2025-08-18
«In Alaska un cambio di passo. A uscire sconfitta è l’Europa»
Vladimir Putin e Donald Trump al vertice di Anchorage in Alaska (Ansa). Nel riquadro il direttore di InsideOver Fulvio Scaglione
Il direttore di InsideOver Fulvio Scaglione: «L’obiettivo principale era ricostruire i rapporti Usa-Russia. Con un accordo di pace Zelensky sarebbe più debole, quindi potrebbe chiedere garanzie personali».L’atteso vertice in Alaska tra il presidente americano, Donald Trump, e l’omologo russo, Vladimir Putin, ha diviso l’opinione pubblica mondiale, tra chi lo ritiene un passo importante in direzione della pace in Ucraina e chi lo interpreta come un buco nell’acqua. La Verità ha parlato del significato dell’incontro tra i due leader e dei possibili risvolti con Fulvio Scaglione, direttore di InsideOver, nonché autore del libro Zelens’kyj. L’uomo e la maschera (Meltemi).Qual è la sua impressione sul vertice in Alaska?«Quello che è successo è che la crisi ucraina è stata ricondotta ai termini essenziali. Ovvero, è sempre stata una guerra tra gli Stati Uniti e la Russia combattuta in Ucraina: entrambi hanno deciso di scegliere quel campo di battaglia e naturalmente la battaglia tra Stati Uniti e Russia riguardava l’influenza, l’allargamento della Nato. Dopo tanti anni di proxy war, questo vertice ha ricondotto la questione ai termini essenziali: la necessità che Washington e Mosca riportino i rapporti tra le due superpotenze a un livello meno conflittuale. La guerra in Ucraina non è stata il cuore del dibattito come avrebbero desiderato gli europei e molto giustamente gli ucraini. Il cuore del summit è stato la ricostruzione dei rapporti tra Mosca e Washington».Concorda con chi dice che sia stato un fallimento?«Considerare questo summit fallito perché non è stato partorito un documento con una firma sotto fa abbastanza ridere. È stato un incontro storico che ha segnato un cambio di passo. Sulla guerra in Ucraina i particolari concreti e pratici devono passare anche attraverso il vaglio di Kiev e dei Paesi europei. Chiaramente Trump come leader dell’Occidente ha la necessità di parlare con i suoi alleati, mentre Putin non ha bisogno di chiedere a qualcuno».L’ex ambasciatore degli Usa all’Onu, John Bolton ha detto: «Trump non ha perso, ma Putin ha vinto». È così?«Non vedo come Trump abbia perso perché continua a perseguire la propria politica, e allo stesso tempo Putin non ha vinto: finché i suoi rapporti con Washington non saranno stati riportati a livelli di civile convivenza neanche lui potrà dire di aver vinto».C’è qualcuno che ha perso?«Chi ha perso è l’Europa: ha cercato disperatamente di inserirsi in questa dialettica a due, ma senza farcela. La Russia non la calcola, gli Stati Uniti, perlomeno di Trump, non la ritengono decisiva».A tal proposito, Trump dopo il vertice ha scritto che i leader europei concordano per un’intesa globale sulla pace, «non un semplice cessate il fuoco che spesso non regge».«Questa richiesta degli europei era totalmente assurda. Dal punto di vista dei russi, dovrebbero accettare un cessate il fuoco perché lo chiedono gli europei che hanno armato Kiev e coperto Mosca di sanzioni economiche? Gli europei hanno lavorato molto per far fallire le prime trattative diplomatiche, quelle del 2022. Tra l’altro, anche i media italiani dovrebbero smetterla di fare la collezione dei dissidenti russi, che hanno molte nobili ragioni ma che continuano a prevedere un crollo imminente della Russia. Tutti gli indicatori dicono che sta succedendo il contrario: nel mese di luglio, i russi hanno scaricato sull’Ucraina 6.200 droni, che è il record assoluto. Si deve accettare il fatto che una sconfitta russa sul campo non è nell’ordine delle cose. Basti pensare che nel settembre del 2022, Von der Leyen aveva detto che i russi per far volare i missili dovevano usare i microchip delle lavatrici e che la loro industria bellica era a pezzi».Il presidente russo in conferenza stampa ha parlato di garanzie di sicurezza a Kiev. È un’apertura?«Resta tutto da vedere: bisogna capire qual è il divario tra ciò che è disponibile ad accettare Putin e ciò che chiede Zelensky. E lo sapremo solo quando il presidente ucraino parlerà con Trump e se poi ci sarà il trilaterale. Credo che Putin sia disponibile a un accordo pragmatico, ma una delle condizioni irrinunciabili è l’Ucraina fuori dalla Nato. Quindi è tutto da trattare. Putin è abbastanza chiaro, dice: “Se ci mettiamo d’accordo bene, altrimenti noi proseguiamo la guerra”».Sempre Putin ha detto che spera di riprendere i rapporti con Washington su basi pragmatiche. Che cosa significa?«Dall’Artico alle terre rare, al commercio, ci sono mille argomenti su cui Stati Uniti e Russia possono in qualche modo trovare un modus vivendi. D’altra parte, Putin ha sottolineato che per l’ultimo anno l’interscambio economico tra Mosca e Washington è cresciuto del 20%: è pochissimo, però è cresciuto. Quindi ha fatto intravedere la possibilità di margini molto maggiori di collaborazione e di reciproca convenienza. Questo è sempre stato l’atteggiamento della Russia, della serie “siamo disponibili ad avere buoni affari con chiunque”. Si tratta di una visione molto lontana da quella occidentale che fa finta che la base dei rapporti siano i valori e gli ideali».Perché è stato cambiato all’ultimo il formato del summit?«La partecipazione dei ministri degli Esteri e dei consiglieri dà una dimensione molto più politicamente importante e fattiva. Se inizialmente solo i due leader si incontrano, potrebbero stabilire dei concetti generali o costruire un’intesa personale. Il fatto che ci fossero i due ministri degli esteri, il consigliere speciale di Trump, Steve Witkoff, e il consigliere presidenziale russo, Yury Ushakov, è un buon segno. Witkoff ha costruito un rapporto con Putin, e Ushakov è stato dieci anni ambasciatore a Washington: chi opera concretamente era lì».Come si legge la presenza dell’inviato speciale del Cremlino per la cooperazione economica, Kirill Dmitriev?«In primo luogo, ha fatto l’inviato speciale di Putin nei primi contatti con Trump, ma soprattutto è il capo del fondo sovrano russo: è quello che ha le chiavi della cassaforte russa. E in secondo luogo, si è laureato a Harvard, ha lavorato tantissimo in America e conosce perfettamente gli ambienti politico finanziari americani. Questo di nuovo dimostra che l’incontro è stato di alto livello».Spostandoci all’Ucraina, dopo il summit, Zelensky è indebolito sul fronte interno?«Non credo che oggi sia più debole di quanto fosse sei mesi fa. La sua forza non sta in quello che si dicono Trump e Putin, ma nella situazione interna. Che ha sotto controllo perché c’è la legge marziale e perché il suo partito, Servo del popolo, ha la maggioranza in Parlamento. Inoltre, lui è il grande convogliatore verso Kiev degli aiuti militari e finanziari e quindi anche il garante dello stato di salute dell’esercito e delle forze di sicurezza. Zelensky sarà più debole se e quando ci sarà un accordo di qualsiasi genere».Come mai?«In quel momento non avrebbe più ragioni per tenere la legge marziale, quindi non avrebbe più strumenti per non fare le elezioni e a quel punto in Ucraina si rimetterebbe tutto in moto. Peraltro, non credo che l’uomo del futuro ucraino possa essere l’ex generale, Valery Zaluzhny: potrebbe solo essere di facciata, messo lì ma con altri che comandano».Trump ha detto che «non c’è accordo finché non c’è un accordo», sottolineando che ora spetta a Kiev decidere. Lunedì (oggi, ndr) ne sapremo di più?«Sicuramente. Qualcosa Trump dovrà dire a Zelensky visto che andrà a Washington. Finché l’Ucraina non dice “questa soluzione è accettabile”, non si muove nulla. E se il presidente ucraino dovesse dire sì a una prima soluzione, secondo me chiederebbe in cambio anche delle garanzie. E non parlo solo di sicurezza per il Paese, ma anche di garanzie politiche personali: Zelensky potrebbe chiederle per poter proseguire il proprio mandato di capo dell'Ucraina».Riguardo a Pechino e Mosca, è vero, come ha detto Trump, che Biden ha avvicinato due nemici naturali?«È assolutamente vero che la politica dell’amministrazione Biden ha spinto la Russia a un’alleanza sempre più profonda con Pechino. Se Trump però vuole mettere un cuneo nel rapporto tra i due Paesi, deve arrivare a provvedimenti concreti».Per esempio?«Oggi il mercato dell’automobile russo è dominato dalle case automobilistiche cinesi, che ormai controllano il 60% del mercato. Per rovesciare questa situazione non bastano le dichiarazioni politiche, ma vanno aperti i flussi di esportazione, devono arrivare macchine occidentali in Russia. Dunque, questo cuneo deve essere fatto di provvedimenti concreti, di economia, di denaro e di opportunità commerciali. Finché questa situazione non cambia, la Russia non si staccherà dalla Cina perché Pechino è il primo importatore di risorse energetiche russe al mondo e anche il primo fornitore di molti beni di consumo e soprattutto di beni dual use».La Cina come ha percepito il summit?«Pechino osserva e secondo me in questo momento la situazione gli piace per vari motivi. La Russia sta vincendo ma non stravincendo: alla Cina fa comodo che Mosca tenga impegnato l’Occidente. Inoltre, non fa comodo a Pechino che la Russia stravinca perché i due Paesi adesso vanno d’accordo ma domani chissà. Quindi va bene che ci sia una sorta di pace ibrida. Inoltre, un solco tra gli Stati Uniti e l’Europa potrebbe offrire alla Cina un’occasione: la possibile apertura di un canale sia politico sia commerciale con Bruxelles. E non si può dimenticare l’Ucraina: a marzo Pechino ha siglato un accordo per l’esportazione dei prodotti agricoli ucraini. La Cina gioca sempre su tutti i tavoli, quindi sta alla finestra interessata».Ma non teme il ripristino dei rapporti tra Mosca e Washington?«In prospettiva forse sì, però c'è ancora molta strada da far fare. Adesso quindi sta soppesando la situazione perché vede delle possibili criticità ma anche delle opportunità».
Alessandro Benetton (Imagoeconomica)