2023-08-23
Tutti gli intrecci coi servizi segreti del broker pugliese vicino a D’Alema
Massimo D'Alema (Ansa). Nel riquadro Emanuele Caruso
La «zona grigia» di Emanuele Caruso tra militari e barbe finte. A casa sua sequestrati dossier che «per la natura confidenziale» potrebbero basarsi su «materiale classificato di fonti qualificate».Nella prefazione dell’informativa della Digos che esplora il magico mondo dei D’Alema boys, il personaggio centrale, quello che ha rovinato l’ex premier, è l’aspirante broker di armi Emanuele Caruso da Copertino (Lecce). Quando legge la sua intervista sulla Verità la guida della sinistra al cachemire scrive disperato: «Era una trappola. Noi veniamo distrutti. Veramente un disastro senza rimedio».Ma lui di Caruso sapeva poco o niente, nella sede di Italianieuropei lo aveva condotto un altro politico, il forzista Giancarlo Mazzotta, di cui, più a torto che a ragione, D’Alema si fidava. Ma quando i poliziotti entrano nella casa del broker e la perquisiscono si rendono subito conto di avere di fronte un personaggio poliedrico, con una fidanzata straniera utilizzata per ritoccare e taroccare documenti, così da permettere al compagno di indossare diverse maschere e ruoli. Tutti collegati al mondo della sicurezza e dell’intelligence.Il buon Caruso nella vita, dopo essersi candidato come consigliere comunale del suo paese in una lista collegata al Pd e aver vissuto per anni con redditi molto bassi, aveva deciso che da grande voleva fare qualcosa di avventuroso: lo 007. Per questo aveva cominciato a girare intorno a personaggi come un certo Savino. Gli investigatori trovano un documento, che descrivono come «una missiva confidenziale», senza firma né data, nel quale Caruso avrebbe elencato a mo’ di curriculum, le esperienze professionali «maturate nella raccolta e nella profilazione di informazioni classificate per conto di apparati governativi italiani» e servizi segreti, nonché le missioni svolte all’estero. Ma anche se Savino è rimasto un mister X, la perquisizione ha permesso di scoprire molto altro. «L’inchiesta trae origine dall’utilizzo improprio della documentazione servita a Caruso per certificare uno status reputazionale di provata affidabilità in seno a organismi internazionali». Il broker, secondo la Polizia, «pur di accreditarsi presso soggetti pubblici e privati, si attribuisce meriti e incarichi esercitati nell’ambito di organizzazioni sovranazionali come la Camera euro mediterranea per l’industria e l’impresa, l’Osservatorio antiterrorismo Medioriente e la Polizia mediterranea», scatole semi vuote che «fungono da schermo» per fare affari. Gli investigatori parlano, a proposito di Caruso, di una «pervasiva capacità di penetrazione negli apparati istituzionali» e di «poliedricità degli incarichi millantati». Un mondo parallelo in cui non mancano «frequenti richiami ad accordi sottoscritti con aziende stanziate nei Paesi mediorientali e nordafricani». Caruso sembra muoversi con disinvoltura in Tunisia, Marocco, Libia, Yemen, Arabia Saudita e Libano, tutti Paesi «caratterizzati», sottolineano gli investigatori, «da un quadro geopolitico di forte instabilità». Il ritratto prosegue ed evidenzia la sua vicinanza a «soggetti gravitanti in zone grigie e dediti ad attività di spionaggio, dossieraggio e comunque ai margini di una regolare attività negoziale di cui Caruso si alimenta per interagire con i buyer dell’area Mediterranea». Ma la Polizia non riesce a capire che cosa ci sia di vero nell’imponente materiale sequestrato, visto che i documenti «appaiono frammentati e decontestualizzati, privi di datazione, protocolli, firme autografe e riferimenti compiuti». I dossier di Caruso, insomma, presentano caratteristiche che li renderebbero poco credibili: «Generalità dei soggetti trascritti e ricopiati talvolta con dati erronei; attribuzione di qualifiche a soggetti trasfuse in maniera difforme in atti; terminologia istituzionale arricchita da riferimenti sconnessi e privi di logicità». Ma soprattutto si tratterebbe di «documenti contraddistinti da loghi identificativi di organismi riportati con diciture difformi». Come nel caso della Camera euro mediterranea. E se da una parte il taroccamento dei documenti appare assodato, dall’altra emergono anche i dettagli sulla costruzione del curriculum, con «frequenti richiami a collaborazioni ed esperienze professionali maturate nel settore della sicurezza, con forze armate e agenzie governative di sicurezza nazionale e straniere». Report e dossier che conservava con cura descrivevano scenari geopolitici e vulnerabilità degli asset strategici della sicurezza nazionale, «tematiche», secondo la Digos, «che per la natura confidenziale e la complessità tecnica richiedono un’adeguata e appropriata cognizione nozionistica» difficile da acquisire. E quindi è stato dedotto che «il materiale classificato possa essere veicolato da fonti qualificate». La vita di Caruso comincia a trasformarsi in una spy story della quale è lui stesso il narratore. In un resoconto, per esempio, racconta di aver guidato in Italia una delegazione guidata dal comandante Salah El Aji dell’International security force di Beirut e di essere stato contattato da un funzionario dell’intelligence italiana tramite la stazione dei carabinieri di San Pietro in Lama (piccolissimo Comune della provincia di Lecce) «per fornire un contributo collaborativo sul programma di difesa avanzata dei confini italiani e sugli scenari per il Nordafrica e Medioriente». Un compito da analista provetto. Ma è a un certo punto della narrazione che salta fuori il particolare più interessante: «Nel testo», annota la Polizia, «si rimarca l’impegno profuso nel rafforzare le relazioni tra la società Xds Levant (che offre servizi di security, ndr) e Leonardo e in particolare con il suo responsabile della cyber security». Non è finita: «Caruso dichiarò a quel personale», ricostruiscono gli investigatori, «di collaborare con i servizi segreti italiani». Il nome del suo contatto sarebbe un certo Emanuele, deputato al monitoraggio dei lavori della Tap (il gasdotto trans Adriatico). Caruso tira fuori dalla sua rubrica pure il numero di telefono che, sorpresa, «risulta effettivamente in uso al Sistema di informazione e sicurezza della Repubblica», scrivono gli agenti della Digos. Che dopo aver spulciato nel telefono di Caruso rintracciano anche «contatti telefonici [...] attribuibili ad appartenenti delle forze armate italiane». Due sono generali. C’è un certo C., che gli inquirenti identificano in un «generale in congedo, consulente scientifico» di una società «attiva nella realizzazione di progetti» in settori che vanno dalle infrastrutture fino all’energia, all’acqua e ai rifiuti. C’è poi F. G., nato in Marocco e residente a Lecce, che risulta essere un ex comandante «della rappresentanza dell’Aeronautica militare in Kuwait». E infine c’è un certo V. B., che da titolare di una società poi finita in bancarotta (per questo è finito anche in manette), curava per le Procure italiane i servizi di intercettazione telefonica e ambientale. In passato smentì di essere l’autore di un esposto che riportava la sua firma e che diffamava diversi appartenenti alle forze dell’ordine. Successivamente, stando all’informativa della Digos, deve essere passato al «commercio online di materiale elettronico per impieghi a scopo di spionaggio». Quanto Caruso abbia giocato a fare la barba finta e quanto di vero, invece, ci sia nel materiale sequestrato è diventato il vero rompicapo. Anche perché un appunto del 2002 inviato ai carabinieri, che gli investigatori definiscono «significativo», riporta una attività di monitoraggio nei confronti di un «noto latitante locale viaggiante a bordo di un autovettura nella giornata del 7 dicembre 1999». Dopo aver descritto il punto preciso dell’avvistamento, l’appunto sottolinea come «la fonte», che tra parentesi viene indicata con due lettere, probabilmente le iniziali, «ritiene di aver individuato negli occupanti della vettura il latitante Vito Di Emidio in compagnia di Pasquale Tanisi e Marcello Ladu». Di Emidio che era soprannominato «Bullone» e all’epoca veniva segnalato spesso in Montenegro, verrà arrestato solo nel 2001. La nota informativa viene definita «dal pregnante valore contro-spionistico», anche per «la proprietà e la terminologia tecnica di intelligence». Subito dopo, però, la Polizia precisa: «Agli atti non si dispongono di idonei elementi per comprovare la genuinità, la provenienza e l’autore dello scritto». Ma ci sarebbe da chiedersi, se non si tratta di un appunto redatto da Caruso, come ne sia venuto in possesso.Gli investigatori sembrano credere poco a un suo ruolo da 007. E bollano la sua condotta come «millantatoria» quando trovano a casa sua dei tesserini che avrebbero dovuto comprovare l’appartenenza a presunti organismi di sicurezza. In uno in particolare è definito «commissario» proprio sopra la parola «Tunisia». E un altro riporta la frase «Nulla osta di sicurezza».E sempre nell’«ambito millantatorio» gli investigatori fanno ricadere «la corrispondenza scambiata con l’onorevole Giancarlo Giorgetti, risalente al luglio 2019, relativa all’invio di materiale classificato catalogato con una incomprensibile sigla». Per gli investigatori sarebbero «tutti elementi espressivi di un crescente bisogno di far parte integrante di un sistema che assicuri a Caruso una sorta di fama, immunità e ritorno economico».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)