene associato), il principale nemico di un «establishment» ormai caratterizzato da una pressoché generalizzata inclinazione a sinistra. Coloro che con rabbiosa veemenza o spocchiosa supponenza lo fanno oggetto dei loro attacchi si guardano bene, tuttavia, dallo spiegare quale sia, secondo loro, il preciso significato che al termine debba essere attribuito e per quale specifica ragione esso si attaglierebbe all'azione politica dei loro avversari. Il che, a fronte della sempre maggiore difficoltà che la sinistra sembra incontrare nell'acquisizione o nel mantenimento del consenso degli elettori, lascia fondatamente sospettare che il «populismo» sia solo la falsa etichetta da essa astutamente applicata al suo vero nemico, oggi costituito né più e né meno che dalla sovranità popolare. Questa è vista, infatti, come il fumo negli occhi da quanti, per interesse o per sostanziale sfiducia nella democrazia (cosa di per sé legittima ma ipocritamente nascosta), sono favorevoli a sistemi caratterizzati dalla prevalenza di poteri non derivanti da investitura popolare ma capaci, ciononostante, di contrapporsi con successo, quando non le condividano, alle scelte politiche degli organi ai quali invece quell'investitura è stata legittimamente conferita; condizione, questa, che è venuta a realizzarsi, in Italia, mediante l'uso di strumenti giuridici che, gradualmente e senza troppo dare nell'occhio, sono stati pazientemente costruiti o adattati nel corso degli anni, profittando dell'ignavia, della distrazione o dell'ignoranza di quanti avrebbero potuto o dovuto opporvisi. Il primo di tali strumenti è consistito nella pressoché totale abrogazione dell'immunità parlamentare; istituto di cui si era sicuramente fatto talvolta un uso abominevole ma la cui scomparsa si è rivelata un rimedio peggiore del male, perché ha posto nelle mani della magistratura il destino politico di un qualunque eletto dal popolo a carico del quale venga formulata una qualsivoglia accusa penale, con effetti che possono quindi risultare, nell'immediato, esiziali, pur quando poi, all'esito del procedimento, l'accusa si riveli infondata e magari anche frutto di astute macchinazioni. Va ricordato, in proposito, che, secondo la Costituzione, «la giustizia è amministrata in nome del popolo». Risulta, quindi, del tutto assurdo che, in nome del popolo, venga sottoposto a procedimento penale un soggetto al quale deve presumersi che lo stesso popolo, investendolo del mandato parlamentare, abbia conferito la sua fiducia, e questa non sia stata revocata, come era invece possibile, vigendo l'immunità parlamentare, mediante il rilascio dell'autorizzazione a procedere da parte del Parlamento, quale organo rappresentativo della volontà popolare. Il secondo strumento è rappresentato dalla Corte costituzionale. La sua funzione, nell'ottica dei Padri costituenti, avrebbe dovuto essere soltanto quella di cancellare dall'ordinamento le norme che imponessero obblighi, divieti o limitazioni in contrasto con la Costituzione. Già a partire dai primi anni Settanta, però, la Corte cominciò ad «allargarsi» inventando le cosiddette «sentenze additive» o anche «manipolative»; quelle, cioè, con le quali si dichiarava l'illegittimità costituzionale di una norma non per quello che essa prevedeva ma per quello che non prevedeva ma avrebbe dovuto, secondo la Corte, prevedere o prevedere in modo diverso; il che equivaleva, di fatto, alla creazione di una nuova norma, con usurpazione, quindi, di una competenza che, in realtà, sarebbe stata solo del Parlamento, titolare esclusivo, nel sistema costituzionale, del potere legislativo; indirizzo, questo, che ha avuto la sua ultima (nel tempo) manifestazione con la recentissima pronuncia che ha reso non punibile, a determinate condizioni, il reato di aiuto al suicidio. Si passò poi ad affermare che potesse dichiararsi l'incostituzionalità di una qualsiasi norma di legge sol perché ritenuta, a giudizio della Corte, «irragionevole»; ciò sulla base di un principio ricavabile, secondo la stessa Corte, dall'articolo 3 della Costituzione, il quale però, non ne fa alcuna espressa menzione, limitandosi esso a stabilire soltanto, per quanto qui interessa, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge. Inutile dire che, nulla essendovi di più opinabile del concetto di «ragionevolezza», la Corte si è in tal modo aperta la possibilità pressoché illimitata di sostituire la propria valutazione a quella che costituiva il fondamento della norma di legge sottoposta al suo esame. Come se non bastasse, in tempi più recenti, la Corte si è anche arrogata il potere di dichiarare l'incostituzionalità, in blocco, della legge di conversione di un decreto legge sol perché, a suo giudizio, quest'ultimo era stato emanato senza che esistessero, al momento, le condizioni di «straordinaria necessità ed urgenza» previste dall'articolo 77 della Costituzione; condizioni che, in realtà, dovrebbero formare oggetto di una valutazione esclusivamente politica da parte del Parlamento allorché viene chiamato, con la richiesta di conversione del decreto legge, a ratificare o meno la decisione assunta, in sua vece, dal governo. Un terzo strumento è quello costituito dalla prerogativa che gli ultimi presidenti della Repubblica si sono autoattribuita di sindacare nel merito i decreti legge predisposti dal governo e di bloccarne, quindi, in caso di dissenso, l'emanazione; il che si pone in radicale contrasto con l'articolo 76 della Costituzione, che espressamente attribuisce solo al governo la responsabilità dell'emanazione dei decreti legge, anche se questi debbono poi assumere la veste formale di decreti del presidente della Repubblica. Anche in questo modo, quindi, viene messa da parte la sovranità popolare, giacché solo il Parlamento, che di essa è espressione diretta, è l'organo legittimato a sindacare, in sede di conversione, il merito dei decreti legge adottati dal governo. Al presidente della Repubblica può riconoscersi il potere di rifiutarne la firma solo quando essi costituiscano, con assoluta evidenza, nel loro complesso, un attentato ai principi basilari della Costituzione; cosa ben diversa dal semplice sospetto di una possibile incostituzionalità di singole disposizioni che vi siano contenute. Un quarto strumento è poi ancora quello costituito dalla intervenuta modifica, nel 2001, dell'articolo 117 della Costituzione, per cui il potere legislativo dev'essere ora esercitato non solo, com'era già da prima, nel rispetto della Costituzione, ma anche nel rispetto di tutti «i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Ciò significa che mentre, in precedenza, l'eventuale inosservanza di quei vincoli nella creazione di una norma interna, a opera del legislatore nazionale, si sarebbe risolta soltanto nell'assunzione, da parte del medesimo legislatore, della relativa responsabilità politica per le conseguenze che, sul piano dei rapporti internazionali, ne sarebbero potute derivare all'Italia, ora quella stessa inosservanza può comportare l'eliminazione dall'ordinamento interno, per incostituzionalità, della norma di legge che ne sia ritenuta affetta. La volontà popolare della quale è da presumersi che quella norma fosse stata espressione viene quindi necessariamente a soccombere a fronte di quanto deciso, con la creazione dei vincoli in questione, da organi alla cui formazione, com'è noto, quella stessa volontà non concorre o concorre in modo assai limitato. L'elenco potrebbe continuare ma quanto detto finora sembra sufficiente a dimostrare che la sovranità popolare si trova ormai in una condizione assimilabile a quella in cui Gulliver era stato ridotto dai lillipuziani che, mentre egli dormiva, lo avevano legato al suolo con una enorme quantità di sottili ma robustissimi fili, così impedendogli ogni movimento. 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Contro i giusmoralisti (Mimesis) e che, come dimostra la pronuncia della Consulta sul caso Cappato, è di drammatica attualità. Professore, per uno Stato fondato su separazione dei poteri e principio di rappresentanza democratica, l'intervento della Corte costituzionale è un'anomalia? «Per una valutazione completa dovremo attendere la pubblicazione della sentenza nel merito dell'articolo 580 del codice penale. Al momento la Corte non legittima un “diritto al suicidio", né ha depenalizzato l'aiuto al suicidio; è possibile però che la sentenza venga recepita ideologicamente in tal senso. Comunque, il problema generale cui lei accenna, ovvero il rapporto tra giustizia e politica, non tocca solo il nostro ordinamento». No? «Per una bizzarra, ma istruttiva coincidenza, prima della sentenza della Consulta sul caso Cappato, abbiamo avuto la sentenza della Corte Suprema del Regno Unito sulla decisione del primo ministro di prorogare la chiusura della Camera dei Comuni». Certo. Una riposta alla mossa di Boris Johnson per blindare la Brexit. «A parte gli ambiti differenti, in entrambi i casi è evidente una supplenza del potere giudiziario rispetto al potere politico. Se di anomalia si tratta, è un'anomalia che io definisco strutturale: nello Stato di diritto come si è formato dall'Ottocento a oggi, il potere giudiziario inevitabilmente “tracima"». Gli «sconfinamenti» sono iscritti nella forma che ha assunto lo Stato di diritto? «Più o meno. Persino nel Regno d'Italia, negli anni Ottanta dell'Ottocento, la Corte di cassazione a sezioni riunite decideva sulla legittimità dei decreti legge del governo. Il problema non è tanto la divisione dei poteri - che è una tecnica da elogiare ma impraticabile, realisticamente - quanto l'equilibrio dei poteri. Da noi quello che manca è la buona qualità della classe politica in generale. A quel punto, prima o poi, subentra il giudice». Ecco: qualcuno osserva che il Parlamento avrebbe potuto legiferare prima e che, se esistono buchi nell'ordinamento, è normale che altri organi istituzionali intervengano a tappare le falle. Ma bisogna davvero legiferare su tutto? «Il potere legislativo non è obbligato a legiferare. Anzi, per certi aspetti un potere consapevole di sé dovrebbe legiferare il meno possibile. Troppe leggi sono un disastro per i popoli civili. Legiferare su tutto è una limitazione delle libertà individuali. Uno Stato che mi regola anche nel privato è peggio di uno Stato cosiddetto totalitario». Il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, disse che la decisione sul fine vita aveva inaugurato un principio di «collaborazione» tra Consulta e Parlamento. Lui sosteneva che così la Corte avrebbe aiutato il Parlamento a svolgere al meglio la sua funzione. E se invece, al contrario, lo svuotasse? «Il giudice deve essere un potere dello Stato. Ma quando si erge a interprete autorizzato del mondo mobile di diritti che si gonfiano sempre più e costruisce su principi che possono prescindere dalla legge positiva, vuol dire che egli si ritiene, in virtù del primato della Costituzione sullo Stato e dell'interpretazione per principi e non per regole, teorizzata proprio da alcuni degli attuali giudici della Consulta, al di sopra dello Stato stesso, in nome di astratti “diritti dell'uomo" slegati dalla cittadinanza». La sentenza della Consulta costituirà un precedente pericoloso? Politici irresponsabili potrebbero essere tentati di demandare le decisioni ai magistrati, dall'altro questi ultimi potrebbero essere tentati di fare i legislatori senza passare per le elezioni. «Non è questione di precedenti, ma di tendenza, di un processo involutivo». Cioè? «Lo Stato dei giudici e, in particolare, il “diritto giudiziario", non sono un futuro possibile, ma una realtà presente, con la quale fare i conti». Cosa potrebbe fare la politica per correggere il processo involutivo? «Lo Stato dei giudici o la “giuristocrazia", come dicono gli americani, può essere controllato e il giudice tornare a essere un organo funzionale allo Stato solo in presenza di un personale politico autorevole. Sul vostro giornale, Marcello Veneziani ci ha invece presentato una realtà politica tristissima, fatta di maschere di carnevale. Non a caso, per questa gente, meno si vota e meglio è». Dicono che non si può votare di continuo... «In America si vota ogni due anni. Anche per questo, da noi, la prima riforma costituzionale da fare sarebbe ridurre le legislature da 5 a 4 anni». A questo punto come si orienteranno i giudici che dovessero affrontare situazioni tipo quella di Marco Cappato? «Potremo avere, in casi diversi, sentenze non omogenee, sulle quali dovrà intervenire la Cassazione, finché il legislatore non avrà dettato linee uniformi, su presupposti, figure coinvolte e procedure anche per quanto riguarda il diritto all'obiezione di coscienza». Quali sono i rischi? «Sono possibili criticità nel rapporto tra la decisione del soggetto sofferente e l'atto di chi dovrebbe procedere per esempio alla somministrazione del farmaco. Il rischio che la confusione aumenti esiste. La mia paura, poi, è che, in presenza di un legislatore qualitativamente debole come quello odierno, ci saranno compromessi poco razionali ed eticamente discutibili».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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