
L'azienda di abbigliamento sportivo ha ingaggiato come volto simbolo Colin Kaepernick, la star del football che ha irriso l'inno ed è sospettato di aderire all'islam radicale. Dure critiche e campagne di boicottaggio.La terra non è al centro dell'universo, diceva Niccolò Copernico, ma sicuramente l'antitrumpismo è al centro dell'attuale sistema dei media. L'abbiamo presa alla larga, ma neanche tanto, se è vero che l'idolo degli oppositori ad «Agente orange», come Spike Lee chiama il presidente americano, porta proprio il cognome dello scienziato polacco (Mikolaj Kopernik, nell'originale). Cognome germanizzato in «Kaepernick» e finito sulle spalle di Rick e Teresa, due coniugi bianchi, americani, che un giorno decisero di adottare un bambino sfortunato, nato a Milwaukee da una giovane bianca e da un afroamericano che si era ben presto dato alla fuga. La fortuna girò presto, per il giovane Colin Kaepernick, divenuto una star milionaria del football americano. Tutto questo, per l'appunto, fino all'avvento di Donald Trump, contro cui Kaepernick, prima ancora che fosse eletto, lanciò una protesta pubblica, inginocchiandosi al momento dell'inno nazionale. Per questo gesto ha perso il contratto con la sua squadra (i San Francisco 49ers), ma ha guadagnato un contratto con la Nike. Per festeggiare i 30 anni dello slogan «Just do it», infatti, l'azienda di abbigliamento sportivo ha ingaggiato la star del football come volto. Il nuovo slogan della Nike, che è partner della Nfl per le divise da gioco, ora recita: «Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto» (che in Rete è stato subito sovrapposto con intenti satirici a foto di Benito Mussolini, Kim Jong Un e Charles Manson). «Crediamo che Colin sia uno degli atleti che più ha ispirato la sua generazione, che ha fatto leva sul potere dello sport per aiutare il mondo ad andare avanti», ha spiegato Gino Fisanotti, vice presidente del brand per il Nord America. Non tutti hanno digerito la presa di posizione della Nike. A cominciare ovviamente da Trump stesso. «Penso sia un terribile messaggio», ha detto l'ex tycoon, parlando al sito conservatore The daily Caller, anche se ha poi chiarito di rispettare il diritto dell'azienda di scegliersi i testimonial. Ma anche i consumatori sono divisi. Se c'è chi ha applaudito la scelta, c'è anche chi ha messo in piedi una campagna per boicottare l'azienda americana attraverso hashtag come «Boycott Nike», «Just dont do it» e «No Nike». Alcuni clienti hanno dato vita a una vera e propria attività di distruzione dei prodotti del brand sotto l'hashtag «burn your Nikes»: dalle scarpe bruciate ai calzini strappati. «La Nfl mi obbliga a scegliere tra il mio sport preferito e il mio Paese. Ho scelto il Paese», scrive un utente di Twitter, riassumendo il pensiero di molti. E anche in Borsa la scelta non sembra aver pagato. Martedì, a Wall street, le più forti vendite si sono abbattute proprio su Nike: -2,68% Scherzare con l'inno, in America, non è infatti una cosa da nulla. Se qui da noi le polemiche sui giocatori che, un tempo, restavano muti alle note di Mameli ha caratterizzato più che altro il folclore della polemica politica, una nazione che intona The star-spangled banner tutte le mattine a scuola prima di iniziare le lezioni e fin nell'ultimo campetto di periferia dove si svolga una qualsiasi competizione sportiva, fatica francamente a digerire esibizionismi come quelli di Kaepernick. Era il 2016 quando l'allora quarterback dei San Francisco 49ers, una delle più importanti squadre della lega di football d'America, era rimasto seduto durante l'esecuzione dell'inno americano prima di una partita casalinga contro i Green Bay Packers. Un gesto, raccontò, contro un Paese «che opprime i neri e le minoranze etniche». Kaepernick aveva fatto lo stesso tipo di protesta in almeno un'altra partita, ma dopo l'incontro con i Packers è circolata su internet una foto del suo gesto, che ha provocato le prime reazioni e domande sui social network. In un'intervista, lo sportivo aveva dichiarato: «Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime i neri e le minoranze etniche. Per me è più importante del football, e sarebbe egoista guardare dall'altra parte. Ci sono cadaveri per le strade, e persone che la fanno franca». Motivazioni quanto mai fumose e prive di una piattaforma rivendicativa credibile, come si vede. Per di più canalizzate verso un simbolo - l'inno nazionale - che rappresenta la nazione, non certo la polizia o «i bianchi». E infatti molti tifosi hanno considerato la protesta di Kaepernick un gesto irrispettoso verso gli Stati Uniti in quanto tali: qualcuno ha bruciato la sua maglia, la San Francisco Police officers association ha mandato un comunicato alla Nfl in cui ha definito la situazione «imbarazzante» per la lega. Trump, allora solo candidato alla presidenza, disse che Kaepernick «forse dovrebbe trovare un Paese che gli piace di più».Poiché siamo in America, poi, e certi tabù si fanno sempre sentire, è anche spuntato chi ha rimproverato a Kaepernick di non essere… «abbastanza nero» per poter parlare a nome degli afroamericani (mixed race, lo definisce senza tanti complimenti Wikipedia). Rodney Harrison, un commentatore sportivo ed ex giocatore di football, ha detto: «Vi dico questo, io sono nero. E Colin Kaepernick, lui non lo è. Non può capire cosa devo affrontare io e cosa devono affrontare gli altri neri». Tipico del politicamente corretto, c'è sempre chi lo è più di te. Del resto Kaepernick sembra patire questa sua condizione di nero imperfetto. La soluzione è quella di «razzializzarsi», ad esempio facendosi crescere dei ridicoli capelli afro. Non solo: ultimamente aumentano le sue frequentazioni con il mondo musulmano, anche se prove di una sua conversione vera e propria non sembrano essercene. È però vero che sta insieme all'ex dj di Mtv Vanessa «Nessa» Diab, musulmana che ha dichiarato di seguire «l'islam autentico», e si vocifera di un loro prossimo matrimonio con rito islamico, malgrado lui sia protestante e abbia tatuaggi con dei versetti biblici. Molti addetti ai lavori sostengono che sia stata proprio Diab a spingerlo a iniziare la protesta dell'inno nazionale. Ed è sempre tramite Nessa che Kaepernick è entrato in contatto con Linda Sarsour, controversa attivista musulmana che qualche tempo fa chiamò alla jihad contro i «fascisti, i suprematisti bianchi e gli islamofobi che regnano alla Casa Bianca». Sarsour, parlando del giocatore di football, ha largheggiato in complimenti: «Dico sempre a Colin: “Sei un eroe americano. Potrebbe anche esserci un giorno in cui cammineremo lungo Colin Kaepernick Boulevard». Se l'intitolazione la paga la Nike, la cosa non è affatto improbabile.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.