2019-08-15
La Cassazione gela gli specializzandi: «Nessuno stipendio, solo rimborsi»
Dopo dodici anni di battaglie legali, una sentenza della Corte Suprema stabilisce che, anche se svolgono mansioni mediche, sono solo dei «superstudenti». Ma in altri Paesi europei il trattamento è più equo.L'attività ospedaliera degli specializzandi non è lavorativa, ma formativa. Così la Corte di Cassazione, dopo 12 anni, mette la parola fine sulla questione della retribuzione dovuta a chi frequenta la scuola di specialità sollevata da alcuni medici modenesi. La sentenza crea un importante precedente giurisprudenziale perché sancisce che agli specializzandi, nonostante le mansioni mediche svolte nei reparti, si deve dare un rimborso spese e non uno stipendio. Eppure già nel 1991, l'allora Comunità Europea, ha definito i termini di remunerazione degli specializzandi e chiesto agli Stati membri di adeguarsi. Non a caso, infatti, 35 medici che nel 2007 frequentavano il Policlinico di Modena e l'ospedale di Baggiovara come medici in formazione, trovandosi a svolgere lavori in supplenza agli strutturati con paghe al minimo, si sono rivolti al Tribunale del lavoro. Nella loro istanza chiedevano «la condanna al pagamento di una remunerazione diversa (e superiore) rispetto a quella percepita in base al decreto legge del 1991». Dopo una prima sentenza favorevole, nel 2016 il Tribunale di Bologna, in Appello, ha bocciato le richieste. Il ricorso in Cassazione, ha confermato, in questi giorni, il giudizio. Secondo i supremi giudici, lo specializzando non svolge un'attività subordinata e non è inquadrabile neanche come lavoratore autonomo, «ma costituisce una particolare ipotesi di contratto formazione-lavoro oggetto di una specifica disciplina». L'assegno dello specializzando, si legge nella sentenza, serve solo «a sopperire alle esigenze materiali per l'impegno a tempo pieno nella formazione». Non può essere, quindi, uno stipendio per le attività svolte, «che non sono rivolte a vantaggio dell'Università, ma alla formazione teorica e pratica e al conseguimento di un titolo abilitante». Inoltre, «non esiste una differenza di trattamento tra gli specializzandi delle diverse università italiane e di quelle europee, per questo non è previsto un aumento dovuto all'indice Istat». Sulla questione delle retribuzioni agli specializzandi sono migliaia le cause in corso e, dal 1978 al 2006, la Consulcesi che si occupa di difendere i medici, ha già ottenuto rimborsi per 530 milioni di euro. Solo nel 2018 lo Stato ha rimborsato 48 milioni di euro, di cui nove nel Lazio e sette in Lombardia. Secondo l'associazione Consulcesi, attualmente sono stati rimborsati 1.521 medici, ma sarebbero 56.000 quelli che potrebbero averne diritto tanto che l'esborso pubblico stimato è nell'ordine dei 10 miliardi. La sentenza della Cassazione sul caso di Modena potrebbe tuttavia avere ripercussioni sulle prossime sentenze dei tribunali ordinari, che sono ormai abbastanza orientati a riconoscere gli arretrati dello stipendio. Tuttavia, all'inizio del 2019 la Cassazione ha escluso dai rimborsi istanze relative al periodo 1978 e 1982, nonostante la Corte di Giustizia europea, in una sentenza, si sia espressa a favore dello stipendio per i medici in formazione. «Rispetto agli altri Paesi europei», spiega Pierino Di Silverio responsabile nazionale del sindacato medico Anaao giovani, «l'Italia si è adeguata tardi, nel 2004, alla normativa europea del 1991, che riconosce mansioni e inquadramento, quindi uno stipendio e non un rimborso, per i medici in specializzazione». Fino al 2004, rispetto ai duemila euro di uno specializzando europeo, quello italiano prendeva 800. «Attualmente», continua Di Silverio, «mentre nel resto dell'Ue , un medico, anche se in specializzazione, è considerato un lavoratore ed inizia la sua carriera con uno stipendio base intorno ai 2.000 euro, in Italia lo stesso medico è invece un borsista con rimborso spese da 1.600 euro per i primi anni e 1.700 circa nell'ultimo biennio. Non sono previste ferie, tredicesima, malattia e nemmeno maternità», perché è una sorta di «superstudente». Il problema è che, pur essendo in formazione, in realtà, «per problemi organizzativi e di carenza di professori/tutor», conclude Di Silverio, «lo specializzando, oltre a non riceve la formazione adeguata, nei policlinici universitari, copre turni e notti degli altri medici e, una volta finita la specialità, per essere assunto, deve fare un concorso». Inutile ricordare che in altri Paesi Ue, al termine della specialità il medico è già incardinato nella struttura con uno stipendio doppio e scatti di carriera. Servirebbe un cambio di passo per i 28.000 specializzandi italiani, sia dal punto di vista economico, sia organizzativo, coinvolgendo nella formazione anche gli ospedali non universitari. Al momento invece sono in balia di sentenze, spesso anche contrapposte.