
Afrodisiaca, esaltata da Giacomo Casanova, era usata per rinvigorire i guerrieri di Carlo Magno e commosse i poeti per la sua bellezza. Ferdinando II, che ne era ghiotto, soffriva di alitosi. A portarla in Calabria furono i fenici: Tropea le ha dedicato perfino un museo.Chi mai l'avrebbe detto che c'è un'Italia federata dalla cipolla, con alcuni dei suoi borghi in cui gli indigeni vengono chiamati da sempre «cipolloni», oppure «cipollari», in base a tradizioni che affondano nei meandri di storie di un'Italia minore tutta da scoprire? Come da scoprire sono le mille curiosità di questo prodotto della terra che, da umile Cenerentola, in realtà meriterebbe di essere considerata piccola principessa, protagonista di svariate ricette senza tempo. I primi a valorizzarla furono gli antichi egizi. Ne sono state ritrovate tracce nelle tombe dei faraoni quale viatico di buon viaggio nell'aldilà. I gladiatori romani la usavano come unguento per rinforzare la muscolatura, mentre le dame come crema antirughe. Carlo Magno lo dava ai suoi guerrieri per rinforzarli. Ma è nel rinascimento che si arriva a elogiarla come viatico verso le gioie terrene, elisir afrodisiaco esaltato da un certo Giacomo Casanova.Nella farmacopea rurale pochi altri come l'umile cipolla. Utile a lenire la tosse, guarire le bronchiti, piccole ustioni come punture d'insetto. Con l'avanzare della scienza si scoprì che era una ricca fonte di quercitina, un flavonoide multiuso dalle mille virtù. Un tempo un loro decotto, preso prima di andare a nanna, era il miglior viatico per i sogni d'oro tra le braccia di Morfeo. Restava qualche piccolo particolare in coda. Una certa alitosi diffusa, mista alla traspirazione cutanea, che rivelava i peccati di gola dei suoi adepti, su tutti Ferdinando II di Borbone, illuminato monarca che diede luogo alla prima ferrovia italiana, la Napoli - Portici. Ma, si sa, nessuno è perfetto. Eppure, quando la si coglie dal terreno è pura come una fanciulla in fiore. È al taglio che alcuni suoi componenti vengono tramutati nella nefanda allinasi che, a contatto con l'aria, produce un'orchestra di un centinaio di composti dal tratto sgradevole non solo all'olfatto, ma anche alla vista, che viene annebbiata da una lacrimazione conseguente frutto di una reazione chimica tra la componente cipolluta e il nostro sistema nervoso periferico. Comunque tutti disagi cui si può porre rimedio con qualche piccolo accorgimento. Della cipolla si sono accorti in molti, al di là del necessario uso tra i fornelli. Commovente Pablo Neruda «petalo su petalo/s'è formata la tua bellezza/nel segreto della terra buia/s'è arrotondato il tuo ventre di rugiada». E che dire di Penelope Cruz? «Le associo alla felicità. Al provino del mio primo film per allenarmi ne ho sbucciate tantissime». Cipolle protagoniste assolute di un'opera di Pierre Auguste Renoir, il maestro dell'impressionismo, come di pennelli immortali quali Giuseppe Arcimboldo o Paul Cezanne. Imboccando le vie del Belpaese incrociamo cipolle ogni dove, dalle forme e i colori più diversi. Il viaggio non può che cominciare da Tropea, sulla costa calabrese. Portate dai fenici e considerate da sempre l'oro rosso dell'economia locale, visto il loro croma. La differenza gliela regala il terreno che, abbinato al clima, le rende uniche tanto che le stesse, trapiantate in altre zone, perdono gran parte delle loro caratteristiche, a iniziare da quel inconfondibile sapore dolce che le differenzia da tutte le altre varietali. Veglia su di loro l'Accademia di tutela della cipolla rossa di Tropea e la loro storia viene raccontata nel piccolo museo di Ricadi. Infinita la versatilità culinaria. In primis nella marmellata, che porta le papille a confrontarsi con formaggi di struttura come con vari tipi di pasta e i relativi incroci. Grandi classici sono u testu, in jam session di cottura con cipolle e pomodori, o 'a 'nchiambara, un'originale frittata senza uova (sostituite da acqua e farina, con una spolverata finale di pecorino). Tropea sugli allori con un'altra pepita locale, la nduja. Un vecchio adagio recita «mangia nduja con la cipolla che ti cresce il cervello». Spostandosi più a Sud, troviamo la cipolla bianca di Giarratana, nel Ragusano, che può raggiungere dimensioni jumbo (anche di tre chili) tanto da renderla eletta a diventare ripiena delle golose fave cottone, ma anche a tramutarsi in anelli fritti. Risalendo la penisola altra tappa obbligata ad Acquaviva delle fonti, nel Barese. Qui troviamo un prodotto arlecchino. Dalla tunica rosso violacea, spogliandola dei suoi vari veli (così si chiamano i relativi strati), dimostra un'intima natura bianca. Chissà se è omaggio al suo naturale bicromatismo che gode di una doppia festa. A luglio quella propria, mentre poi, a ottobre, va in condominio godereccio con quella dedicata al calzone, la sua elaborazione principe, che la vede gemellata a ricotta forte, uova e pecorino. In Campania la cipolla gode di lunga tradizione. Sue tracce in alcuni affreschi a Pompei, nel larario del Sarno, un tempio pagano, considerata un'entità sacra per i suoi riconosciuti effetti benefici e curativi. Qui ha inciso profondamente negli usi e costumi della sua gente, i cipollari. Il chignon delle donne si chiama tuppo a cipolla e gli stessi amuleti per scongiurare i fulmini di Giove hanno la forma del prezioso ortaggio. «Pane cipolle e bene» è un mantra che ha accompagnato la saggezza della cultura rurale nei secoli. Cioè che, se puoi permetterti solo cipolla per campare, l'importante è che vi sia la salute. La sua coltivazione fattore aggregante di una comunità. Qui, da sempre, si esercita la nobile arte dell'insertare, cioè di riunirla, assieme alle sue foglie, lungo dei giunchi messi poi a stagionare su telai di legno per il successivo consumo quotidiano. Un rito accompagnato da chiacchiere, canti e stornelli tra gli abitanti del luogo. Un piatto su tutti cipolle e patate arraganate, cioè tagliate a rondelle, poste a strati alterni e poi passate al forno.In Abruzzo, a Fara Filiorum Petri, la piattona viene coltivata nei cipollari, i terreni a lei dedicati, mentre invece cipollari si chiamano gli abitanti di Suasa, nelle Marche, che si distinguono dal resto del mondo per distillare il famoso Cipollino, un liquore messo a dare il turbo al gelato, ovviamente di cipolla coerente. Certaldo, Toscana, è la patria dei cipolloni, i discendenti di Giovanni Boccaccio, che la consegnò ai posteri decantandone le virtù nel Decamerone. Cipolla di rango, tanto che i conti Alberti, già nel XII secolo, decisero di abbinarla all'immagine del borgo concedendole l'onore di apparire nello stemma comunale. Toscana dalle mille risorse in chiave di cipolla. Si parte da lontano, con la zuppa, un grande classico che leggenda racconta sia stato trasmesso in eredità oltralpe con Caterina de' Medici andata in sposa a Enrico II, poi ribattezzata soupe d'oignon, mentre la versione nostrana, di cui era ghiotto Leonardo Da Vinci, si chiama ancora oggi carabaccia. Altro must toscano l'acqua cotta, oppure ancora la panzanella, in cui l'abbinamento con il pane viene gestito in maniera diversa al mutar dei campanili. Dalla Toscana alla Liguria per incontrare l'egiziana ligure, una variante mignon coltivata da sempre nell'entroterra. Eccola a impreziosire la sardenaria, una focaccia tipica di Sanremo. La pianura padana è un autentico giacimento che va dalla bionda di Sermide, cui è dedicata la festa della cipolla d'oro, alla borettana emiliana, ideale conservata sotto aceto, che si sposa benissimo con un'altra icona del luogo, il balsamico di Modena. Il viaggio non si può che concludere nella laguna serenissima, dove regna incontrastata la bianca di Chioggia. Ingrediente indispensabile delle sarde in saor, il cibo di sussistenza dei marinai, dove l'elevato contenuto di vitamina C contrastava lo scorbuto. Oppure il fegato alla veneziana. Un mirabile incrocio tra orto e frattaglie, della cui versione più nobile è depositario Arrigo Cipriani, che li unisce al piatto dopo averli preparati separatamente, pregni dei rispettivi umori.
Mattia Furlani (Ansa)
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