2018-05-30
Primitivi in lotta contro la civiltà divenuta schiava dalla tecnologia
Escono i saggi di John Zerzan, il filosofo che invita ad abbandonare la civiltà per riscoprire la natura. Come suggeriscono anche scrittori, dietologi e psicanalisti. Uniti per celebrare «l'uomo selvaggio».«Quella che è considerata la più grande conquista dell'umanità - la civiltà - è ormai prossima al collasso. E non sembra una gran bella faccenda. Negli ultimi seimila anni, centinaia di civiltà sono comparse e poi scomparse. Oggi ce n'è una sola: ci sono svariate culture, ma una sola civiltà globale. [...] La civiltà sta fallendo a ogni livello, in ogni sfera; e il suo fallimento corrisponde in gran parte al fallimento della tecnologia. Sempre più spesso è questo che la gente percepisce come collasso». Sono parole di John Zerzan, uno dei più importanti filosofi americani, il principale teorico della corrente di pensiero chiamata «primitivismo». L'editore Mimesis ha appena pubblicato un'esplosiva raccolta dei suoi saggi intitolata Nostra nemica civiltà, i cui toni ricordano il capolavoro di Konrad Lorenz Gli otto peccati capitali della nostra civiltà. Zerzan ne ha per tutti, in primis per la sinistra intellettuale, considerata «un intralcio». Demolisce il culto di Steve Jobs e dei profeti digitali, critica in profondità la società occidentale contemporanea e, ovviamente, infierisce sull'ossessione per la tecnologia che ci domina. «La marcia inesorabile della Macchina», scrive, «non è la soluzione del problema, ma il problema stesso». Zerzan è stato a lungo considerato, nella migliore delle ipotesi, un pazzoide. Nella peggiore, un pericoloso estremista e agitatore. Oggi, però, le sue idee tornano a essere prese in considerazione molto seriamente. Certo, la sua critica alla civiltà resta estrema, e non sempre è facile da condividere. Ma il fatto che ritorni d'attualità è estremamente interessante. Nell'era della rivoluzione digitale imperante, i primitivi non sono mai stati così forti. Da una parte, è una reazione più che comprensibile. Mentre i guru tecnologici profetizzano l'ibridazione tra uomo e macchina, esplode il desiderio di «restare umani» . Curiosamente, sono proprio scienziati come Daniel Lieberman (biologo evolutivo dell'Università di Harvard, autore di La storia del corpo umano, Codice edizioni) a ricordarci che «ci piaccia o no, siamo primati grassocci a cui piacciono gli zuccheri e i grassi, ma siamo ancora adattati a una dieta ricca di frutta e verdura, noci, semi e carne magra. Ci piace rilassarci, ma i nostri corpi sono ancora quelli di atleti di resistenza, evoluti per camminare per molti chilometri al giorno e per correre spesso. Adoriamo le comodità, ma non siamo ben adattati a trascorrere le giornate seduti in poltrona, fissando un libro o lo schermo di un computer». Concetti che la scrittrice canadese Claire Cameron ha trasformato in un romanzo splendido intitolato L'ultima dei Neanderthal, in cui le vicenda di una femmina della specie che abitava la Terra migliaia di anni fa vengono accostate alle peripezie di una donna contemporanea. Siamo simili ai nostri antenati, dice la Cameron. E, forse, possiamo imparare molto da loro. Di sicuro, sostengono alcuni studiosi, possiamo apprendere come mangiare decentemente. Dall'osservazione delle abitudini alimentari degli uomini primitivi nasce la celebre «paleo dieta», i cui principi sono ben illustrati dal biochimico Rob Wolf (in La paleo dieta, Sonzogno, giunto alla quattordicesima edizione). Wolf (e molti altri che si sono occupati di questo argomento) integra lo studio dell'alimentazione dell'homo sapiens nel Paleolitico con le scoperte scientifiche più recenti. E spiega: «Il nostro genoma è praticamente identico a quello dei nostri primi antenati homo sapiens vissuti 100-200.000 anni fa. Siamo geneticamente programmati per un tipo di vita che non c'è più e le nostre condizioni di salute lo confermano.[...] Siamo passati da una dieta ricca di sostanze nutrienti e di proteine - che variava e cambiava a seconda delle aree geografiche e delle stagioni - a una dieta completamente basata su un numero limitato di farinacei». Da qui, l'aumento di una serie sterminata di malattie più o meno croniche, molte delle quali (come l'obesità e il diabete) sono ormai endemiche in Occidente. L'analisi di Wolf, a ben guardare, non è molto diversa da quella di John Zerzan, anche se - ovviamente - il celebre dietologo evita considerazioni politiche di qualsiasi genere. L'aspetto primitivo dell'esistenza - il legame simbiotico con la natura, la riscoperta di un'umanità legata alla terra, agli animali e ai vegetali - affascina scrittori, giornalisti, saggisti e pure autori di serie tv (come quella, splendida, dedicata da Netflix al primitivista Theodore Kaczynski, alias Unabomber). Il giornalista britannico George Monbiot ha pubblicato un libro straordinario da poco tradotto in italiano, ovvero Selvaggi. Il rewilding della terra, del mare e della vita umana (Piano B edizioni). Un testo in cui si raccontano «i luoghi dove alla natura è stato concesso di seguire il proprio meraviglioso e imprevedibile modello di autoguarigione, dopo secoli di saccheggio e distruzione». Nelle librerie italiche è giunto da poco anche Nel bosco (Piemme), grandioso reportage di Michael Finkel dedicato a Christopher Knight, un vero primitivo che ha trascorso 27 anni vivendo nei boschi del Maine, quasi totalmente isolato dalla civiltà. Uno stravagante Thoreau dei nostri giorni, insomma, la cui vicenda è simile a quella di Christopher McCandless, raccontata da Jon Krakauer nel bestseller Nelle terre estreme, vendutissimo ancora oggi (e trasformato nel film Into the wild da Sean Penn nel 2007). Libri come questi, negli ultimi tempi, vanno per la maggiore. Gli scaffali dei negozi sono pieni di tomi sui benefici dei «bagni nella foresta», sugli splendori della vita in montagna (Paolo Cognetti, premio Strega 2017, scrive soprattutto di questo), sull'importanza del contatto con la natura. Le opere di Emerson e Thoreau non sono mai state ristampate come oggi, in particolare Walden, che in fondo è il racconto di un'esperienza primitivista di abbandono della civiltà. Recentemente è ricomparso nelle classifiche di vendita librarie pure Donne che corrono con i lupi, dell'analista junghiana Clarissa Pinkola Estes, ristampato da Pickwick parecchie volte dopo la prima edizione del 1996. «Le antiche lande selvagge del nostro pianeta scompaiono a mano a mano che svanisce la comprensione della nostra intima natura selvaggia», scrive l'autrice, che invita a riprendere contatto con i «territori spirituali» selvaggi che i nostri antenati erano soliti abitare. Per chi volesse approfondire la questione, si consiglia vivamente la lettura dei saggi di Claudio Risé sul «maschio selvatico» e del fondamentale Donne selvatiche, firmato dallo stesso Risé e da Moidi Paregger. Certo, bisogna essere consapevoli che la natura può essere spietata, feroce. Altrimenti si rischia di finire (male) come i protagonisti dell'urticante romanzo satirico di Georges Simenon, Hotel del ritorno alla natura. Cioè un gruppo di ricchi aristocratici che si rifugia su un isola e ne viene inghiottito. Siate consci dei rischi, dunque. Rimane il fatto che riscoprire il proprio lato «selvaggio» è fondamentale, nei giorni in cui la Macchina domina. Mai come oggi, il primitivo è attuale. Proprio come dichiarava il pamphlet di John Zerzan uscito nel 2004.
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