
L’Uaar può attaccare per sentenza i propri cartelloni, mentre i messaggi di Pro vita & famiglia vengono censurati o strappati. Come è accaduto alle affissioni che affermavano l’esistenza di maschi e femmine. «La vera libertà è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire», ammoniva George Orwell, forse il più acuto profeta della tirannia del pensiero unico. L’autore di 1984 si riferiva alla stampa, ma il suo richiamo è valido pure le campagne di sensibilizzazione promosse con i cartelloni: o si possono affiggere tutti, in primis proprio i più scomodi, oppure il valore della libertà ne esce malissimo. Che è precisamente quanto accade alla luce d’un palese doppiopesismo tale per cui oggi, nell’Italia del 2023, esistono - per dirla con Lucio Battisti - manifesti per bene e manifesti per male, cartelloni che è giusto siano affissi e siano oggetto di riflessione ed altri che, invece, se vengono censurati o strappati pazienza, anzi è perfino meglio.Per quanto le campagne di comunicazione gradite alla cultura dominante, un ottimo spunto viene dall’articolo firmato ieri da Claudia Arletti su Il Venerdì di Repubblica a proposito dei manifesti dell’Uaar, acronimo di Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Arletti, intervistando Adele Orioli, legale rappresentante dell’associazione, aggiorna i lettori sulla vicenda giudiziaria iniziata dieci anni fa con il Comune di Verona che fece causa - salvo poi perderla - all’Uaar, appunto, per alcuni suoi manifesti affissi in città e sugli autobus. Quei cartelloni recitavano: «La cattiva notizia è che Dio non esiste; quella buona è che non ne hai bisogno». «Non siamo anticlericali ottocenteschi», spiega Orioli, «vogliamo solo il diritto alla libertà religiosa».Una rivendicazione, quella della libertà religiosa - e quindi, va da sé, di quella di espressione -, che naturalmente Il Venerdì di Repubblica sposa con ardore, arrivando ad intitolare il servizio in questione in modo quasi trionfale: «Anche i muri possono dire che Dio non esiste». Tutto bene è quel che finisce bene, dunque, in nome della libertà? Non proprio. Infatti, tornando a quanto si diceva poc’anzi, questo dell’Uaar è un perfetto esempio di campagne di comunicazione gradite dalla cultura dominante, addirittura laicamente benedette in nome della libertà. Analogo trattamento, ecco, non è però riservato ad altre iniziative e ad altri cartelloni, che sono oggetto di sistematiche censure che tuttavia, curiosamente, non allarmano quasi nessuno, tanto meno i giornalisti del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Un esempio? Basti pensare a cosa capita da tempo alle iniziative di Pro vita & famiglia. L’associazione guidata da Toni Brandi e Jacopo Coghe non può praticamente svolgere né promuovere alcunché senza esser bersagliata di attacchi, neppure solo verbali. Per limitarsi alle loro campagne, è sufficiente vedere cos’è accaduto alle affissioni di cartelli contrari all’ideologia gender - recanti la scritta «Basta confondere l’identità sessuale dei bambini. #stopgender» -, che le amministrazioni delle principali città italiane, da Torino a Milano fino a Roma, hanno pensato bene di far rimuovere. Una decisione, fanno sapere gli attivisti di Pro vita & famiglia, grave, preoccupante e pure di dubbia legittimità, visto che si basa sull’asserita violazione d’una norma inserita nel Codice della strada nel 2020 della quale, però, i decreti attuativi mancano non essendo mai stati emanati. Ma al di là di questo, la questione qui è essenzialmente di principio: perché i manifesti atei vanno lasciati dove stanno, e guai alle Amministrazioni locali che li sfiorano, mentre quelli che chiedono semplicemente di non indottrinare i bambini, invece, possono essere spensieratamente censurati? Peraltro, sempre restando alla battagliera associazione di Brandi e Coghe, si può segnalare un altro fatto non così secondario. Ieri è circolata una foto della sede Pro vita & famiglia presidiata da una decina di agenti della polizia con i caschi sotto il braccio, in tenuta antisommossa. Purtroppo non era un fotomontaggio, bensì una precauzione delle forze dell’ordine. «Venerdì scorso si è svolta a Roma la manifestazione ambientalista Friday for future», ha spiegato Coghe, «per questo, la Polizia di Stato ha dovuto schierare i suoi agenti e collocare una camionetta davanti al nostro ufficio a Roma per evitare - come più volte accaduto in passato - che fossimo vittime di atti violenti e vandalici».Strano, sempre a proposito di libertà, che non solo i paladini della libertà - in servizio part time, a questo punto, e preferibilmente a difesa di sensibilità atee - non abbiano nulla da ridire su questo, oltre che sulle citate censure ai manifesti anti gender. Intendiamoci: nessuno vuol tappare la bocca a chi pensa che Dio non esista, ci mancherebbe. La libertà è sacra. Ma proprio per questo non si comprende perché si possa mettere il bavaglio a chi afferma una cosa, in fondo, ben più concreta ed elementare: l’esistenza di maschi e femmine.
Lirio Abbata (Ansa)
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(Stellantis)
Nel 2026 il marchio tornerà a competere nella massima categoria rally, dopo oltre 30 anni di assenza, con la Ypsilon Rally2 HF. La storia dei trionfi del passato dalla Fulvia Coupé alla Stratos alla Delta.
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Lo ha annunciato uno dei protagonisti degli anni d'oro della casa di Chivasso, Miki Biasion, assieme al ceo Luca Napolitano e al direttore sportivo Eugenio Franzetti: la Lancia, assente dal 1992 dalla massima categoria rallystica, tornerà protagonista nel campionato Wrc con la Ypsilon Rally2 HF. La gara d'esordio sarà il mitico rally di Monte Carlo, in programma dal 22 al 26 gennaio 2026.
Lancia è stata per oltre quarant’anni sinonimo di vittoria nei mondiali di Rally. Un dominio quasi senza rivali, partito all’inizio degli anni Cinquanta e terminato con il ritiro dalle competizioni all’inizio degli anni Novanta.
Nel primo dopoguerra, la casa di Chivasso era presente praticamente in tutte le competizioni nelle diverse specialità: Formula 1, Targa Florio, Mille Miglia e Carrera. All’inizio degli anni ’50 la Lancia cominciò l’avventura nel circo dei Rally con l’Aurelia B20, che nel 1954 vinse il rally dell’Acropoli con il pilota francese Louis Chiron, successo replicato quattro anni più tardi a Monte Carlo, dove al volante dell’Aurelia trionfò l’ex pilota di formula 1 Gigi Villoresi.
I successi portarono alla costituzione della squadra corse dedicata ai rally, fondata da Cesare Fiorio nel 1960 e caratterizzata dalla sigla HF (High Fidelity, dove «Fidelity» stava alla fedeltà al marchio), il cui logo era un elefantino stilizzato. Alla fine degli anni ’60 iniziarono i grandi successi con la Fulvia Coupè HF guidata da Sandro Munari, che nel 1967 ottenne la prima vittoria al Tour de Corse. Nato ufficialmente nel 1970, il Mondiale rally vide da subito la Lancia come una delle marche protagoniste. Il trionfo arrivò sempre con la Fulvia 1.6 Coupé HF grazie al trio Munari-Lampinen-Ballestrieri nel Mondiale 1972.
L’anno successivo fu presentata la Lancia Stratos, pensata specificamente per i rallye, la prima non derivata da vetture di serie con la Lancia entrata nel gruppo Fiat, sotto il cui cofano posteriore ruggiva un motore 6 cilindri derivato da quello della Ferrari Dino. Dopo un esordio difficile, la nuova Lancia esplose, tanto da essere definita la «bestia da battere» dagli avversari. Vinse tre mondiali di fila nel 1974, 1975 e 1976 con Munari ancora protagonista assieme ai navigatori Mannucci e Maiga.
A cavallo tra i due decenni ’70 e ’80 la dirigenza sportiva Fiat decise per un momentaneo disimpegno di Lancia nei Rally, la cui vettura di punta del gruppo era all’epoca la 131 Abarth Rally.
Nel 1982 fu la volta di una vettura nuova con il marchio dell’elefantino, la 037, con la quale Lancia tornò a trionfare dopo il ritiro della casa madre Fiat dalle corse. Con Walter Röhrl e Markku Alèn la 037 vinse il Mondiale marche del 1983 contro le più potenti Audi Quattro a trazione integrale.
Ma la Lancia che in assoluto vinse di più fu la Delta, che esordì nel 1985 nella versione speciale S4 sovralimentata (S) a trazione integrale (4) pilotata dalle coppie Toivonen-Wilson e Alen-Kivimaki. Proprio durante quella stagione, la S4 fu protagonista di un drammatico incidente dove morì Henri Toivonen assieme al navigatore Sergio Cresto durante il Tour de Corse. Per una questione di giustizia sportiva il titolo piloti fu tolto alla Lancia alla fine della stagione a favore di Peugeot, che era stata accusata di aver modificato irregolarmente le sue 205 Gti.
L’anno successivo esordì la Delta HF 4WD, che non ebbe rivali con le nuove regole del gruppo A: fu un dominio assoluto anche per gli anni successivi, dove la Delta, poi diventata HF Integrale, conquistò 6 mondiali di fila dal 1987 al 1992 con Juha Kankkunen e Miki Biasion. Lancia si ritirò ufficialmente dal mondo dei rally nel 1991 L’ultimo mondiale fu vinto l’anno successivo dal Jolly Club, una scuderia privata appoggiata dalla casa di Chivasso.
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