2023-11-19
Delirio per Sinner. Sconfigge Medvedev e oggi si gioca le Finals a Torino
Ennesima impresa dell’altoatesino: batte il russo in tre set. Era da 54 anni che un italiano non arrivava così lontano.Fateci caso: quando Jannik Sinner si appresta a battere la prima di servizio, reclina leggermente le ginocchia, si ferma, concede con la mano qualche rimbalzo alla pallina, guarda poi dritto di fronte a sé con occhio languido eppur gelido, accarezza leggermente l’impugnatura della racchetta, le dà un paio di scossoni quasi a saggiarne la consistenza, poi lancia in alto la palla e, con un movimento di braccio non molto ampio, anzi, col bicipite vicino al corpo, colpisce con furore misurato, rendendo micidiale la sua panoplia guerresca. Nella vittoria alle semifinali degli Atp Finals di Torino sul russo Daniil Medvedev (6-3 6-7 6-1 il punteggio in 2 ore e 29 minuti), ha servito sopra la media del 50% di prime valide. Se l’altoatesino ventiduenne non avesse i capelli rosso carota, non portasse un cappellino con visiera come un’estensione del suo capo, e se non fosse abituato a distribuire qua e là qualche sorriso di approvazione, lo si potrebbe definire «un birillo snodatissimo, con un faccino teso addosso al teschio come una pergamena a un paralume e una ritrosia naturale al sorridere». Era la definizione che il maestro di letteratura tennistica Gianni Clerici diede del campione ceco Ivan Lendl, ed è rimasta nella storia per accuratezza immaginifica. Sì, Lendl e Sinner si somigliano: uno è stato dominatore degli anni Ottanta e ha cominciato a imporsi tra i primi tre del mondo proprio arrivando in finale a un Master, che non è un torneo del Grande Slam, ma per prestigio, punti Atp e danari in palio è come se lo fosse, anticipando con la sua tecnica quella che sarebbe stata la schiatta dei tennisti del futuro: gli attaccanti da fondocampo polivalenti, adattabili a ogni superficie, capaci di esaltarsi sul cemento indoor. Sinner ne è la versione 2.0. Il distacco asburgico con cui non si fa intaccare dalla foga ne certifica il salto mentale e l’autocontrollo acquisito: il russo Medvedev era la sua bestia nera, prima di ottobre aveva sconfitto il nostro campioncino per ben sei volte. Con la vittoria di ieri e con quelle a Pechino e Vienna, Jannik si è preso tre rivincite, strapazzando un rivale che, soprattutto nell’ultimo set, è stato imbrigliato in una tattica consolidata. Medvedev da fondo campo dava libero sfogo al suo drittaccio, talvolta condito da sberloni liftati. Sinner rispondeva colpo su colpo, spesso anticipando quasi il rimbalzo della pallina, teneva scambi anche di nove o dieci combinazioni, e mandava l’avversario fuori giri invitandolo ad attaccare a rete, punto del campo dove il russo predatore è sguarnito e concede buchi da emmenthal svizzero, volleatore velleitario a disagio quando si allontana dalla linea di fondo dove è abituato a sollazzarsi. Solamente a marzo di quest’anno, quando Daniil suonò l’italiano come un tamburo nella finale del torneo di Miami, sarebbe stato un risultato impensabile. La maturazione di Sinner a opera del duo di allenatori Vagnozzi e Cahill è giunta al punto di non ritorno ed è frutto di un concorso di fattori: una crescita muscolare temprata dai pesi in palestra, una messa a punto tattica calibrata sui rivali più ostici, non scordando l’evoluzione psicologica del ragazzo della Val Pusterla. Atleta che, oltre al già citato raffronto con Lendl, appartiene alla genia dei freddi, il genere di tennista mitteleuropeo, magari scandinavo, che si differenzia sia dal passionale mediterraneo alla Fognini, eroe da soap opera troppo rabbioso, sia dallo smargiasso con la faccia da schiaffi alla Jimmy Connors o magari anche alla Nole Djokovic quando vuole rimarcare il suo talento sopraffino, sia persino dai teatranti maestri di sceneggiate come Nick Kyrgios e John McEnroe. Le qualità umane di Sinner sono il viatico per una carriera che ha nella costanza il suo punto di riferimento essenziale. Mica male, per un tennista pronto a caricarsi il fardello della responsabilità nazionalpopolare. Gli ascolti Rai, pur non corroborati da una telecronaca coinvolgente, volano verso lidi dorati a ogni partita giocata dal nostro. Un fenomeno mediatico di questo tipo, se si esclude il calcio, non si vedeva dai tempi di Alberto Tomba con lo sci, o magari della nazionale di pallavolo maschile allenata da Julio Velasco. Il tennis sta collezionando una miriade di ace nelle case tricolori e le scuole di tutto lo Stivale saranno pronte ad accogliere gli Jannik in erba che sognano già un percorso di vita simile al suo. La finale di oggi è la cartina di tornasole di un torneo condotto con i crismi della perfezione. Tre vittorie su tre partite nel girone eliminatorio, soprattutto sconfiggendo il cannibale Djokovic per la prima volta, l’impressione persistente che non esista un avversario che non possa battere o con cui per lo meno non possa giocarsela alla pari. Ieri Medvedev ha cercato di aggrapparsi con ogni risorsa possibile al colpo di coda, ingaggiando battaglia pure con un dolore a un fianco che lo ha costretto a una pausa di dieci minuti nel terzo set condita dai fischi del pubblico torinese. Ma non c’è stato verso. La differenza l’ha fatta la tempestività quasi psichedelica con cui Sinner arrivava su ogni pallina, concedendo all’avversario l’onore del comando dello scambio, rifilandogli la zampata letale figlia di una tenuta atletica invidiabile e una tecnica migliorata nelle sue lacune. Due peculiarità complementari, mai in concorrenza l’una sull’altra come accade invece a Alcaraz o a Ben Shelton (un nome da annotarsi per il futuro), che vedono il loro tennis leonino dipendere soprattutto dalla forma fisica della giornata. Nessun italiano era mai giunto in finale a un Master, nessun italiano, se Sinner con gli scongiuri del caso dovesse agguantare il trofeo, a 22 anni aveva già messo in bacheca ben 11 tornei Atp. La generazione di chi scrive, quella nata negli anni Ottanta, era abitata a godere di un Omar Camporese che si imponeva al massimo nei tornei di Milano e Rotterdam, di un Andrea Gaudenzi che ruggiva sulla terra battuta pungolato dal suo amico-mentore Thomas Muster, al massimo di un Fabio Fognini che saliva sul podio più alto nell’arena di Montecarlo. Ma un percorso come quello di Sinner non era prevedibile nemmeno nei sogni più golosi. E oggi si può continuare a sognare con la finale...
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