
Bruxelles si è servita della piattaforma per veicolare messaggi mirati. Un comportamento «privo di base giuridica e illecito», secondo il Garante europeo dei dati personali . Interrogazione di Ecr all’Europarlamento.Parafrasando un vecchio spot che piacerebbe tanto ai buonisti dell’immigrazione si potrebbe dire: «A votare che ce vo? Basta una X». Facile, no? La Commissione europea vuole stare però dalla parte del sicuro e convincere i potenziali elettori che quella X va messa dove pace alla Ue. E per «consigliare» i liberissimi cittadini europei lo strumento c’è. È la criticatissima piattaforma social di quel cattivone amico di Donald Trump, Elon Musk. Sembrerà strano, ma la Commissione europea per indottrinare i cittadini e convincerli a pensare come fa comodo a Ursula von der Leyen e compagni (compagni non è a caso) ha usato le cosiddette «campagne di sensibilizzazione» attraverso l’ex Twitter adesso diventato X. Avessero usato un po’ più d’intelligenza umana, quelli della Commissione non si sarebbero fatti beccare con le mani nella marmellata, pardon con il pollicione sul like. A scoperchiare il doppio gioco di Von der Leyen e burocrati amici è un’ interrogazione presentata al Parlamento di Strasburgo dal capodelegazione di Ecr Carlo Fidanza e dall’eurodeputato di Fratelli d’Italia Stefano Cavedagna, che tra l’altro nelle stesse ore è diventato vicepresidente del Food forum europeo, struttura indipendente di collegamento tra il Parlamento e le aziende dell’agroalimentare. Scrivono nella loro interrogazione Cavedagna e Fidanza: «Come emerge da una decisione del Garante europeo della protezione dei dati, la Commissione avrebbe targhettizzato delle sponsorizzazioni sulla piattaforma X per influenzare gli utenti ed ottenerne il favore rispetto a un suo progetto per l’utilizzo di chat crittografate. Siamo di fronte a fatti di gravità inaudita». È appena il caso di ricordare che il 12 luglio scorso in pompa magna la baronessa Von der Leyen annunciava che dopo un semestre d’indagini l’Ue aveva scoperto che Elon Musk violava con X - la stessa piattaforma usata da lei - le regole del Digital services act. Quel cattivone dell’amico di «Cattivissimo me», al secolo Donald Trump, con X ne ha fatte, per l’Ue, di ogni: ha violato la privacy, ha impedito il libero convincimento degli utenti, si è fatto gli archivi segreti, ha cercato di influenzare le menti degli europei e per questo deve pagare una multa pari al 6% degli introiti di X. Quanto alle notizie false che Musk manda in giro ci sarà un’altra istruttoria. E però stavolta sembra che la Commissione europea abbia fatto più o meno lo stesso. A dirlo non sono Fidanza e Cavedagna che pure hanno l’immenso merito di aver strappato il velo di omertà che riguarda l’indagine, ma un’ inchiesta condotta dell’Edps, l’European Data Protection Supervisor. I fatti riguardano un incarico che la Commissione ha dato a un’agenzia per sensibilizzare gli elettori dei Paesi Bassi sulla pedopornografia. Sin qui tutto commendevole: la causa è giusta ed è sacrosanto che la Commissione faccia pubblicità a leggi e regolamenti. Ma come avrebbe detto la Francesca di Dante - che poco somiglia alla Von der Leyen - «il modo ancor m’offende». La Commissione, scrive il Garante, «ha inoltre determinato i mezzi del trattamento scegliendo di utilizzare i servizi forniti da X per la campagna pubblicitaria e selezionando le parole chiave e gli account chiave per indirizzare gli utenti di X. Attraverso queste parole chiave, la Commissione ha determinato i parametri di “inclusione” ed “esclusione” utilizzati nella campagna». Il Garante europeo nota nel suo provvedimento che la Commissione si comportava in questo modo nel momento stesso in cui emanava il Regolamento (UE) 2024/900 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 marzo 2024 relativo alla trasparenza e al targeting della pubblicità politica. Siamo all’ipocrisia istituzionale, altro che Elon Musk: ha studiato i profili, li ha suddivisi e ha confezionato messaggi mirati. Dice l’Epds: «Il trattamento di questi dati, pertanto, deve considerarsi semplicemente privo di un’adeguata base giuridica e, quindi, illecito». E qui s’innesta il ragionamento politico di Stefano Cavedagna. «Da quella targhettizzazione hanno escluso gli elettori che non piacciono a lor signori: chi vota per Orbán, chi sostiene la Meloni o la Le Pen viene escluso. Siamo di fronte», spiega, «a un troll europeo che vuole influenzare i cittadini. Sentiamo parlare costantemente di hacker russi, di strani mostri che turbano le coscienze degli europei e arrivano perfino a far cancellare le elezioni in Romania, ma evidentemente se la Commissione si comporta allo stesso modo va bene. Non sarà tollerato da noi» insiste Cavedagna, «nessun utilizzo di fondi europei per forgiare le menti dei cittadini. Da qui muove la nostra interrogazione, questo è il nostro impegno costante perché noi siamo per la libertà di espressione e per la tutela della libertà dei cittadini. Vogliamo che la Commissione scopra i responsabili di queste azioni e che vengano sanzionati dall’autorità competente. Deve esser chiaro che non sarà tollerata alcuna ulteriore azione simile da parte della Commissione Ue». Ma se si può azzardare un pronostico per adesso non dovrebbero esserci delle repliche. Dopo aver fatto annullare le elezioni in Romania con la presunzione di ingerenze russe a favore di Calin Geargescu che aveva ottenuto quasi un terzo dei consensi ed è stato largamente votato dai romeni all’estero, a Bucarest hanno vinto i tre partiti filo-europeisti. Dunque tutto ok: anche in rete il nemico russo è sconfitto. E la Commissione ha pure aperto un procedimento formale nei confronti di TikTok, la piattaforma che sarebbe stata usata per condizionare le presidenziali romene. Perché a Bruxelles sulle opinioni che piacciono alla Commissione mettono una X.
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