2025-04-27
Il teleguerrigliero che alle urne spara a salve
La militanza giovanile nel gruppo filocinese. Servire il popolo, poi l’exploit sul piccolo schermo con i suoi programmi di lotta e di carriera (la sua). Le liti furiose con i dirigenti Rai e il clamoroso passaggio a Mediaset. Ma che flop alle ultime elezioni.Cognome e nome: Santoro Michele chi? In realtà, «Michele che cosa?» lo liquidò lo scrittore Enzo Siciliano al debutto come presidente Rai, epoca: il primo governo ulivista di Romano Prodi, davanti al quesito epocale: «Che ne sarà del gruppo di lavoro di Tempo Reale di Santoro?».«Gli avrei risposto: Michele chi? Non mi conosce», ha chiosato lui nella sua autobiografia (a 45 anni) per Baldini & Castoldi nel 1996.La sua pretesa di scuse ufficiali fu silenziosamente spernacchiata, sicché la soap opera si arricchì di una nuova domanda: Michele dove?L’arcano fu svelato da Riccardo Luna su Repubblica, il 29 agosto 1996: «Sono le 18.56 di ieri quando l’Ansa batte la notizia», che suona un po’ come: «L’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili», ma pazienza.«Santoro va a Mediaset», come Frankie goes to Hollywood.«Da Servire il popolo a Servire il Polo» delle libertà, annotò sardonico Curzio Maltese. «Questi però lo pagano meglio», aggiunse perfido Massimo Gramellini, ritraendo Michelino come «un ottimo raccontatore televisivo innalzato dall’impazzimento collettivo al livello di autorità spirituale del Paese».Il trasloco chez Silviò costò al Cavaliere - al lordo di tutto, produzione e squadra al seguito - «Quanto? 12 miliardi in tre anni?», chiese una volta a Fedele Confalonieri, facendo finta di non saperlo.Rimembriamo per invidia, ovvio, il cachet stellare di Sant’Oro.Che in gioventù sarà stato pure un cultore del Libretto Rosso di Mao Tse Tung, ma poi si è trasformato in un fine situazionista (della situazione sua, con buona pace di Guy Debord).Chi ebbe l’ardire di «abolire» il suo programma nel 1996? Il nuovo direttore generale della tv di Stato, Franco Iseppi. Circostanza che consente a Santoro, nel mémoire citato, di mascariare Enzo Biagi:«“Iseppi è stato il suo più stretto collaboratore. Pensi che ci sia lo zampino del grande vecchio?”. “Forse”» (per poi mitigare: «Più che altro si torna alla lottizzazione, al centralismo»).Espunto. Censurato. Imbavagliato. Ma refrattario alle critiche.Quando il sito di Articolo 21, associazione nata in difesa della libertà d’espressione, ospitò un contributo urticante scritto dal blogger Massimiliano Del Papa, lui la prese malissimo.Risultato? Articolo nel cestino, con Loris Mazzetti a cospargersi il capo di cenere per la lesa maestà, «erano minchiate volgari e offensive non degne di pubblicazione».Santoro trafitto come San Sebastiano. Come lui sopravvissuto sempre miracolosamente a un destino cinico e baro.«Ma quale epurato. È un gran figlio di buona donna» (Marco Pannella).«Nessuno ha cancellato Annozero, anche se questa era una (sua) vecchia aspirazione. C’è stata un’onorevole e molto cospicua transazione superiore a due milioni di euro, con uno “scivolo” per Santoro [...] che ha accettato di uscire dalla Rai, salvo poi volerci rientrare ad altre condizioni», le sue, ça va sans dire (così Bruno Vespa, che non lo ama non riamato).Perché mamma Rai è pur sempre mamma Rai, come la sessantennale carriera a viale Mazzini dell’equivicino - e milionario a sua volta - Vespa testimonia. Dove si approda se raccomandati.Fu così anche per Santoro, che ha scritto (con sintassi e consecutio da rivedere): «Sono entrato a lavorare al Tg3 che Sandro Curzi non è ancora direttore. A farmi assumere è stato il filosofo Beppe Vacca, che è nel cda della Rai» (ma pure nel comitato centrale del Pci).Più che Michele, Gigi er Bullo - maschera del folklore popolare trasteverino - per Beniamino Placido: «Non prende mai la parola senza fare preventivamente la faccia feroce. Solo che è afflitto, poveretto, da una faccia morbida, bonaria e tondeggiante da romano pacioso».Ideatore di SamarcandaIlrossoeilneroTemporealeMobydickSciusciàIlraggioverdeAnnozeroServiziopubblico, tanti cambi di packaging, per un’unica minestra, la solita, ma si sa: «La tv è come la natura, nulla si crea, nulla si distrugge», ipse dixit.Sultano rosso (Giampaolo Pansa). Santorescu, per il cipiglio autoritario, anche in redazione. Bella ciao, quando si ripresentò in tv il 14 settembre 2006 con capelli biondo platino «che sversano al rossiccio», così La Stampa.In realtà la canzone dei partigiani l’aveva sfregiata in apertura della puntata di Sciuscià del 19 aprile 2002.L’anno dopo spiegherà a Claudio Sabelli Fioretti: «Era una sorta di riflessione con me stesso, una canzone strozzata, afona, stonata».Stonata soprattutto perché in bocca a lui, «mio nonno, partigiano torturato, si starà rivoltando nella tomba», pensò all’epoca il Franti che è sempre in me.L’inno resistenziale faceva seguito alla brutale e deprecabile reazione di Silvio Berlusconi in quel di Sofia, quando accusò lui, Biagi e quell’altro, «come si chiama? Daniele Luttazzi», di un «uso criminoso» del servizio pubblico.Nel calcio, si parla di «fallo da frustrazione», ma in questo caso il Cav. era reduce da una sonora vittoria che lo aveva riportato a palazzo Chigi, poteva infierire limitandosi a una battuta. Invece non lasciò correre.Sbagliando. Perché regalò a san Michele da Salerno l’imperitura aura della vittima del tubo (catodico), «la sua condizione ideale di lavoro, il terreno su cui si muove meglio, il clima che lo tonifica e mette in secondo piano la qualità del suo lavoro», così Aldo Grasso.Che poi a Berlusconi fossero mulinate le pale eoliche del tutto gratuitamente, no. A ruoli politici invertiti, lui al governo, e la «sua» Rai a sparare sul candidato di centrosinistra, saremmo morti di girotondi.Con il leader di Forza Italia, in realtà, ci fu una sorta di corrispondenza d’amorosi sensi a corrente alternata. Silvio & Michele. Due cuori, e «il telefono, la sua voce», un genere nel genere, «Santoro, si contenga!». «Non sono un suo dipendente» tiè, ribattè Santoro.Che non si contenne quando a chiamarlo in diretta fu il direttore generale della Rai, Mauro Masi, per intimargli «sobrietà».«Vaffanbicchiere», gli mandò a dire, anzi: gli disse proprio (più tranchant con SadoMasi, come lo ribattezzò Dagospia, fu Luigi Bisignani: «Mi hai visto da Santoro? Come sono andato?» «Una bella figura di merda»).Berlusconi accettò pure due suoi inviti in studio: il 13 aprile 1995 a Tempo reale, il 10 gennaio 2013 a Servizio pubblico su La7.Dove i telespettatori furono quasi 9 milioni, il 33% di share, e La7 la rete più vista in prima e seconda serata.Un botto con i fuochi d’artificio, soprattutto perché il Berlusca, atteso come il toro nell’arena, incornò il matador quasi conducendo lui la trasmissione, con Santoro in affanno a rinfacciargli «Non erano questi gli accordi!», fino all’acme, inelegante ma efficace: la pulizia con il fazzoletto della poltroncina su cui era seduto Marco Travaglio.Il botto con fuochi d’artificio fu anche il suo canto del cigno televisivo: dopo l’exploit, Santoro è uscito dai radar.Per ricomparire - nel quasi totale disinteresse della nazione - nel 2016 in Rai con Italia, seguito nel 2017 da M, «docudrama e teatro in diretta», etichetta che fa chic engagé, omaggio al regista di Metropolis Fritz Lang, e che forse ha ispirato, vai a sapere, il titolo della saga su Benito Mussolini di Antonio Scurati, altro iscritto di diritto al circolo «martiri da palcoscenico». «I campioni superpopolari della tv di denuncia non si sottraggono alla loro sorte, diventare una sovrarappresentazione - ma sì, una caricatura - di se stessi. Non fa eccezione il tribuno nazionalpopulista per eccellenza, Santoro, superfetazione egotistica di un capopolo televisivo», così Edmondo Berselli in Post Italiani, 2003. In fondo, Santoro fu il profeta che preparò l’avvento di Beppe Grillo e dei grillopitechi.Anche se poi quelli, ingrati - espugnato il palazzo d’inverno, abolita la povertà (la loro), e lasciatoci per di più Giuseppe Conte in eredità- in Rai non l’hanno richiamato.Trasmettendo soltanto, nel 2019, un documentario sulla musica Trap da lui firmato, titolo: Volare.Santoro conciona ancora in tv, florido Danny De Vito, pontificando sulla morte del Papa, Gaza, Vladimir Putin e l’Ucraina.E naturalmente sul fallimento dell’Europa.Mai alcuno che gli faccia educatamente notare che se l’aveva tanto a cuore, poteva rimanerci dopo l’elezione che lo aveva portato a Bruxelles nel 2004.Invece di usarla come un taxi, o un’area di parcheggio, in attesa del rientro a viale Mazzini.Cosa che avvenne dopo che un giudice impose alla Rai di reintegrarlo.E dopo che l’Agcom impose a lui di dimettersi dall’Europarlamento, se voleva ricomparire in televisione.Diktat accettato di buon grado, per andare ospite di Adriano Celentano a Rockpolitik, su Rai 1, questuando «il tuo microfono è il mio microfono, e io rivoglio il mio microfono!».Alle ultime europee si è presentato con una sua lista, chiamata Pace Terra Dignità, «la versione più esplicita e grossolana del partito russo o anti-americano» (ha osservato un equilibrato analista politico come Stefano Folli, Repubblica, 11 luglio 2004).Preferenze raccolte: 160.000 su 518.000 voti del partito, che si è fermato al 2,2% rimanendo sotto la soglia di sbarramento. Un bel floppone.Comunque la pensiate.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
Continua a leggereRiduci
Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
Continua a leggereRiduci