2024-09-22
Davanti all’Apocalisse serve un senso e lo possiamo trovare nei fumetti
«Ken il guerriero» è un manga in 245 capitoli pubblicati dal 1983 al 1988 e poi raccolti in 27 volumi
La riedizione di «Ken il guerriero» e la trasposizione grafica del capolavoro di Cormac McCarthy, «La strada», ci dicono che si può ancora distinguere il bene dal male. Anche in un mondo in cui l’umanità si è smarrita.Va di moda l’Apocalisse. Affiora ovunque, spunta nelle ansie degli adolescenti e nei turbamenti degli adulti, viene evocata nel discorso pubblico che si snoda a fatica tra il tramonto dell’Occidente in diretta streaming e il panico indotto da catastrofe climatica. Servirebbe allora un manuale per affrontarla, questa fine dei tempi, e il destino vuole che ne esistano addirittura un paio, adatti a tutte le età grazie all’arte del fumetto. Quasi in contemporanea il lettore può godere della attesa riedizione - per Planet manga di Panini comics - della saga di Ken il guerriero (Hokuto no Ken nell’originale giapponese) e della trasposizione in graphic novel del capolavoro di Cormac McCarthy, La Strada, realizzata dal maestro francese Manu Larcenet (e pubblicata da Coconino). All’apparenza, le due opere hanno poco a che spartire oltre allo scenario - appunto - apocalittico in cui sono ambientate. I funghi nucleari e i venti che sferzano la terra sono il sipario che conduce sulla scena di entrambe. La saga di Kenshiro - affresco di epica contemporanea se ce n’è uno - si apre con una secca constatazione: «Siamo alla fine del ventesimo secolo, il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni atomiche». La Strada nella versione di Larcenet si dipana a partire da un denso fumo nero. Ma poi?Poi sembra tutto diverso. Kenshiro viene creato nel 1983 dai fenomenali Tetsuo Hara e Buronson, probabilmente sull’onda del panico da Guerra fredda. La Strada è del 2006, è lì le prospettive di distruzione sono forse meno spettacolari ma più profonde: quel che marcisce è il nostro mondo occidentale, trasformato nella Waste Land già descritta da T.S. Eliot, un deserto morale prima che fisico. Non potrebbero essere più differenti i protagonisti. Ken è un combattente, forgiato nella disciplina delle arti marziali e sostanzialmente imbattibile. La sua chiave di lettura della realtà è la violenza più spaventosa, che sbriciola casse toraciche e fa esplodere crani. Il padre e il figlio di McCarthy e Larcenet sono, invece, due indifesi. Due vittime senza armi, senza pugni, senza muscoli. Anzi sono arrochiti dalla cenere che impregna l’aria e seccati dal vento gelido, abbandonati all’ignoto più terrificante. Ma ecco, d’improvviso, le similitudini. Ecco manifestarsi il codice di condotta in caso di Apocalisse. Sia Ken il guerriero sia La strada non si limitano a essere scuole di sopravvivenza, anzi da questo punto di vista sono del tutto inutili. Lo scopo dei personaggi principali non è escogitare un modo per restare vivi (per quello sarebbe già sufficiente Mad Max). Semmai, tutti mirano a restare vivi mantenendo un senso. Le due opere si chiedono, in fondo, se sia possibile distinguere ancora fra bene e male dopo la morte di Dio e la quasi completa estinzione della razza umana. Ed entrambe rispondono che sì, è possibile. Come ha scritto Erik J. Wielenberg, filosofo della DePauw university in Indiana, «nel mondo de La strada c’è una semplice regola per distinguere i buoni dai cattivi. I cattivi divorano le persone, i buoni no. Questo è ciò che resta dell’imperativo categorico: non trattare le persone come qualcosa da consumare. [...] Nel corso del romanzo siamo testimoni di come l’uomo lotta per essere un giusto, per fare ciò che è bene in un mondo in cui la maggior parte delle persone sembra aver abbandonato ogni parvenza di moralità».Che cosa dà senso alla sopravvivenza in una landa desolata? Che cosa permette di risanarla? La risposta è la stessa fornita dai poemi cavallereschi sulla cerca del Graal: il dono, la cura dell’altro, la relazione. L’amore, dopo tutto. Padre e figlio sono «portatori del fuoco», avanzano coraggiosamente e disperatamente in una queste sfibrante, e ciò che trovano di più alto e il loro legame: quell’amore li salva. La volontà del padre di testimoniare al figlio una via onorevole ormai scomparsa, lo sguardo del figlio che trova nel genitore l’unico luogo sicuro in cui depositare la propria debolezza. Se i due protagonisti della Strada sono testimoni, Kenshiro è invece una sorta di messia. È un salvatore dell’umanità che tuttavia non fa conto sulla sua sola forza bruta. Egli segue a sua volta una tradizione e la trasmette, è una specie di samurai che vive - come il bushido insegna - in compagnia della morte. Eppure non rinuncia alla grazia, alla compassione, persino in rari casi alla dolcezza verso i deboli. Suo fratello Raoul, il vero antagonista, è l’uomo che ha rinunciato a ogni legge superiore per imporre la propria potenza priva di limiti: combatte per comandare, non per riportare un ordine. Ken fa il contrario: si abbandona alla sorte, forse alla provvidenza, e se ne fa strumento rinunciando alle sue passioni in nome di un bene più grande. È su questo terreno che i due capolavori a fumetti si ritrovano e si scoprono vicini. E insegnano che l’Apocalisse può persino essere - come nei tempi antichi - un testo consolatorio. A patto di non perdere la giusta via: quella del guerriero che sa amare il prossimo.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
Continua a leggereRiduci