2020-12-26
«Avanti così, il problema non saranno i licenziamenti, ma i fallimenti»
True
Rosario Rasizza, amministratore delegato di Openjobmetis
«Il governo Conte avrebbe dovuto fare maggiormente l'interesse degli imprenditori lasciandoli lavorare in sicurezza, invece di procedere a chiusure ingiustificate che si sarebbero potute evitare con un po' di organizzazione». È il pensiero di Rosario Rasizza, amministratore delegato di Openjobmetis, intervistato dalla Verità.
«Il governo Conte avrebbe dovuto fare maggiormente l'interesse degli imprenditori lasciandoli lavorare in sicurezza, invece di procedere a chiusure ingiustificate che si sarebbero potute evitare con un po' di organizzazione». È il pensiero di Rosario Rasizza, amministratore delegato di Openjobmetis, intervistato dalla Verità. Qual è la sua ricetta per cercare di limitare i danni al mercato del lavoro? Ora siamo in una bolla con il blocco dei licenziamenti, ma poi saranno tempi duri. «Io penso che quello che il governo debba fare è rinchiudersi 48 ore in una stanza e provare a capire che, se vanno avanti così le cose, il problema non saranno licenziamenti, ma quante aziende chiuderanno. I lavoratori, ogni giorno, vanno a lavorare per qualcuno che ha deciso di fare l'imprenditore. L'obiettivo deve essere quello di far ripartire le attività in maniera veloce, pratica e concreta. Solo così, quando ci sarà la possibilità di licenziare, nessuno licenzierà. Io sono preoccupato che questo governo sta introducendo troppe cose. Tutti questi incentivi a pioggia servono a poco o nulla. Queste persone non hanno mai gestito niente di loro. Questo è il vero problema. In concreto bisogna aiutare le imprese, non chiudere le loro attività».Gli imprenditori con cui collabora cosa le chiedono in questi mesi?«Loro chiedono chiarezza e di lasciarli lavorare. Il luogo più sicuro dove i lavoratori si sentono più sicuri è il posto di lavoro. Noi, non appena è partita questa pandemia, ci siamo dotati di tutti i dispositivi di sicurezza per lavorare in tranquillità. Le aziende devono restare aperte. Il governo dovrebbe lavorare sui trasporti. I miei colleghi mi dicono che non sono spaventati di lavorare in sede, ma di prendere i mezzi pubblici che sono spesso pieni di gente». Cosa si dovrebbe fare allora?«Ci dovrebbe essere uno stop di sei mesi del pagamento dei contributi legato al personale, con la possibilità di rateizzare nei prossimi 5 anni quegli importi per chi è in difficoltà. Così, io quei soldi li tengo e li ho per continuare a comprare materia prima per il mio lavoro. Nel frattempo, attendo che il mio cliente mi paghi e il mio flusso di cassa aumenta. Dopo il primo lockdown la situazione era migliorata. Le do un dato nostro: noi ad aprile eravamo a -43% rispetto al 2019 come fatturato, poi abbiamo iniziato a riprenderci: -25%, poi – 18%, -11% e oggi siamo a un +2,5% rispetto all'anno scorso».Avete notato miglioramenti dopo il primo lockdown?«Noi abbiamo notato che le aziende avevano ripreso ad assumere dopo il primo lockdown. Noi abbiamo ricerche aperte nel settore della tecnologia per tutte quelle aziende che prima di questa crisi non avevano dimestichezza con certe cose e ora hanno bisogno di lavorare su Zoom o strumenti simili. Sono aumentate, per esempio, anche tutte le richieste per posizioni legate all'export, quelle oggi più importanti come quelle legate alla sanità oppure posizioni nella grande distribuzione, autisti oppure tutte le persone che operano nel campo dell'assistenza familiare. Con i limiti di questi tempi, c'è chi non può andare a prendersi cura dei propri genitori serve qualcuno che lo faccia al posto nostro. Non c'è nessun imprenditore che non vede l'ora di togliersi dai piedi i propri dipendenti che sono fronte del suo successo. Se una persona andava licenziata prima, allora va licenziata anche oggi. Questa pandemia ha accelerato processi già in corso. Certo, questa crisi è stata una fortissima grandinata. Ma quando il ghiaccio si scioglie, poi, sotto, l'erba cresce. Certo, ci sono settori dove non ce ne sarà a lungo: sto parlando del modo alberghiero, turistico. Ma se parliamo di aziende come quelle che operano nel settore metalmeccanico, chimico, o tessile, quelle ripartiranno presto».Secondo lei, il reddito di cittadinanza è stato un aiuto per il mercato del lavoro?«Sarebbe troppo semplice sottolineare che l'avevo detto fin dall'inizio che così com'era stato impostato non avrebbe funzionato, in particolare non andavano bene le scelte fatte in tema di politiche attive del lavoro. Il problema più grave è che si è perso tanto tempo, troppo, considerata la situazione del nostro Paese in termini occupazionali. Sarebbe stato proficuo se il governo avesse ascoltato chi opera quotidianamente sul mercato del lavoro, ma anche le imprese. Voglio ricordare che per tutta una serie di motivi, ormai strutturali e legati a retaggi del passato, molte aziende che cercano personale non lo trovano per quella che viene definita in gergo tecnico "Skill Shortage" e cioè l'impossibilità di riempire posti vacanti perché mancano le professionalità adeguate e non il lavoro. Questa cosa non è più accettabile, vista anche la situazione causata dal Covid, e per questo invito il governo a confrontarsi con chi si occupa di lavoro da sempre e con il mondo imprenditoriale e anche sindacale che conoscono bene i meccanismi».
Nel riquadro, il chirurgo Ludwig Rehn (IStock)
Non c’era più tempo per il dottor Ludwig Rehn. Il paziente stava per morire dissanguato davanti ai suoi occhi. Era il 7 settembre 1896 e il medico tedesco era allora il primario di chirurgia dell’ospedale civile di Francoforte quando fu chiamato d’urgenza per un giovane giardiniere di 22 anni accoltellato nel pomeriggio e trovato da un passante soltanto ore più tardi in condizioni disperate. Arrivò di fronte al dottor Rehn solo dopo le 3 del mattino. Da questo fatto di cronaca, nascerà il primo intervento a cuore aperto della storia della medicina e della cardiochirurgia.
Il paziente presentava una ferita da taglio al quarto spazio intercostale, appariva pallido e febbricitante con tachicardia, polso debole, aritmia e grave affanno respiratorio (68 atti al minuto quando la norma sarebbe 18-20) aggravato dallo sviluppo di uno pneumotorace sinistro. Condizioni che la mattina successiva peggiorarono rapidamente.
Senza gli strumenti diagnostici odierni, localizzare il danno era estremamente difficile, se non impossibile. Il dottor Rehn riuscì tuttavia ad ipotizzare la posizione del danno mediante semplice auscultazione. La ferita aveva centrato il cuore. Senza esitare, decise di intervenire con un tamponamento cardiaco diretto, un’operazione mai provata precedentemente. Rehn praticò un’incisione di 14 cm all’altezza del quinto intercostale e scoprì la presenza di sangue scuro. Esplorò il pericardio con le mani, quindi lo aprì, esponendo per la prima volta nella storia della medicina un cuore attivo e pulsante, seppur gravemente compromesso e sanguinante. Tra i coaguli e l’emorragia Rehn individuò la ferita da taglio all’altezza del ventricolo destro. Il chirurgo operò una rapida sutura della ferita al cuore con un filo in seta, approfittando della fase di diastole prolungata a causa della sofferenza cardiaca. La sutura fu ripetuta tre volte fino a che l’emorragia si fermò del tutto e dopo un sussulto del cuore, questo riprese a battere più vigoroso e regolare. Prima di richiudere il torace, lavò il cuore ed il pericardio con soluzione idrosalina. Gli atti respiratori scesero repentinamente da 76 a 48, la febbre di conseguenza diminuì. Fu posto un drenaggio toracico che nel decorso postoperatorio rivelò una fase critica a causa di un’infezione, che Rehn riuscì tuttavia a controllare per l’efficacia del drenaggio stesso. Sei mesi dopo l’intervento il medico tedesco dichiarava: «Sono oggi nella fortunata posizione di potervi dichiarare che il paziente è ritornato in buona salute. Oggi è occupato in piccole attività lavorative, in quanto non gli ho al momento permesso nessuno sforzo fisico. Il paziente mostra ottime prospettive di conservazione di un buono stato di salute generale».
Continua a leggereRiduci