True
2022-05-30
L'olocausto degli Italiani in Estremo Oriente (1943-1945)
True
Vista area di un campo di prigionia in Giappone nel 1945. Nel riquadro, Dacia Maraini (Ansa)
Quando si pensa alla sorte degli Italiani durante la guerra, la memoria collettiva ricorda il dramma dell’armistizio e le sue conseguenze, l’esercito sbandato, le sofferenze dei civili sotto le bombe e sotto i morsi della fame, oltre al dramma dei prigionieri di guerra e della lotta fratricida degli ultimi mesi del conflitto. Pochi ricordano che una situazione molto simile se non per alcuni tratti peggiore si creò tra i cittadini italiani residenti in Estremo Oriente. Tra la fine del secolo XIX e gli anni Trenta, la presenza italiana in Asia era aumentata. In Cina, in seguito all’intervento di reparti della Regia Marina nella soppressione della sanguinosa rivolta dei Boxers, all’Italia fu accordata una concessione territoriale a Tientsin nella quale si insediarono oltre al personale di rappresentanza e militare, anche numerosi addetti al commercio per un totale di circa 300 residenti. Presenze italiane e legazioni erano presenti anche a Shanghai, nell’Indocina francese ed in Giappone. Nella terra del sol levante la presenza italiana crebbe con l’alleanza politico-militare del Patto Roma-Berlino-Tokyo e a partire dalla fine degli anni Trenta l’Italia fascista fu anche fornitore di armamenti e aerei, come i bombardieri Fiat B.R. 20 inviati in occasione della guerra del Manciukuò, alla cui spedizione parteciparono addetti della Regia Aeronautica con funzioni di addestramento e assistenza tecnica. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, la presenza italiana in Estremo Oriente consisteva per i 2/3 da militari del Battaglione «San Marco», della Regia Marina e dal personale diplomatico. Il restante terzo era costituito da commercianti, missionari cattolici e privati cittadini. Circa 400 si trovavano in Cina settentrionale, 300 in quella centro-meridionale (Shanghai), 100 in Indocina, altrettanti nelle Filippine e Giappone. In ordine cronologico, i primi italiani in Oriente ad essere considerati nemici furono i residenti in Indocina in quanto l’Italia entrò in guerra contro la Francia nel giugno 1940. Arrestati, furono internati in dure condizioni nelle carceri delle capitali. Tuttavia il loro calvario durerà poco a causa della capitolazione francese avvenuta poco dopo l’inizio delle ostilità. Una situazione simile si verificò nelle Indie Olandesi (Giava e Sumatra) dove furono incarcerati fino all’invasione tedesca dei Paesi Bassi i funzionari italiani dei Monopoli di Stato. In seguito saranno internati momentaneamente in campi di prigionia in India, prima che i Giapponesi strappassero quei territori alle esigue forze olandesi nel 1942.
Per gli italiani residenti in Giappone e nei territori governati dall’Impero del sol levante il clima mutò dalla caduta del fascismo il 25 luglio 1943. Già diffidenti per natura nei confronti degli occidentali, I Giapponesi cominciarono una stretta vigilanza sugli Italiani a cominciare dall’isolamento delle comunicazioni con il resto del mondo, sia telegrafiche che postali che navali. Prima della caduta di Mussolini, i collegamenti con l’Estremo Oriente erano garantite da navi transatlantiche come il “Calitea”, il “Carignano” e l’”Ada”, appartenenti al Lloyd Triestino. Addirittura, poco prima del conflitto fu sperimentato un collegamento aereo con Roma attraverso uno scalo a Stalino in Ucraina (oggi Donetsk) fino alla Cina settentrionale e al Giappone. Tutto finì con l’8 settembre 1943 quando la notizia dell’armistizio e della resa colse di sorpresa gli Italiani che si trovavano in Giappone e nei territori occupati. Da quella tragica data iniziò una feroce persecuzione ai danni degli ex-alleati, intrappolati a migliaia di chilometri dall’Italia, martoriata in quei mesi dalla guerra civile e dalle bombe degli Alleati. La sorte delle navi italiane presenti nei porti orientali anticipò quella che sarebbe stata quella dei loro passeggeri braccati. Delle navi alla rada che cercarono di salpare, solamente la “Eritrea” che al momento dell’armistizio si trovava in navigazione riuscì a raggiungere il porto sicuro di Colombo. Le altre imbarcazioni (Lepanto, Carlotta, Conte Verde e Calitea) dovettero essere affondate per non cadere in mano nipponica. Per la nave "Ada”, la fine fu ancora più tragica. Sequestrata dalla Marina Imperiale giapponese e utilizzata per il trasporto di carbone, fu affondata dagli americani pochi giorni prima della resa italiana. Nel porto di Sepang, a Sumatra, si trovavano i sommergibili italiani “Torelli”, “Giuliani” e “Cappellini“. Tutti furono sequestrati dai Giapponesi. Il “Torelli” fu poi ceduto alla Kriegsmarine tedesca e ribattezzato U-It-25. Posto sotto i comandi del tenente colonnello Werner Strieger, l’equipaggio si divise. Quelli che giurarono fedeltà al Re Vittorio Emanuele III furono immediatamente internati. Gli equipaggi delle navi affondate furono trasferiti nei campi di prigionia delle Filippine dove rimasero dall’aprile 1944 all’inizio dell’anno successivo. Una parte dei marinai italiani fu protagonista di una tragedia nella tragedia. Come avvenne per parte dei superstiti della Divisione «Acqui» a Cefalonia, alcuni equipaggi furono imbarcati su navi tedesche che furono quasi tutte affondate nel tentativo di forzare il blocco navale alleato.
Per il personale diplomatico e per i cittadini italiani, dalla costituzione della Repubblica Sociale Italiana in avanti le condizioni si fecero insopportabili, perché i Giapponesi li tenevano sotto costante minaccia paventando il fatto che Mussolini, tornato al potere nel Nord Italia, avrebbe presto ordinato la fucilazione di tutti i traditori italiani sul suolo nipponico. Gli italiani e le loro famiglie, tra cui un discreto numero di giovani e bambini, furono detenuti in condizioni durissime nei campi di prigionia disseminati in territorio giapponese e nelle zone occupate. Inflessibili dal giorno seguente l’armistizio, gli ex alleati nipponici considerarono la resa italiana come un evento che avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra in quanto all’inizio del conflitto avevano confidato nel dominio italiano sul Mediterraneo, che avrebbe impegnato le forze alleate permettendo al Giappone di controllare tutta l’area del Pacifico. Il crollo dell’alleato del patto tripartito generò disprezzo nei confronti degli Italiani, che furono da allora considerati meno che animali. E come le bestie vivevano gli internati italiani, spesso torturati a campione, isolati in baracche con meno di un metro quadro di spazio a disposizione e senza servizi igienici di alcun tipo. Esposti alle malattie endemiche come la malaria e il beri-beri, per grave carenza vitaminica, i prigionieri italiani furono sottoposti anche alla scelta di «aderire alla Rsi» per riottenere la libertà, una proposta inconciliabile con la realtà, data dalla distanza dalla madrepatria e per le notizie fasulle che i Giapponesi mostravano sui giornali di propaganda distribuiti nei campi di prigionia. I più terribili tra i luoghi di reclusione furono i campi di Denen-Chofu, un sobborgo collinare di Tokyo e Tempaku-Nagoya. Qui ai prigionieri adulti (e non) veniva negato qualunque diritto, anche il più elementare, in aperta violazione con gli accordi internazionali sui prigionieri di guerra. Le cure mediche erano inesistenti, le torture e le percosse applicate in modo randomico, gli ambienti luridi e malsani. Con una manciata di riso o una zuppa di acqua e foglie di cavolo al giorno, la denutrizione e la dissenteria mortale erano in agguato ogni giorno. Oltre alle condizioni già di per sé insostenibili della prigionia, gli Italiani in Giappone dovettero sperare di sopravvivere ai devastanti bombardamenti americani che negli ultimi mesi di guerra si fecero frequentissimi. Spesso come unico rifugio antiaereo l’unica struttura a disposizione era una trincea scavata nel terreno dagli stessi prigionieri. basti pensare che il solo campo di Denen-Chofu ebbe più di 500 allarmi aerei in soli nove mesi, mentre tutt’intorno al campo Tokyo veniva ridotta ad una massa immensa di macerie fumanti. Il campo di Nagoya fu alla fine sfollato in un luogo in aperta campagna dove gli Italiani ebbero alcuni sporadici contatti con prigionieri olandesi. Verranno liberati oltre due settimane dopo la resa del Giappone dagli Americani. A Denen-Chofu, il campo peggiore, furono rinchiusi tutti i membri dell’ambasciata e dei consolati italiani. Il 4 luglio 1945 furono tutti trascinati per le vie distrutte di Tokyo fino ad una stazione ferroviaria dove furono stipati su un carro merci e portati a 600 chilometri di distanza sino a Kemanai, a nord di Honshu. Qui le condizioni apparvero addirittura peggiori delle precedenti, in quanto le baracche dove vennero ammassati si trovavano nel mezzo di risaie malariche e senza cibo. Qui furono trattati ancora peggio da rozzi poliziotti di campagna, mentre la loro dieta a stento superava le 600 calorie giornaliere. Il tasso di decessi in quei giorni tragici superò di colpo il 20% e la perdita media di peso superava i 25 chilogrammi. Mentre si trovavano isolati e ammalati, caddero le atomiche su Hiroshima e Nagasaki e l’Impero del Sol levante si arrese il 15 agosto 1945. Nonostante la notizia fosse ufficiale, le guardie del campo continuarono le loro angherie negando gli avvenimenti. Soltanto il 29 agosto i prigionieri delle rappresentanze diplomatiche italiane furono liberati e presi in consegna dagli Americani che il 9 settembre successivo, dopo la capitolazione definitiva del Giappone, disarmarono le forze armate nipponiche. Il 15 settembre 1945 il tricolore sventolava nuovamente su quello che rimaneva della sede dell’Ambasciata italiana di Tokyo, pesantemente danneggiata dai bombardamenti della fine di maggio di quell’anno, quando la guerra in Italia era finita da un mese.
Il racconto dell’olocausto vissuto dagli Italiani in quegli anni di prigionia sul suolo giapponese è vivo nella memoria di una delle più celebrate scrittrici degli ultimi decenni, Dacia Maraini. Figlia dell’illustre antropologo e orientalista Fosco e di Topazia Alliata di Salaparuta, era la primogenita di tre sorelle. Nel 1938 seguì la famiglia in Giappone in quanto Fosco Maraini aveva vinto una cattedra in università. Poco dopo l’arrivo dei Maraini nacquero Luisa Yuki e Antonella detta Toni e la famiglia visse un breve periodo felice a Sapporo. Come per tutti gli altri italiani nei territori sotto i Giapponesi in Estremo Oriente, anche per Dacia e i suoi l’inizio dell’incubo ebbe una data precisa, l’ 8 settembre 1943. Poche ore dopo la resa dell’Italia, la loro casa fu circondata dalla polizia e dopo un breve periodo ai domiciliari furono deportati nel campo di Tempaku-Nagoya, non lontano da Hiroshima. Le condizioni del campo negli ultimi mesi di guerra furono di patimento assoluto. I prigionieri per integrare una dieta inesistente dovettero mangiare piccoli serpenti o formiche. Dacia e le sorelle raggiunsero uno stadio di profonda malnutrizione, mentre la terra tremò per le bombe e per i terremoti. Alla disperazione, Fosco Maraini con incredibile freddezza compì un gesto estremo, studiato nei dettagli grazie alla profonda conoscenza della cultura e delle tradizioni nipponiche. Durante una corvée nel campo il professore toscano chiese un’accetta per il giardinaggio e davanti ai carcerieri aguzzini si amputò due falangi del mignolo sinistro. Questo tipo di autolesionismo per la tradizione nipponica aveva un significato profondo che, da grande orientalista qual’era, Fosco ben conosceva. Chiamato «yubi-kiri», il taglio del dito scagliato contro l’interlocutore poneva quest’ultimo di fronte alla dimostrazione di una «disonorevole mancanza» nei confronti di chi lo aveva praticato. La conseguenza del macabro gesto, che costò un pezzo di dito al padre di Dacia Maraini, fu che le condizioni della famiglia nel campo migliorarono con l’affidamento di una capra grazie al cui latte Dacia e le sorelle ebbero salva la vita. Come decine di altri connazionali, la scrittrice e saggista per lunghi mesi dopo il rientro in Italia avvenuto solo nel 1947 convivrà con i fantasmi dell’olocausto vissuto a migliaia di chilometri da casa, conservando il timore della fame e l’angoscia profonda dei rumori forti come quelli delle bombe e del terremoto.
Continua a leggere
Riduci
Alleati dei Giapponesi fino all'armistizio, militari e civili Italiani residenti in Asia orientale furono fatti oggetto di estrema violenza e privazioni nei campi di prigionia nipponici. Un dramma quasi dimenticato e la testimonianza di chi passò da quell'inferno come Dacia Maraini.Quando si pensa alla sorte degli Italiani durante la guerra, la memoria collettiva ricorda il dramma dell’armistizio e le sue conseguenze, l’esercito sbandato, le sofferenze dei civili sotto le bombe e sotto i morsi della fame, oltre al dramma dei prigionieri di guerra e della lotta fratricida degli ultimi mesi del conflitto. Pochi ricordano che una situazione molto simile se non per alcuni tratti peggiore si creò tra i cittadini italiani residenti in Estremo Oriente. Tra la fine del secolo XIX e gli anni Trenta, la presenza italiana in Asia era aumentata. In Cina, in seguito all’intervento di reparti della Regia Marina nella soppressione della sanguinosa rivolta dei Boxers, all’Italia fu accordata una concessione territoriale a Tientsin nella quale si insediarono oltre al personale di rappresentanza e militare, anche numerosi addetti al commercio per un totale di circa 300 residenti. Presenze italiane e legazioni erano presenti anche a Shanghai, nell’Indocina francese ed in Giappone. Nella terra del sol levante la presenza italiana crebbe con l’alleanza politico-militare del Patto Roma-Berlino-Tokyo e a partire dalla fine degli anni Trenta l’Italia fascista fu anche fornitore di armamenti e aerei, come i bombardieri Fiat B.R. 20 inviati in occasione della guerra del Manciukuò, alla cui spedizione parteciparono addetti della Regia Aeronautica con funzioni di addestramento e assistenza tecnica. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, la presenza italiana in Estremo Oriente consisteva per i 2/3 da militari del Battaglione «San Marco», della Regia Marina e dal personale diplomatico. Il restante terzo era costituito da commercianti, missionari cattolici e privati cittadini. Circa 400 si trovavano in Cina settentrionale, 300 in quella centro-meridionale (Shanghai), 100 in Indocina, altrettanti nelle Filippine e Giappone. In ordine cronologico, i primi italiani in Oriente ad essere considerati nemici furono i residenti in Indocina in quanto l’Italia entrò in guerra contro la Francia nel giugno 1940. Arrestati, furono internati in dure condizioni nelle carceri delle capitali. Tuttavia il loro calvario durerà poco a causa della capitolazione francese avvenuta poco dopo l’inizio delle ostilità. Una situazione simile si verificò nelle Indie Olandesi (Giava e Sumatra) dove furono incarcerati fino all’invasione tedesca dei Paesi Bassi i funzionari italiani dei Monopoli di Stato. In seguito saranno internati momentaneamente in campi di prigionia in India, prima che i Giapponesi strappassero quei territori alle esigue forze olandesi nel 1942. Per gli italiani residenti in Giappone e nei territori governati dall’Impero del sol levante il clima mutò dalla caduta del fascismo il 25 luglio 1943. Già diffidenti per natura nei confronti degli occidentali, I Giapponesi cominciarono una stretta vigilanza sugli Italiani a cominciare dall’isolamento delle comunicazioni con il resto del mondo, sia telegrafiche che postali che navali. Prima della caduta di Mussolini, i collegamenti con l’Estremo Oriente erano garantite da navi transatlantiche come il “Calitea”, il “Carignano” e l’”Ada”, appartenenti al Lloyd Triestino. Addirittura, poco prima del conflitto fu sperimentato un collegamento aereo con Roma attraverso uno scalo a Stalino in Ucraina (oggi Donetsk) fino alla Cina settentrionale e al Giappone. Tutto finì con l’8 settembre 1943 quando la notizia dell’armistizio e della resa colse di sorpresa gli Italiani che si trovavano in Giappone e nei territori occupati. Da quella tragica data iniziò una feroce persecuzione ai danni degli ex-alleati, intrappolati a migliaia di chilometri dall’Italia, martoriata in quei mesi dalla guerra civile e dalle bombe degli Alleati. La sorte delle navi italiane presenti nei porti orientali anticipò quella che sarebbe stata quella dei loro passeggeri braccati. Delle navi alla rada che cercarono di salpare, solamente la “Eritrea” che al momento dell’armistizio si trovava in navigazione riuscì a raggiungere il porto sicuro di Colombo. Le altre imbarcazioni (Lepanto, Carlotta, Conte Verde e Calitea) dovettero essere affondate per non cadere in mano nipponica. Per la nave "Ada”, la fine fu ancora più tragica. Sequestrata dalla Marina Imperiale giapponese e utilizzata per il trasporto di carbone, fu affondata dagli americani pochi giorni prima della resa italiana. Nel porto di Sepang, a Sumatra, si trovavano i sommergibili italiani “Torelli”, “Giuliani” e “Cappellini“. Tutti furono sequestrati dai Giapponesi. Il “Torelli” fu poi ceduto alla Kriegsmarine tedesca e ribattezzato U-It-25. Posto sotto i comandi del tenente colonnello Werner Strieger, l’equipaggio si divise. Quelli che giurarono fedeltà al Re Vittorio Emanuele III furono immediatamente internati. Gli equipaggi delle navi affondate furono trasferiti nei campi di prigionia delle Filippine dove rimasero dall’aprile 1944 all’inizio dell’anno successivo. Una parte dei marinai italiani fu protagonista di una tragedia nella tragedia. Come avvenne per parte dei superstiti della Divisione «Acqui» a Cefalonia, alcuni equipaggi furono imbarcati su navi tedesche che furono quasi tutte affondate nel tentativo di forzare il blocco navale alleato. Per il personale diplomatico e per i cittadini italiani, dalla costituzione della Repubblica Sociale Italiana in avanti le condizioni si fecero insopportabili, perché i Giapponesi li tenevano sotto costante minaccia paventando il fatto che Mussolini, tornato al potere nel Nord Italia, avrebbe presto ordinato la fucilazione di tutti i traditori italiani sul suolo nipponico. Gli italiani e le loro famiglie, tra cui un discreto numero di giovani e bambini, furono detenuti in condizioni durissime nei campi di prigionia disseminati in territorio giapponese e nelle zone occupate. Inflessibili dal giorno seguente l’armistizio, gli ex alleati nipponici considerarono la resa italiana come un evento che avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra in quanto all’inizio del conflitto avevano confidato nel dominio italiano sul Mediterraneo, che avrebbe impegnato le forze alleate permettendo al Giappone di controllare tutta l’area del Pacifico. Il crollo dell’alleato del patto tripartito generò disprezzo nei confronti degli Italiani, che furono da allora considerati meno che animali. E come le bestie vivevano gli internati italiani, spesso torturati a campione, isolati in baracche con meno di un metro quadro di spazio a disposizione e senza servizi igienici di alcun tipo. Esposti alle malattie endemiche come la malaria e il beri-beri, per grave carenza vitaminica, i prigionieri italiani furono sottoposti anche alla scelta di «aderire alla Rsi» per riottenere la libertà, una proposta inconciliabile con la realtà, data dalla distanza dalla madrepatria e per le notizie fasulle che i Giapponesi mostravano sui giornali di propaganda distribuiti nei campi di prigionia. I più terribili tra i luoghi di reclusione furono i campi di Denen-Chofu, un sobborgo collinare di Tokyo e Tempaku-Nagoya. Qui ai prigionieri adulti (e non) veniva negato qualunque diritto, anche il più elementare, in aperta violazione con gli accordi internazionali sui prigionieri di guerra. Le cure mediche erano inesistenti, le torture e le percosse applicate in modo randomico, gli ambienti luridi e malsani. Con una manciata di riso o una zuppa di acqua e foglie di cavolo al giorno, la denutrizione e la dissenteria mortale erano in agguato ogni giorno. Oltre alle condizioni già di per sé insostenibili della prigionia, gli Italiani in Giappone dovettero sperare di sopravvivere ai devastanti bombardamenti americani che negli ultimi mesi di guerra si fecero frequentissimi. Spesso come unico rifugio antiaereo l’unica struttura a disposizione era una trincea scavata nel terreno dagli stessi prigionieri. basti pensare che il solo campo di Denen-Chofu ebbe più di 500 allarmi aerei in soli nove mesi, mentre tutt’intorno al campo Tokyo veniva ridotta ad una massa immensa di macerie fumanti. Il campo di Nagoya fu alla fine sfollato in un luogo in aperta campagna dove gli Italiani ebbero alcuni sporadici contatti con prigionieri olandesi. Verranno liberati oltre due settimane dopo la resa del Giappone dagli Americani. A Denen-Chofu, il campo peggiore, furono rinchiusi tutti i membri dell’ambasciata e dei consolati italiani. Il 4 luglio 1945 furono tutti trascinati per le vie distrutte di Tokyo fino ad una stazione ferroviaria dove furono stipati su un carro merci e portati a 600 chilometri di distanza sino a Kemanai, a nord di Honshu. Qui le condizioni apparvero addirittura peggiori delle precedenti, in quanto le baracche dove vennero ammassati si trovavano nel mezzo di risaie malariche e senza cibo. Qui furono trattati ancora peggio da rozzi poliziotti di campagna, mentre la loro dieta a stento superava le 600 calorie giornaliere. Il tasso di decessi in quei giorni tragici superò di colpo il 20% e la perdita media di peso superava i 25 chilogrammi. Mentre si trovavano isolati e ammalati, caddero le atomiche su Hiroshima e Nagasaki e l’Impero del Sol levante si arrese il 15 agosto 1945. Nonostante la notizia fosse ufficiale, le guardie del campo continuarono le loro angherie negando gli avvenimenti. Soltanto il 29 agosto i prigionieri delle rappresentanze diplomatiche italiane furono liberati e presi in consegna dagli Americani che il 9 settembre successivo, dopo la capitolazione definitiva del Giappone, disarmarono le forze armate nipponiche. Il 15 settembre 1945 il tricolore sventolava nuovamente su quello che rimaneva della sede dell’Ambasciata italiana di Tokyo, pesantemente danneggiata dai bombardamenti della fine di maggio di quell’anno, quando la guerra in Italia era finita da un mese.Il racconto dell’olocausto vissuto dagli Italiani in quegli anni di prigionia sul suolo giapponese è vivo nella memoria di una delle più celebrate scrittrici degli ultimi decenni, Dacia Maraini. Figlia dell’illustre antropologo e orientalista Fosco e di Topazia Alliata di Salaparuta, era la primogenita di tre sorelle. Nel 1938 seguì la famiglia in Giappone in quanto Fosco Maraini aveva vinto una cattedra in università. Poco dopo l’arrivo dei Maraini nacquero Luisa Yuki e Antonella detta Toni e la famiglia visse un breve periodo felice a Sapporo. Come per tutti gli altri italiani nei territori sotto i Giapponesi in Estremo Oriente, anche per Dacia e i suoi l’inizio dell’incubo ebbe una data precisa, l’ 8 settembre 1943. Poche ore dopo la resa dell’Italia, la loro casa fu circondata dalla polizia e dopo un breve periodo ai domiciliari furono deportati nel campo di Tempaku-Nagoya, non lontano da Hiroshima. Le condizioni del campo negli ultimi mesi di guerra furono di patimento assoluto. I prigionieri per integrare una dieta inesistente dovettero mangiare piccoli serpenti o formiche. Dacia e le sorelle raggiunsero uno stadio di profonda malnutrizione, mentre la terra tremò per le bombe e per i terremoti. Alla disperazione, Fosco Maraini con incredibile freddezza compì un gesto estremo, studiato nei dettagli grazie alla profonda conoscenza della cultura e delle tradizioni nipponiche. Durante una corvée nel campo il professore toscano chiese un’accetta per il giardinaggio e davanti ai carcerieri aguzzini si amputò due falangi del mignolo sinistro. Questo tipo di autolesionismo per la tradizione nipponica aveva un significato profondo che, da grande orientalista qual’era, Fosco ben conosceva. Chiamato «yubi-kiri», il taglio del dito scagliato contro l’interlocutore poneva quest’ultimo di fronte alla dimostrazione di una «disonorevole mancanza» nei confronti di chi lo aveva praticato. La conseguenza del macabro gesto, che costò un pezzo di dito al padre di Dacia Maraini, fu che le condizioni della famiglia nel campo migliorarono con l’affidamento di una capra grazie al cui latte Dacia e le sorelle ebbero salva la vita. Come decine di altri connazionali, la scrittrice e saggista per lunghi mesi dopo il rientro in Italia avvenuto solo nel 1947 convivrà con i fantasmi dell’olocausto vissuto a migliaia di chilometri da casa, conservando il timore della fame e l’angoscia profonda dei rumori forti come quelli delle bombe e del terremoto.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Continua a leggere
Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
Continua a leggere
Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
Continua a leggere
Riduci