2019-12-14
Johnson si gode la vittoria. Il 31 gennaio scatta il divorzio da Bruxelles
L'esuberante leader dei Tory raggiante per il risultato: «Che la guarigione abbia inizio». La tabella di marcia della Brexit, però, resta incerta. Soprattutto per le divisioni nell'Ue.Laburisti mai così male dal 1935, reggono solo nei feudi ricchi della capitale. Sotto al Vallo di Adriano i conservatori cannibalizzano tutto, ma sulle Highland si scalpita per abbandonare la Corona.Lo speciale contiene due articoli.La Brexit si avvicina. La netta vittoria dei conservatori in Regno Unito giovedì scorso ha conferito al premier britannico, Boris Johnson, un mandato forte per attuare il divorzio di Londra dall'Unione europea. «Che la guarigione abbia inizio», ha dichiarato ieri il premier. «Voglio che sappiate», ha proseguito, «che in questo governo conservatore non ignoreremo mai i vostri buoni e positivi sentimenti di calore e simpatia verso le altre nazioni d'Europa. Perché adesso è il momento, proprio mentre abbandoniamo l'Ue, di lasciare che quei sentimenti naturali trovino una rinnovata espressione nella costruzione di un nuovo partenariato, che è uno dei grandi progetti per il prossimo anno». Del resto, la campagna elettorale di queste ultime settimane aveva trovato proprio nella Brexit il suo principale centro gravitazionale. Obiettivo del premier è sempre stato quello di ottenere una maggioranza nutrita, che gli permettesse di dare seguito a quanto stabilito dalla volontà popolare nel referendum del 2016. E, in un certo senso, è stato proprio questo obiettivo netto ad aver costituito la fortuna elettorale di Johnson.D'altronde, il tracollo dei laburisti sta lì a dimostrarlo: al di là delle sue posizioni giudicate da molti troppo a sinistra, il grande problema di Jeremy Corbyn si è principalmente rivelato la profonda ambiguità da lui ripetutamente mostrata sul tema Brexit. Un'ambiguità che, alla fine, ha scontentato ampie frange del suo partito: dai blairiani agli ambienti operai euroscettici. Ambienti operai euroscettici che, dal canto loro, hanno in buona parte volto il proprio sguardo verso la compagine tory: in tal senso, non va trascurato che - in questa occasione - il programma dei conservatori abbia mostrato una certa attenzione al welfare state (dalle pensioni alla sanità). Inoltre un ulteriore dato interessante risiede nel pessimo risultato conseguito dai liberaldemocratici di Jo Swinson: quegli stessi liberaldemocratici che hanno puntato tutto su un messaggio smaccatamente europeista, arrivando ad invocare l'indizione di un secondo referendum che potesse bloccare l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea. La sonora bocciatura di questa linea ha tuttavia evidenziato, una volta di più, le decise tendenze euroscettiche dell'elettorato britannico. Il 31 di gennaio è la data in cui si consumerà il divorzio di Londra da Bruxelles. Seguirà quindi un periodo di transizione della durata di quasi un anno. A fronte di questa tabella di marcia, l'impegno che il premier si è assunto in campagna elettorale appare non poco ambizioso. Johnson ha infatti detto di voler negoziare un accordo commerciale con Bruxelles entro la fine del 2020, assicurando inoltre che Londra resterà fuori dal Mercato europeo comune. In quest'ottica, il premier vuole quindi svincolarsi formalmente dall'orbita dell'Unione europea, anche con l'obiettivo di avere le mani libere per siglare un'intesa commerciale con gli Stati Uniti: un'intesa che, proprio ieri, Donald Trump è tornato ad auspicare. Il punto sarà capire se l'inquilino di Downing Street riuscirà a tener fede a questa rapida tempistica. Una tempistica che, già nei giorni scorsi, il capo negoziatore di Bruxelles, Michel Barnier, aveva bollato come «irrealistica». Per quanto costui si sia poi detto ieri «disposto a negoziare», bisognerà vedere come si configureranno i rapporti con Johnson nelle prossime settimane. La verità è che, sulla Brexit, non sembra esserci troppa unità di vedute nell'Unione europea. E il contrasto principale che si registra è tra Germania e Francia. Se la prima tende ad assumere una posizione relativamente conciliante, la seconda appare invece più ruvida. Mentre ieri Angela Merkel - pur definendo il Regno Unito un «concorrente» - ha auspicato una «stretta collaborazione con Johnson», Emmanuel Macron si è un po' polemicamente augurato che questo concorrente non sia «sleale». Non è del resto un mistero che il presidente francese punti ad accelerare l'addio britannico dall'Unione europea per rafforzare la propria leadership politica e militare. Differenze di vedute tra l'inquilino di Downing Street e quello dell'Eliseo erano d'altronde già emerse nel recente summit Nato di Londra, con il primo che ha difeso a spada tratta l'Alleanza atlantica e il secondo che l'aveva poco prima definita in stato di «morte cerebrale». Un elemento che evidenzia come tra gli intenti di Johnson ci sia quello di ricompattare l'anglosfera, attraverso una riedizione geopolitica, economica e militare della «special relationship» tra Londra e Washington. Un obiettivo che fomenta le mire «bonapartiste» di Macron in Europa ma che non piace granché dalle parti di Berlino. Quella Berlino che non guarda quindi con troppo favore alla linea dura del francese Barnier. Con ogni probabilità sarà dunque su questa sottile soglia che si giocheranno i negoziati sulla Brexit nei prossimi mesi: una soglia che rischia di creare qualche fastidiosa frattura in seno all'asse franco-tedesco. Johnson, dal canto suo, potrebbe usare come leva negoziale la propria vicinanza con la Casa Bianca, sfruttando tra l'altro le divisioni dello stesso fronte europeo, per cercare di ottenere un accordo vantaggioso nel minor tempo possibile. Paradossalmente la sfida più difficile per lui potrebbe essere rappresentata dalla politica interna: non solo dovrà infatti affrontare le ambizioni indipendentiste scozzesi ma - soprattutto - dovrà riuscire a coniugare la svolta parzialmente sociale dei tory col modello liberista della Singapore sul Tamigi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/johnson-si-gode-la-vittoria-il-31-gennaio-scatta-il-divorzio-da-bruxelles-2641591726.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-voto-riapre-la-partita-scozzese-edimburgo-sogna-lindipendenza" data-post-id="2641591726" data-published-at="1758062589" data-use-pagination="False"> Il voto riapre la partita scozzese. Edimburgo sogna l’indipendenza La Brexit ha abbattuto la muraglia rossa. È crollato il cosiddetto red wall che corre, anzi correva, da Vale of Clwyd nel Galles del Nord fino a Grimsby nel Lincolnshire, sulla costa Est. Ad abbatterlo, il bulldozer Boris Johnson e il suo Partito conservatore, in grado di conquistare alle elezioni generali tenutesi giovedì ben 365 seggi sui 650 della Camera dei Comuni di Londra. Una maggioranza schiacciante, la più ampia vittoria da oltre 30 anni. Serve, infatti, tornare indietro alla seconda rielezione di Margaret Thatcher nel 1987 per trovare un'affermazione più netta da parte dei conservatori britannici. Che rispetto a prima del voto hanno conquistato 66 seggi in più. La maggior parte a scapito del Partito laburista, il grande sconfitto di questa tornata elettorale. Il Labour di Jeremy Corbyn non subiva una così pesante sconfitta da prima della Seconda guerra mondiale: dobbiamo tornare indietro fino al 1935 per trovare un risultato peggiore. Si è fermato a 203 seggi, 42 in meno di quelli con cui ha chiuso la scorsa legislatura. Il Partito laburista ha vinto nelle zone più ricche di Londra, e a molti ha ricordato le ultime performance del Partito democratico italiano ridottosi a partito della zona a traffico limitato. Ma ha perso roccaforti importanti nel Nord e nelle Midland. È crollato il muro rosso attorno a Manchester. Flop anche per il Partito liberaldemocratico, che aveva scommesso tutto su queste elezioni per rilanciarsi puntando sull'europeismo e sui giovani. Un solo obiettivo: fermare la Brexit. La strategia della loro campagna era il cosiddetto voto tattico: invitavano a votare il candidato, sia laburista, libdem o Snp con più chance di battere quello conservatore. Ma è finita male. Non soltanto non hanno fatto registrare l'exploit sperato. Hanno praticamente dimezzato i seggi, passando da 21 a 11. E a confermare il fallimento dei centristi c'è l'epilogo della leader Jo Swinson. Descritta fino a poche ore prima del voto come un astro nascente della politica britannica, ha perso il suo seggio. Il Brexit party di Nigel Farage è rimasto vittima della forza attrattiva di Boris Johnson e non è riuscito a conquistare alcun seggio: un risultato deludente soprattutto se si pensa che alle europee di maggio era stato il primo partito del Paese. Mantengono il loro unico seggio, invece, i Verdi. Tra chi si lecca le ferite, anche il Dup, il Partito unionista democratico dell'Irlanda del Nord, i cui dieci deputati erano fino a giovedì sera fondamentali per la tenuta della maggioranza dei conservatori. Il loro leader a Westminster, Nigel Dodds, ha perso il suo seggio a Belfast North. Una sconfitta che brucia, tanto che l'ex speaker della Camera, John Bercow, l'ha definito la vittima più illustre della nottata elettorale. Il Dup ha perso due seggi, fermandosi a otto. Ma il grosso problema per il partito che fu fondamentale per bocciare per ben tre volte il patto per la Brexit negoziato da Theresa May è la maggioranza di Boris Johnson, così ampia da rendere gli unionisti nordirlandesi ininfluenti. Guardando le mappe del voto, sono due i colori che risaltano di più. Il blu dei conservatori e il giallo dei nazionalisti scozzesi. L'Snp ha infatti conquistato ben 48 seggi, 13 in più rispetto al 2017. Ma è la loro distribuzione a colpire. Infatti, sono 48 sui 59 in palio in tutta la Scozia. Un risultato così significativo che questo voto ha restituito voce a chi tifa per l'indipendenza dalla Corona per rimanere nell'Unione europea (la Scozia nel referendum del 2016 votò a maggioranza «remain»). Oltre il Vallo di Adriano, conservatori e laburisti sono andati male perdendo diversi deputati. Così, ora il Regno Unito è spaccato. A Sud e al Centro il blu del Partito conservatore, il cui nome completo è Partito conservatore e unionista. A Nord, il giallo Snp, indipendentista. L'addio all'Ue ha trionfato in Inghilterra, ma la Scozia «ha detto di nuovo no a Boris Johnson e alla Brexit» nelle elezioni britanniche di giovedì e ha chiarito che «desidera un futuro diverso da quello scelto dal resto del Regno Unito». Così ha parlato Nicola Sturgeon, leader degli indipendentisti dell'Snp e primo ministro scozzese. «Il nostro messaggio ha avuto un enorme successo», ha detto Sturgeon, evocando il voto come «uno spartiacque» e rilanciando la sfida «democratica» per un referendum bis sulla secessione. Londra teme un nuovo caso Catalogna (con la differenza che in quel caso il mainstream sarebbe probabilmente dalla parte degli indipendentisti). Difficilmente Boris Johnson concederà un secondo referendum: né lui né il Partito conservatore vogliono passare alla storia per quelli che hanno perso la Scozia. Ma attenzione, i sogni europeisti degli scozzesi non sono così facili da realizzare: se, come sembra ormai certo, la Scozia lascerà l'Unione europea assieme al Regno Unito il 31 gennaio prossimo, se volesse rientrare successivamente, ottenuta l'indipendenza, nel club di Bruxelles dovrebbe fare tutta la trafila. Che è lunga e alimenta l'incertezza. Senza dimenticare la fortissima dipendenza dell'economia scozzese dal mercato britannico. Con il risultato di giovedì il secondo referendum sulla Brexit sembra un'ipotesi remotissima. Ma, visto quanto appena spiegato, neppure la strada di una consultazione bis sull'indipendenza scozzese appare in discesa.