2025-09-15
«Sinner è nato fuori dal nostro tennis»
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
Parla Roberto Catalucci, il maestro di generazioni di atleti: «Jannik è un fenomeno che esula da logiche federali, Alcaraz è l’unico al suo livello. Il passaggio dall’estetica all’efficienza ha segnato la svolta per il movimento».Ci sono luoghi che segnano la storia di uno sport più dei trofei, più dei nomi scritti negli albi d’oro. Per il tennis italiano, quel luogo è il Brallo, in provincia di Pavia. Una manciata di campi nati tra tende e baracche negli anni Cinquanta e Sessanta, che nel tempo sono diventati uno dei centri nevralgici della formazione dei maestri e dei giovani talenti in Italia.Lo sa bene Roberto Catalucci, classe 1959, nato a Terni, maestro e poi direttore del Brallo per oltre 30 anni. La sua voce è la memoria di un’epopea sportiva. E i numeri parlano da soli: con 2.400 bambini a stagione per 30 anni, Catalucci ha messo una racchetta in mano a 72.000 ragazzi. Generazioni intere passate per quei campi, tra allenamenti, estati roventi, sognando Wimbledon e il Roland Garros.Una vita dentro il Brallo, iniziata quasi per caso, quando da giovane allievo maestro si vide destinare il tirocinio proprio lì. Da quel momento non se ne sarebbe più andato: prima istruttore, poi direttore, poi docente della scuola maestri nel progetto che ha dato le basi ai campioni di oggi, tra cui chiaramente Jannik Sinner. «Sinner è un fenomeno che esula dal sistema Italia. È uno straniero a tutti gli effetti», ci racconta. E la sconfitta contro Carlos Alcaraz agli Us Open: «Un grande Alcaraz che si è preparato in modo minuzioso sui relativi punti di debolezza di Sinner. Il loro tennis rappresenta un modello formativo: lavoro continuo e crescita orientata al futuro più che al risultato immediato». Maestro Catalucci, come nasce il Brallo?«Dall’intuizione di un provveditore agli studi della provincia di Alessandria, che aveva ovviamente come sogno poter utilizzare questo posto stupendo. Aveva fatto un sopralluogo e lo aveva identificato come sede nella quale portare tutti i suoi alunni delle scuole nel compensatorio di Alessandria. All’inizio soprattutto un campeggio. Nei primi anni c’erano delle tende attorno al nucleo originale, che erano i campi del Paradiso, quindi i campi della Terrazza 1, che erano in terra e c’era soltanto quella palazzina con il bar. C’era già una struttura tecnica, quella centrale con la torretta: quella è ancora l’originaria. Sotto c’erano questi sette campi da tennis e intorno facevano i campeggi. L’idea era una vacanza sportiva. Siamo negli anni Sessanta».Esistevano già altri centri simili?«Sì, pensiamo a Pievepelago, che è forse il centro più antico, anche se poi è stato chiuso. Era di proprietà del Banco di Roma, ma con i problemi finanziari del Banco si dovettero fare ristrutturazioni troppo onerose. La federazione pensò di comprarlo, ma i costi erano esorbitanti e preferì lasciarlo. In quegli anni abbandonarono diversi centri dell’Appennino emiliano: Pievelago, Lizzano del Belvedere, Sestola, Palagano. Ora è rimasto solo Serramazzoni».Quindi il Brallo è ancora adesso un unicum?«Sì, perché questo era il primo caso di centro fuori dall’Emilia-Romagna. L’idea era partita dal presidente federale Giorgio Neri di Bologna, che aveva lanciato i centri estivi tra il 1957 e il 1958: Sestola, Serramazzoni, Pieve Pelago, Palagano, Lizzano. Poi il Brallo, più lontano, ma che ha resistito nel tempo».Nel frattempo, che tennis si giocava in Italia?«Il boom è del 1976 con Adriano Panatta: Roma, Parigi e Coppa Davis. Prima c’era Pietrangeli, Sirola, un tennis ancora amatoriale, senza open e professionismo. Con Panatta arrivò la grande espansione, non solo sportiva ma anche industriale».Quando entra nella sua vita il Brallo?«Io arrivo nel 1980 come allievo maestro della scuola. Avevo 21 anni. Era consuetudine che tutti quelli che facevano la scuola maestri facessero il tirocinio estivo nei centri federali. Mi indirizzarono qua».Le piaceva?«No, francamente non volevo neanche venire. Per noi era più comodo Pieve, mentre questo era un centro sperduto, senza un paese intorno. Già all’epoca risultava essere un centro “punitivo”. Qui mandavano persone più mature. C’erano solo tre allievi maestri, il resto istruttori. E il lavoro era enorme: 400 bambini a turno e tantissimi campi. Negli altri centri la sera potevi uscire un po’, qui nulla. Era durissimo».Poi cos’è cambiato?«Tutto. La prima persona che ho incontrato nel piazzale è stata una ragazza insegnante. Io ero arrivato esausto, dopo un viaggio terribile in treno fino a Voghera, poi pullman, poi taxi. Poso le borse, chiedo dove devo alloggiare e incontro lei. È diventata mia moglie, poi ex, ma è iniziata lì».E quando diventa protagonista del centro?«Nel 1983 vicedirettore, l’anno dopo direttore. E da allora per 30-32 anni, con due brevi pause. Ho visto generazioni intere, fino al 2000».E poi?«Dal 2000 mi cercò Roberto Lombardi. Voleva modificare la scuola maestri, perché c’era stato un cambio generazionale. Cercava persone esperte per rilanciare la formazione. E da lì, per 12 anni, sono stato docente alla scuola maestri. Quel lavoro ha prodotto i campioni di oggi».In che senso?«Il lavoro che ha prodotto i campioni non è quello di adesso, ma quello di Roberto Lombardi. Lui, dietro la nostra spinta, ha contattato i migliori del mondo. È venuto Bruce Elliott, il massimo esperto di biomeccanica, dell’università del Western Australia. È venuto Paul Doroschenko, uno dei più grandi sulla lateralità. È venuto il professor Hippolyte dall’università di Parigi, Gian Nicola Bisciotti dell’università di Lione. Hanno completamente stravolto la didattica».Cosa significa?«In Italia prima c’era una visione estetica del tennis, di eleganza del gesto. Con lo studio della biomeccanica si è passati a efficacia ed efficienza. Gianni Clerici aveva scritto I gesti bianchi, emblema di un tennis gestuale. Poi arrivarono Björn Borg e gli altri: fu uno spartiacque. Ma la federazione era ferma. Io mi sono diplomato nel 1980 e il primo aggiornamento l’ho fatto nel 2000: 20 anni senza. Nel frattempo gli italiani faticavano. Il direttore della scuola nazionale maestri di Roma era Antonio Rasicci, bravissimo, ma non c’era formazione continua. Poi col Progetto 2000 di Rasicci arrivò la svolta, che però fu anche l’inizio del suo declino: da lì prese in mano tutto Lombardi, uomo di una visione incredibile».Oggi il tennis italiano vive un grande momento. Qui avrà visto passare giocatori che poi sono esplosi?«Sì, Jasmine Paolini, Martina Trevisan. Fabio Fognini veniva spesso, anche per obblighi federali di testimonial. Ma il vero salto è arrivato dalla scelta di Angelo Binaghi: dirottare fondi sui team privati. Ha capito che Formia e Tirrenia erano ormai anacronistici per la formazione dei giocatori scegliendo di sostenere i team privati: questo ha fatto la differenza».Dopo Sinner c’è stato un boom di iscrizioni?«Sì, ma con la polverizzazione dei nuovi sport di racchetta l’utenza si divide: padel, beach tennis, pickleball. Il tennis ha uno zoccolo duro che resta e poi picchi legati ai campioni. Panatta nel 1976, Sinner adesso. Ma oggi i ragazzi vedono il tennis ogni giorno: Roger Federer, Novak Djokovic, Rafael Nadal. Non serve più un italiano vincente per appassionarsi».Ha un suo pupillo?«Ho allenato Noemi Basiletti, classe 2006, attuale numero 500 del mondo femminile. Che ha vinto con me quattro titoli italiani più sette internazionali tennis Europe. Nell’ultimo anno di under 14 è stata presa dalla Rafa Nadal Accademy con una borsa di studio». Sinner ha una pressione enorme addosso.«Lui è un fenomeno che esula dal sistema Italia. È uno straniero a tutti gli effetti. Cresciuto fuori da logiche federali. È sovraesposto mediaticamente, ma ha la freddezza per reggere. Ha capacità di isolamento straordinaria, che lo protegge. Altri, come Matteo Berrettini, sono stati travolti. Nel suo caso, anche per problemi fisici e tecnici sul rovescio a due mani. Quando devi compensare con il servizio, ti fai male».Sinner ha detto: «Io e Alcaraz siamo i primi, ma arriveranno altri». È d’accordo?«Io credo di no. Sinner e Alcaraz resteranno davanti. L’unico che vedo con qualità tecniche per avvicinarli, anche se a distanza, è João Fonseca. Gli altri si equivalgono, ma il gap è troppo grande».E infine: il futuro del Brallo quale sarà?«Quello di restare un centro nevralgico. Per la posizione logistica: Lombardia, Milano, Torino, Piacenza, Genova e anche Roma. Qui passava la locomotiva d’Italia. Negli anni d’oro avevamo 2.400 bambini a stagione, per 25 anni. Ogni 15 giorni 422 bambini interni, più tanti esterni. È stato un fenomeno enorme. Credo che differenziando l’offerta il Brallo avrà sempre un ruolo».Ha ceduto al fascino del padel? Anche qui c’è un campo.«Assolutamente no. Io resto un purista del tennis. Ho giocato una volta un servizio, basta. La federazione ha spinto, ma non ha attecchito. Mentre per quanto riguarda il beach tennis, è uno sport da spiaggia. Senza continuità estiva sulle spiagge non funziona. In Romagna, in Versilia sì. Qui no».
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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