2023-07-02
O fermiamo chi parte o finiremo come Parigi
L’Italia deve diventare il partner privilegiato dei Paesi africani, a partire da Tunisia e Libia, per stoppare gli sbarchi e ridurre il numero di clandestini. Il ricollocamento dei profughi è un falso problema: quello che serve davvero è proteggere le frontiere.Il vero nodo del problema, in fondo, è sempre stato quello: la difesa dei confini esterni. Tutti i nostri guai iniziano da lì, e purtroppo in questi mesi si sono amplificati e sono divenuti sempre più evidenti a tutti. Al 30 giugno, gli sbarchi sulle coste italiane hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 64.930 unità: decisamente troppe per un governo di destra che ha fatto della lotta all’immigrazione di massa uno dei pilastri della sua azione politica, almeno in campagna elettorale. Nello stesso giorno di un anno fa gli arrivi erano fermi a 27.633 e nel 2021 a 20.532. Significa che il numero dei migranti in ingresso è più che raddoppiato. L’opposizione, in effetti, gongola ma nemmeno troppo: chi per anni ha predicato l’apertura delle frontiere certo non ha il diritto di lamentarsi per l’affollamento dei porti, e a sinistra lo sanno. L’altro punto su cui i progressisti insistono - stavolta con più convinzione - riguarda gli accordi europei sulla gestione dei flussi. Da un paio di giorni i quotidiani insistono sul «fallimento» di Giorgia Meloni, la quale sarebbe colpevole di non aver convinto gli «amici sovranisti» di Polonia e Ungheria a sottoscrivere il regolamento sull’accoglienza che l’8 giugno in Lussemburgo anche l’Italia ha firmato. Tale patto prevede il ricollocamento facoltativo dei migranti che giungono dal Mediterraneo e contempla una sanzione di 20.000 euro per ogni straniero rifiutato, particolare che polacchi e ungheresi non gradiscono affatto. Secondo l’accusa, poiché la Meloni non è riuscita a convincere i colleghi destrorsi ad accettare le nuove regole, staremmo assistendo al plateale fallimento della «internazionale sovranista». Di più: sarebbero proprio i nazionalisti di Ungheria e Polonia a danneggiare l’Italia. È, questo, un ritornello che sentiamo da anni, e che meriterebbe d’essere stroncato una volta per tutte. Spieghiamo. Quello dei cosiddetti ricollocamenti è da sempre, per noi, un falso problema. A crearci difficoltà, in sostanza, non sono i profughi (cioè coloro che hanno diritto all’accoglienza) bensì i clandestini. Ciò che serve all’Italia, dunque, è che si blocchino gli ingressi ovvero che si lavori sulle frontiere esterne. Nel passato - quando secondo il Pd a Bruxelles si andava tutti d’amore e d’accordo - da questo orecchio l’Europa è sempre rimasta sorda. Anzi, i nostri amabili (presunti) alleati hanno pensato bene di tutelare sé stessi a nostro discapito. La Germania, per proteggere i suoi confini, ha costretto tutti gli Stati membri a pagare fior di miliardi di euro alla Turchia. La Francia si è limitata a sbarrare le frontiere e a rispedirci indietro - più o meno legalmente - i migranti sgraditi. Insomma, coloro che dettavano legge le barriere esterne le hanno alzate eccome. Quando il governo italiano (nell’era gialloblù) ha provato a fare altrettanto, sappiamo a quali opere di sabotaggio si sia esposto. L’attuale esecutivo ha optato per un approccio più trattativista, che senz’altro è più macchinoso, ma che sta portando alcuni risultati. Il nuovo accordo europeo, infatti, è quasi interamente orientato alla difesa dei confini esterni. Il cambio di approccio rispetto al passato è radicale, perché si è riconosciuto - dopo anni - che gli arrivi dal mare sono un fardello di tutti e non solo delle nazioni di primo sbarco. Ovvio: al comune cittadino interessano poco orientamenti e visioni, perché a cambiargli davvero l’esistenza sono i fatti concreti, in particolare la riduzione del numero degli stranieri irregolari. Ed è esattamente qui che si gioca la vera, delicatissima, partita. Per capire quale sia la situazione reale i dati ci danno una grande mano. Stando ai documenti ufficiali del Viminale, la grandissima parte dei migranti arrivati quest’anno non proviene da zone in cui imperversino guerre o carestie. Le prime quattro nazioni di provenienza sono infatti Costa d’Avorio, Guinea, Egitto e Pakistan. Tradotto: parliamo di persone che, con tutta probabilità, non avrebbero diritto all’accoglienza (a ulteriore dimostrazione di quanto poco ci interessino i ricollocamenti). Ancora più interessante è però l’esame dei Paesi di partenza. Gli stranieri - benché di altre nazionalità - prendono il largo per lo più da Tunisia e Libia (seguono a una certa distanza Turchia e Algeria). Significa che, per l’Italia, è fondamentale chiudere accordi con queste nazioni al fine di bloccare il traffico. Come noto, l’Ue su questo terreno ha iniziato a seguirci, aprendo allo stanziamento di fondi e approvando di fatto la nostra linea d’intervento in Nord Africa. In parte, i rapporti con Tunisia e Libia hanno già portato frutti: se è vero che fin troppi barconi sono già approdati qui, è vero anche che moltissimi sono stati fermati dalle autorità dei Paesi di partenza e senza quell’intervento la nostra situazione sarebbe persino peggiore. Certo, adesso bisogna chiudere il cerchio. Il principale obiettivo è rafforzare l’intesa con la Tunisia, le cui difficoltà - è noto - sono causate da complessi equilibri internazionali. Il caso libico è addirittura più intricato, e per questo dobbiamo ancora una volta ringraziare gli amici francesi, delle cui brillanti iniziative seguitiamo a pagare le conseguenze. In ogni caso, la via d’uscita per noi è una soltanto: lavorare sull’Africa e soprattutto con l’Africa, costruendo relazioni stabili e rispettose, nel mutuo interesse. I nostri vicini europei, per lungo tempo, hanno agito molto diversamente e oggi ne pagano il fio. Quanto accade in Francia, lo abbiamo in parte già scritto, è il frutto velenoso di varie sfumature di ipocrisia. Nel fuoco di Parigi ardono l’ambiguo passato coloniale, i successivi rapporti padronali con il Continente nero e il fallimento dell’assimilazionismo, a cui si è tentato di rimediare concedendo ai ghetti periferici soldi a pioggia e impunità. Se non vogliamo finire allo stesso modo nel giro di qualche anno, dobbiamo riuscire in una operazione molto difficile: diventare interlocutori privilegiati, attenti ma inflessibili per l’Africa. Per quella che già abbiamo in casa e per quella che, giustamente, vorrebbe essere padrona a casa sua.
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco