
La Corte Suprema respinge il ricorso di 19 Stati per il tycoon. Lo sfidante dem ostaggio della sinistra e dei guai del rampollo.È la sconfitta legale più pesante quella che Donald Trump ha incassato venerdì. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha infatti respinto la causa che il Texas (sostenuto da altri diciotto Stati) aveva intentato contro Michigan, Wisconsin, Pennsylvania e Georgia, accusandoli di aver modificato incostituzionalmente le proprie procedure elettorali. Il massimo organo giudiziario statunitense ha stabilito che il Lone Star State «non ha dimostrato un interesse riconoscibile dal punto di vista giuridico sul modo in cui un altro Stato conduce le proprie elezioni». L'ordinanza è stata accompagnata da un breve comunicato dei giudici Clarence Thomas e Samuel Alito: un comunicato, in cui i due hanno sostenuto che la Corte avrebbe dovuto accettare di affrontare il caso sotto la propria giurisdizione, pur chiarendo al contempo che «non avrebbero garantito un altro rimedio ingiuntivo». Trump ha espresso tutto il proprio disappunto: «La Corte Suprema ci ha deluso. Niente saggezza, niente coraggio!», ha scritto su Twitter. Nel frattempo l'avvocato del presidente, Rudy Giuliani, ha dichiarato che la battaglia legale proseguirà. «Il caso non è stato respinto nel merito, ma nel metodo», ha dichiarato, promettendo nuovi ricorsi nei tribunali distrettuali. Ora, è senz'altro teoricamente possibile intentare ulteriori cause. Tuttavia, guardando alla realtà dei fatti, il principale scoglio per il team di Trump è stato finora proprio quello di conseguire risultati concreti nei tribunali inferiori. Ed è per questo che il presidente ha sempre puntato alla Corte Suprema: una Corte Suprema che, con la decisione sul Texas, ha fatto ormai tramontare lo scenario di un ribaltamento degli esiti elettorali per via legale. Attenzione però: perché la sconfitta giudiziaria non corrisponde necessariamente a un indebolimento del presidente sul piano politico. Da settimane circola l'indiscrezione secondo cui l'attuale inquilino della Casa Bianca sarebbe pronto a ricandidarsi per il 2024. E, al momento, si tratta di una strada praticabile. In primis, va tenuto presente che – con le sue battaglie legali – Trump stia mirando a delegittimare la vittoria di Joe Biden, mettendo all'opera uno schema che i democratici hanno di fatto utilizzato contro di lui ai tempi del caso Russiagate. Secondo un recente sondaggio della Quinnipiac University, il 34% degli elettori americani ritiene che la vittoria di Biden non sia legittima (di questi, il 70% sono repubblicani e il 30% indipendenti). Numeri non certo irrilevanti, che potrebbero creare non pochi problemi al presidente entrante. Un presidente entrante che, in secondo luogo, ha da gestire ulteriori grattacapi. Non solo deve guardarsi le spalle dalla (riottosa) sinistra del suo stesso partito. Ma non bisogna neppure dimenticare il fronte giudiziario: la procura federale del Delaware sta indagando su suo figlio, mentre – in ottobre – il ministro della Giustizia, Bill Barr, ha nominato John Durham procuratore speciale: quel Durham che sta conducendo una controinchiesta sul caso Russiagate e che – in questa nuova veste – disporrà degli stessi poteri di cui godette ai tempi Robert Mueller. Una volta insediato, Biden si troverà quindi preda di un dilemma: usare il Dipartimento di giustizia per bloccare tutto oppure evitare di intervenire. Se nel primo caso si esporrebbe all'accusa di abuso di potere, nel secondo dovrebbe guidare la propria amministrazione tra due pericolose mine vaganti. In terzo luogo, sono gli stessi repubblicani che difficilmente potranno fare a meno di Trump. L'attuale presidente ha indubbiamente commesso degli errori (dal disinteresse per la costruzione di un consenso ideologico-culturale a una tardiva battaglia contro i big della Silicon Valley). Eppure, nonostante i limiti, ha permesso all'elefantino di allargare la propria base alle minoranze etniche e alla working class: risultato che, appena otto anni fa, sembrava inimmaginabile e che costituisce un patrimonio elettorale imprescindibile per un partito che voglia realmente tornare a conquistare la Casa Bianca. La notizia della morte politica di Trump appare quindi fortemente esagerata. Perché il presidente – nel bene o nel male – rappresenta al momento l'unico volto riconoscibile in un'America sempre più preda del caos e di attori politici di scarsa fibra. Certo: non è semplice affrontare quattro anni di traversata nel deserto. Ma, date queste premesse, neppure impossibile. Qualcuno magari storcerà il naso, attribuendo proprio a Trump la responsabilità della polarizzazione americana. Per carità, il presidente ci ha messo del suo nell'esacerbare lo scontro politico-istituzionale. Ma i democratici – in questi quattro anni – non sono stati da meno, cavalcando battaglie puramente strumentali: dalla bolla di sapone del Russiagate a un processo di impeachment privo di fondamento, passando per l'ostruzionismo partigiano alla conferma del giudice Brett Kavanaugh. Pertanto, prima di dire che la crisi istituzionale americana sia tutta colpa di Trump, pensiamoci bene.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
Continua a leggereRiduci
Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.
2025-11-20
Mondiali 2026, il cammino dell'Italia: Irlanda del Nord in semifinale e Galles o Bosnia in finale
True
Getty Images
Gli azzurri affronteranno in casa l’Irlanda del Nord nella semifinale playoff del 26 marzo, con eventuale finale in trasferta contro Galles o Bosnia. A Zurigo definiti percorso e accoppiamenti per gli spareggi che assegnano gli ultimi posti al Mondiale 2026.





