2021-05-17
Tra Israele e i palestinesi: la strategia del pendolo di Pechino
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Mentre infuria il conflitto tra Israele e Hamas, la Cina sta difficoltosamente cercando di ritagliarsi un ruolo di mediazione. Un ruolo che permetta al Dragone di perseguire e tutelare i propri interessi mediorientali. Da quando è esploso il nuovo conflitto tra Israele e Hamas, la Cina ha cercato di mantenere una linea di mediazione, sottolineando – insieme alla Russia – che la controversia dovesse essere affrontata e risolta in sede di Nazioni Unite. «Chiediamo calma e moderazione per evitare scontri che potrebbero provocare ulteriori feriti», aveva in tal senso dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, già lunedì della scorsa settimana. «La Cina è disposta a svolgere un ruolo costruttivo nella ripresa dei colloqui di pace tra israeliani e palestinesi in linea con le risoluzioni delle Nazioni Unite insieme alle pertinenti parti internazionali», aveva aggiunto. In questo quadro, la settimana scorsa, Pechino – coordinandosi con Norvegia e Tunisia – aveva chiesto una riunione d'emergenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu da tenersi per venerdì 14 maggio: una seduta che era stata tuttavia bloccata dagli Stati Uniti. Tale elemento ha determinato degli attriti relativamente sotterranei tra la Repubblica Popolare e la Casa Bianca. Attriti riemersi domenica, quando il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha criticato gli Stati Uniti per essersi opposti due volte a una dichiarazione congiunta del Consiglio di sicurezza sulla crisi in corso da parte del Consiglio di sicurezza. «La Cina ha collaborato con i Paesi interessati a un comunicato del Consiglio di sicurezza. Purtroppo, a causa dell'ostruzione di un Paese, il Consiglio di sicurezza non è stato in grado di parlare con una sola voce», ha dichiarato il ministro cinese. Una posizione dura, ulteriormente enfatizzata – sempre domenica – dal Global Times (organo del Partito comunista cinese). A livello complessivo, la linea della Repubblica popolare sulla questione israeliano-palestinese affonda le proprie radici in una politica composita: una politica che Pechino ha iniziato a condurre soprattutto a partire dagli ultimi anni. Ricordiamo che la posizione ufficiale del Dragone per quanto riguarda il conflitto israeliano-palestinese sia quella della cosiddetta «soluzione a due Stati»: una posizione che era stata ribadita, nel maggio del 2020, dal presidente cinese, Xi Jinping, nel corso di un colloquio telefonico con il presidente dell'Anp, Abu Mazen. Un colloquio, in cui il leader del Dragone sostenne, nella fattispecie, che cinesi e palestinesi fossero «buoni fratelli, buoni amici e buoni partner». Era d'altronde in questo senso che, nel 2017, Pechino aveva mostrato scarso apprezzamento per la decisione dell'amministrazione Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele. In quell'occasione, il portavoce del ministero degli esteri cinese, Geng Shuang, dichiarò: «Sosteniamo la giusta causa del popolo palestinese per ripristinare i loro legittimi diritti nazionali e sostenere la Palestina nella costruzione di uno Stato indipendente e di piena sovranità lungo i confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale». I legami tra la Repubblica Popolare e il mondo palestinese non sono del resto nuovi e affondano anzi le proprie lontane radici nei tempi di Mao Zedong. Negli anni, la Cina ha spesso condannato gli insediamenti dei coloni israeliani e figura ancora oggi tra i Paesi che non considerano Hamas un'organizzazione terroristica. Nel 2006, scoppiò in tal una tensione diplomatica tra il Dragone e Israele, dopo che il governo cinese invitò a Pechino un alto funzionario della stessa Hamas, Mahmoud Zahar. Ciononostante, secondo quanto recentemente riportato dalla testata giapponese Nikkei, sembrerebbe che Pechino intrattenga rapporti più saldi con l'Anp che con Hamas. Un fattore, questo, che – soprattutto a causa dell'indebolimento politico di Abu Mazen – fiacca l'effettiva capacità di mediazione cinese. Nonostante queste storiche connessioni con il mondo palestinese, nel corso degli ultimi anni la Repubblica Popolare ha tuttavia rafforzato i propri legami politici ed economici con Israele. La posizione del Dragone rispetto allo Stato ebraico è infatti ambigua. Da una parte, Pechino mostra una certa diffidenza, alla luce dell'atavica alleanza di Israele con gli Stati Uniti: una diffidenza nutrita anche dal fronte israeliano, visti i buoni rapporti tra il Dragone e l'Iran. Dall'altra parte, negli ultimi anni la Cina ha visto tuttavia nello Stato ebraico anche un importante partner nei settori dell'economia e della ricerca tecnologica, considerandolo inoltre – come sottolineato da The Diplomat – una sorta di ponte per intrecciare relazioni con svariati Stati occidentali. Pechino apprezza d'altronde il Paese sia per la sua posizione strategica sia perché lo ritiene scarsamente rischioso dal punto di vista degli investimenti: non sarà quindi casuale il fatto che sia stato coinvolto nel progetto della Belt and Road Initiative. Alla luce di tutto questo, è chiara la ragione per cui, in riferimento al conflitto israeliano-palestinese, il Dragone stia – per così dire – cercando di tenere il piede in due staffe. E' d'altronde in tal senso che, appena lo scorso marzo, Wang Yi aveva espresso l'intenzione di ospitare colloqui tra israeliani e palestinesi a Pechino. Alla Cina occorre un Medio Oriente stabile, per riuscire a perseguire (e tutelare) i propri obiettivi geopolitici ed economici: è esattamente in questo quadro che, l'anno scorso, la Repubblica popolare accolse favorevolmente gli accordi di Abramo. Ma il problema per Pechino adesso è duplice: la crescente instabilità regionale e la concorrenza di altri attori che, sul Medio Oriente, vogliono rafforzare la propria influenza (dalla Russia alla Turchia).
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