2020-09-10
La censura delle minoranze sui film. Senza Lgbt o neri, scòrdati l’Oscar
L'Academy stila il decalogo con i parametri per concorrere alla statuetta 2024 nel segno di «una comunità più equa e inclusiva». I registi trasgressivi non vincerebbero più nulla. Avati: «Crociata con effetti grotteschi».«Il pranzo è servito». Per vincere l'Oscar, la battuta iconica dell'attore scricchiolante dovrà essere pronunciata da una donna di colore, possibilmente lesbica, di religione ebraica, con un solido passato Lgbt alle spalle e che non si sia mai fatta fotografare neppure per sbaglio con un vacuo simbolo etero come Brad Pitt. Se la candidata non risponde a un simile profilo, il regista cominci con il chiudere l'account Twitter perché la shitstorm è in agguato e, come minaccia John Goodman in The Big Lebowski, «stai per entrare in una valle di lacrime». Non c'è niente da scherzare, il pensiero unico avanza nella prateria. All'avanguardia nel cogliere ogni sospiro di modernità, di policamente corretto e di stupidamente radical chic, Hollywood è arrivata prima anche nel più retrivo dei propositi, quello di mettere le mutande alla settima arte e di ripristinare una censura da operetta. Senza rendersi conto di resuscitare con questo il fantasma dell'ineffabile senatore del Wisconsin, Joseph McCarthy, l'Academy of motion picture arts and sciences (la gerontocrazia che assegna gli Oscar) ha stilato un decalogo con i parametri imprescindibili per concorrere alla statuetta suprema, quella per il miglior film, nel segno di «una comunità più equa e inclusiva». L'ultima parola illumina immediatamente i contorni del proposito, quello di andare oltre il valore dell'opera e giudicarla in base al rispetto dei parametri di genere, orientamento sessuale, appartenenza a minoranze e disabilità. Le categorie sono quattro e dal 2023 (prima notte stellata con le nuove regole, 2024) i film che vogliono aspirare al più remunerativo premio cinematografico del pianeta dovranno rispettarne almeno due. «Inclusione» è la parola d'ordine, se poi nelle sceneggiature ci fosse un'ampia dose di «resilienza» le chances sarebbero intrinsecamente maggiori. Ma questo non è neppure necessario metterlo nero su bianco. La cupola artistica californiana era da anni accusata di non prendere abbastanza in considerazione donne, afroamericani, transgender e altre minoranze emergenti. Così, invece di rinnovare i membri dell'Academy definiti «pale, male and stale» (bianchi, maschi e tradizionalisti), Hollywood ha deciso di mettere paletti ai film, con l'effetto sgradevole di erigere steccati dentro l'impalpabilità dei sogni. Gli standard sono precisi. Il film candidabile deve avere fra i protagonisti o personaggi principali almeno un attore appartenente «a un gruppo etnico o razziale sottorappresentato» (asiatici, ispanici, latini, neri, afroamericani, nordafricani, nativi americani, dell'Alaska e delle Hawaii, mediorientali). In alternativa il 30% di chi recita in ruoli secondari o minori deve essere donna o appartenere a uno dei gruppi razziali di cui sopra. Oppure deve definirsi Lgbt o avere disabilità fisiche o cognitive, infine sia non udente o ipoudente. Anche la trama non sfugge alla polizia del karma. Se le prime due categorie non sono rispettate, la sceneggiatura deve essere incentrata su temi che riguardano non uomini bianchi ma donne appartenenti a minoranze, o Lgbt.Il decalogo riguarda anche il personale sul set e richiede che registi, montatori, truccatori, parrucchieri, datori di luce, scenografi appartengano a categorie sottorappresentate. Le troupe dovranno dimostrare una certa armonia inclusiva, con quote non del tutto definite nelle percentuali ma neppure residuali. Stesso criterio per gli stage negli studios e nelle aree marketing, pubblicità e distribuzione. Chi non rispetta due parametri su quattro può fare strada nelle altre categorie (documentari, film d'animazione, film stranieri) ma non finire nella busta più nobile, quella che in virtù della correctness Meryl Streep potrebbe essere autorizzata ad aprire fino alla fine dei suoi giorni.Su un simile minestrone Mel Brooks o Blake Edwards avrebbero fatto film da sbellicarsi, ma non glieli avrebbe distribuiti nessuno. In ogni caso la gabbia è il modo migliore per non far vincere più nulla agli inguaribili trasgressivi come Woody Allen o Quentin Tarantino, che in Jackie Brown fa dire ai suoi personaggi 24 volte «nigger» (il protagonista è di colore, è cattivo e il soggetto originale di Elmore Leonard lo prevede) per l'indignazione di Spike Lee. C'è qualcosa di malinconico in tutto questo, è il passaggio successivo - magari anche determinato da buone intenzioni - rispetto al fanatismo del Black lives matter, secondo solo a quello dei giornalisti americani dem, ormai diventati i petulanti custodi della pubblica morale. Sono gli stessi che ieri hanno accusato la Mostra di Venezia di non avere inserito rappresentati di colore nella giuria. La risposta di Pupi Avati è raggelante: «È vero ma quest'anno in giuria non ci sono neanche i cinesi. Mi sembra davvero che spuntino polemiche tanto per aprire dibattiti tv con i soliti 8-9 ospiti che hanno un'opinione su tutto». Nella vecchia Europa basta ancora una battuta a denudare il re, Oltreoceano non più. Plumbei, avvolti dalla presunzione di chi non ha mai letto Tom Wolfe, i media proseguono nella loro crociata pseudo-razziale con effetti grotteschi. L'ultima a farne le spese è stata Ruby Rose, Batwoman, appartenente da quando aveva 12 anni a una comunità Lgbt, quindi teoricamente correttissima. Tutto bene? No, tutto malissimo. Perché l'attrice ha la colpa di «non essere abbastanza lesbica» (con insondabili retroscena che non vogliamo sapere) e di non essere ebrea come la protagonista del fumetto originale. Massacrata sul web, ha dovuto chiudere l'account Twitter dopo essere entrata nella famosa valle di lacrime degli insulti. La fabbrica dei sogni sta diventando Metropolis ma neppure Fritz Lang approverebbe. Comunque il pranzo è servito. Un'ultima avvertenza, se volete vincere l'Oscar preparatelo vegano.