
Il sì alla bozza di accordo sull'uscita dall'Ue spacca il governo. La leader britannica Theresa May non molla: «Il mio è il piano migliore».La strada per la Brexit è ancora lunga. L'hanno riconosciuto non soltanto coloro che reputano la bozza di accordo proposta dal primo ministro britannico Theresa May un tradimento del voto popolare, ma anche anche quelli che avrebbero migliori ragioni per festeggiare l'intesa, cioè i vertici dell'Unione europea. I primi sono i molti esponenti del Partito conservatore che ieri hanno messo in discussione la leadership e la premiership della May in una giornata che ha visto le dimissioni dal governo di due ministri, due sottosegretari e due parliamentary private secretary (i deputati che fungono da collegamento tra i ministri e i parlamentari). L'addio più rilevante è stato quello di Dominic Raab, ministro per la Brexit da soli cinque mesi, subentrato al dimissionario David Davis, che come lui abbandonò la May per divergenze sulle modalità dell'uscita dall'Unione europea. Secondo Raab la bozza approvata mercoledì sera dal governo (nonostante un terzo dei ministri fosse contrario) rappresenta una minaccia all'integrità del Paese ma anche il pericolo, visto il modo con cui il Regno Unito sta negoziando con l'Ue, di dover sottostare ancora ai veti di Bruxelles.Ieri sera in conferenza stampa la May ha difeso la sua idea di Brexit, «la migliore possibile», sostenendo che nessun accordo potrebbe evitare il backstop, che implica che almeno fino a fine 2020 l'Irlanda del Nord rimanga nel mercato comune europeo e il resto del Regno Unito (Inghilterra, Galles e Scozia) nell'unione doganale, con i controlli sulle merci da effettuare nel Mar d'Irlanda.La più importante minaccia al futuro del premier arriva dal deputato conservatore Jacob Rees-Mogg, capofila dei più convinti euroscettici, che ieri ha formalizzato la richiesta di una mozione di sfiducia contro il premier con una lettera al comitato del partito competente sulle primarie. Rees-Mogg accusa la May di aver violato «le promesse fatte alla nazione», di aver proposto un accordo che «non è Brexit ma un fallimento che va evitato» per via delle troppe concessioni fatte all'Ue. Il deputato può contare sul suo seguito di circa 50 deputati. Una cifra in teoria sufficiente a far partire l'iter per la sfiducia. Tuttavia, finora il numero delle lettere inviate al comitato 1922 risulta inferiore al quorum necessario, che è di 48. Fonti del Partito conservatore spiegano che la mossa di Rees-Mogg ha spaventato anche quel fronte europeista che avrebbe voluto sfiduciare la May ma che ritiene il deputato ribelle troppo radicale. Per ora quindi il primo ministro sembra in grado di restare alla guida del Regno Unito. Anche perché i ribelli sanno che perdendo una sfida alla leadership renderebbero la May inattaccabile per un anno, come recita lo statuto del partito.I secondi a parlare di una via per la Brexit ancora lunga sono stati Michel Barnier, il capo negoziatore dell'Unione europea, e Donald Tusk, il presidente del Consiglio europeo. Nella conferenza stampa di ieri mattina, i due, ufficializzando per il 25 novembre un vertice straordinario sull'uscita del Regno Unito dall'Unione europea, hanno spiegato che si tratta di «un momento molto importante». Nella dichiarazione congiunta hanno spiegato che «l'accordo concordato è giusto ed equilibrato, assicura le frontiere dell'Irlanda e getta le basi per un'ambiziosa relazione futura». Tuttavia, c'è «ancora una lunga strada davanti, con un lavoro intenso da fare, e non c'è tempo da perdere». Ma la Brexit della May non piace neppure ai cittadini britannici. Secondo un instant poll di Sky Data, soltanto il 14% sostiene l'accordo presentato dal primo ministro, che pur rimane con il 31% il politico più affidabile per realizzare la Brexit. Il 32%, invece, preferirebbe l'uscita senza accordo (lo scenario cosiddetto «no deal», quello che più spaventa i mercati, il governo britannico e pure l'Unione europea) e il restante 54% voterebbe per «No Brexit». È stata la stessa May a spiegare ai Comuni e in conferenza stampa che le possibilità sono queste tre. E il fatto che abbia parlato di «No Brexit» ha alimentato le speranze di chi, come i laburisti, spera in un nuovo referendum per dare ai cittadini l'ultima parola sull'accordo. Sul futuro della Brexit continua a regnare l'incertezza, la stessa che ieri ha causato il pesante calo della sterlina e della banche inglesi. Dopo il vertice straordinario del 25 novembre è atteso il voto del Parlamento britannico (probabilmente il 6 dicembre). Se la May dovesse riuscire nel miracolo di trovare i voti sufficienti ai Comuni per far passare la sua Brexit, toccherebbe nel 2019 al Parlamento europeo votare l'intesa, poi al Consiglio europeo; nel caso in cui i Comuni bocciassero la proposta, il governo avrebbe 21 giorni per presentare un nuovo piano e l'iter ricomincerebbe da capo. Se neppure questo passasse allora quattro ipotesi: uscita «no deal», nuovi negoziati, nuove elezioni generali o nuovo referendum. Un'ipotesi, quest'ultima, però scartata dal premier ieri sera.
Luca Marinelli (Ansa)
L’antica arte partenopea del piagnisteo strategico ha in Italia interpreti di alto livello: frignano, inteneriscono e incassano.
Venghino, siori, venghino, qui si narrano le gesta di una sempiterna compagnia di ventura.
L’inossidabile categoria dei cultori del piagnisteo.
Che fa del vittimismo una posa.
Per una buona causa: la loro.
Ecco #DimmiLaVerità del 6 novembre 2025. L'ex ministro Vincenzo Spadafora ci parla del suo movimento Primavera e della situazione nel centrosinistra.
Antonio Filosa (Stellantis)
La batteria elettrica è difettosa. La casa automobilistica consiglia addirittura di parcheggiare le auto lontano dalle case.
Mentre infuria la battaglia mondiale dell’automobile, con la Cina rampante all’attacco delle posizioni delle case occidentali e l’Europa impegnata a suicidarsi industrialmente, per Stellantis le magagne non finiscono mai. La casa automobilistica franco-olandese-americana (difficile ormai definirla italiana) ha dovuto infatti diramare un avviso di richiamo di ben 375.000 automobili ibride plug-in a causa dei ripetuti guasti alle batterie. Si tratta dei Suv ibridi plug-in Jeep Wrangler e Grand Cherokee in tutto il mondo (circa 320.000 nei soli Stati Uniti, secondo l’agenzia Reuters), costruiti tra il 2020 e il 2025. Il richiamo nasce dopo che si sono verificati 19 casi di incendi della batteria, che su quei veicoli è fornita dalla assai nota produttrice coreana Samsung (uno dei colossi del settore).
Lucetta Scaraffia (Ansa)
In questo clima di violenza a cui la sinistra si ispira, le studiose Concia e Scaraffia scrivono un libro ostile al pensiero dominante. Nel paradosso woke, il movimento, nato per difendere i diritti delle donne finisce per teorizzare la scomparsa delle medesime.
A uno sguardo superficiale, viene da pensare che il bilancio non sia positivo, anzi. Le lotte femministe per la dignità e l’eguaglianza tramontano nei patetici casi delle attiviste da social pronte a ribadire luoghi comuni in video salvo poi dedicarsi a offendere e minacciare a telecamere spente. Si spengono, queste lotte antiche, nella sottomissione all’ideologia trans, con riviste patinate che sbattono in copertina maschi biologici appellandoli «donne dell’anno». Il femminismo sembra divenuto una caricatura, nella migliore delle ipotesi, o una forma di intolleranza particolarmente violenta nella peggiore. Ecco perché sul tema era necessaria una riflessione profonda come quella portata avanti nel volume Quel che resta del femminismo, curato per Liberilibri da Anna Paola Concia e Lucetta Scaraffia. È un libro ostile alla corrente e al pensiero dominante, che scardina i concetti preconfezionati e procede tetragono, armato del coraggio della verità. Che cosa resta, oggi, delle lotte femministe?






