2024-06-03
«Pensare che all’inizio mi criticavano perché perdevo tutte le finali»
Il mito del basket Dan Peterson: «Agli imprenditori insegno a partire dalle loro sconfitte. Per studiare gli allenatori mi guardo anche il calcio».È da qualche giorno nella Hall of fame Fiba, la federazione internazionale di basket. Ha vinto una Coppa dei campioni, cinque scudetti - quattro a Milano e uno con la Virtus Bologna - e tre Coppe Italia. Icona dei cestisti, testimonial pubblicitario, giornalista, commentatore, per tutti «the coach», sono quasi 40 anni che le grandi aziende ingaggiano Dan Peterson anche come motivatore. «E parto sempre dalla sconfitta», avvisa subito lui.Non dalle vittorie?«Per arrivare a vincere tutto ci furono però, prima, le due stagioni dall’82 all’84 all’Olimpia Milano: sempre secondi, in Italia e in Europa, in quattro finali. Un amico giornalista mi definì in un articolo il santone dei secondi posti, o meglio, “il John Wooden dei secondi posti”». Ci restò male?«Tutto il contrario, lo chiamai per ringraziarlo. Perché aveva messo il mio nome accanto al più grande allenatore di basket di tutti i tempi».E poi vinceste tanto, tutto.«Ci chiamavano “gli invincibili”. E sa perché lo eravamo? Per la fiducia che avevo in me stesso e nel mio team, ma soprattutto nei miei giocatori. Da Vittorio Gallinari a Franco Boselli, da Renzo Bariviera a Riccardo Pittis e tutti gli altri: quando subimmo i ko in finale non feci piazza pulita, e loro seppero che mi fidavo di loro».Dal campo alla vita?«Noi che veniamo dal mondo dello sport abbiamo fatto una palestra esistenziale. Sappiamo che se perdi una partita perché hai fatto un brutto errore - pure io ne ho fatti tanti e ancora mi rodo il fegato - diventi abile ad assorbire il pugno senza crollare per terra. Si immagini i fischi, la sofferenza davanti al pubblico e ai mass media nelle interviste. Ti senti male, eh».Quindi è questione di farci il callo?«Lo definirei più uno scudo, uno scudo sul cuore che ti protegge. Impari la lezione, capisci come vincere, ti applichi e studi, trovi nuova motivazione, quella giusta».Le sue due squadre, Virtus e Olimpia, guidano oggi la classifica.«Seguo, sì, anche se con un po’ di nostalgia per i miei tempi. Ora c’è l’esasperazione del tiro da tre punti, e tutti rinunciano al gioco di mezzo. Ho visto anche le statistiche Nba: sono scomparsi i tiri da due punti. Peccato, perché così il basket diventa matematica e si perde il bello del balletto giocato. Palleggio, arresto, tiro in sospensione: il gesto più bello».L’Italia è il Paese del calcio, ma in alcune zone il basket è bandiera.«Quelle dalla grande tradizione: da Varese a Cantù, e poi Pesaro, Treviso, Caserta. Amano la bellezza del gioco, perché hanno visto le pagine più belle di questo sport».Da dove viene, nell’Illinois, però è ovvio che lo si ama di più.«Fa ancor meglio l’Indiana, dove in una città di 3.000 abitanti ci fu un anno in cui misero i poliziotti a proteggere le case svuotate perché una colonna d’auto partì per andare a sostenere la squadra in trasferta. L’amore per il basket, negli Stati Uniti, cresce nelle scuole, dalle elementari al liceo. E non bisogna mai snobbare la provincia. Sarebbe bello accadesse anche qui, un investimento sull’educazione nello sport. Ma sono 50 anni che lo dico e nessuno mi ascolta».Il calcio lo snobba?«Neanche per idea, lo seguo. Pur non essendo un grande tifoso, ammiro le grandi squadre e i grandi allenatori. Capello, Lippi, Trapattoni… Mourinho e chi viene ad allenare in Italia. Oggi su tutti mi piace Jurgen Klopp, che dopo nove anni alla guida del Liverpool, ha annunciato un clamoroso addio a 56 anni».Anche lei lasciò presto, nel 1987. Rimorsi?«Non ne ho. Anche perché il danno che avevo fatto a me stesso l’ho riparato tra il 2010 e il 2011 quando il gruppo Armani mi richiamò a Milano. Una gioia impagabile: un regalo essere a 75 anni in panchina. Non finirò mai di ringraziare tutto il team».Ma è vero che Berlusconi le offerse di guidare il Milan?«Fu Bruno Bogarelli, recentemente scomparso, a domandarmi per conto suo e di Galliani se sarei stato interessato, e se si poteva diffondere la notizia». E lei? «Temevo di distruggere la squadra a fine stagione se qualcosa fosse trapelato, e risposi che restavo leale, fedele all’Olimpia, e che ne avremmo magari parlato in seguito. Nel frattempo scelsero Arrigo Sacchi e fecero bene sia per loro che per me. Ogni volta che vedo Galliani però ci scherzo: dovevate prendermi. Fu un grande onore, ma sono sereno. Mi hanno poi raccontato - non so se sia vero - che Bogarelli a Berlusconi che gli chiedeva se avrei potuto dirigere il Milan rispose: “Dottore, Peterson potrebbe dirigere un night”».Ho una cinquina di nomi importanti nella sua vita, consapevole che tutti gli incontri non si potrebbero citare. Vuole sentirli e mi conferma o smentisce?«Vada». Parto dal facile: Dino Meneghin. Che nonostante sia stato suo testimone di nozze le dà ancora del lei, è vero?«Sempre, sì sì. In inglese facciamo dei giri di parole per esprimere il “lei” dell’italiano, per distinguere il formale dal famigliare».E Meneghin non è famiglia?«Lo è, c’è con lui un grandissimo rapporto. Era la locomotiva della mia squadra, e ho sempre apprezzato la sua ironia e la sua attenzione ai particolari. Fiducia, serenità, professionalità: doti ineguagliabili di un grande lavoratore. Il “lei”, però, lo teniamo perché indice del reciproco rispetto profondo che ci lega». Secondo nome: Bobby Knight.«Allenatore superlativo che non ho mai conosciuto di persona ma che mia madre adorava. Un giorno la chiamai - lo facevo ogni domenica - e lei finse di non riconoscermi: “Hallo, chi è?”. Le dissi: “Mamma, sono il tuo allenatore preferito”. E lei: “Parlo con Bobby Knight?”». Che smacco. «Ma no, ma no. Si era innamorata del suo gesto del lanciare la sedia in campo tanto forte da fare rumore ma non abbastanza distante per far del male a qualcuno. Raccontai a lui tramite lettera di quest’episodio. Mi rispose chiedendo l’indirizzo di mia madre: le mandò un pullover bellissimo, rosso con la “i” di Indiana. Gli chiesi però se potevo dirle che ero più forte di lui e acconsentì. Eccezionale».Terzo personaggio d’eccezione: Cesare Rubini, anche lui nella Hall of fame.«Un mito. La storia del basket italiano e forse anche dello sport, con il suo impegno nella pallanuoto. Lo chiamavano il principe. Anche a lui diedi sempre del lei, ispirava un timore reverenziale, un rispetto innato. Mi affiancò e mi sostenne a Milano e non fu affatto geloso della panchina. Addirittura non accettava i miei ringraziamenti, diceva di essere lui a dovermi ringraziare. Ricordo che Massimo Moizo - battutista strepitoso - un giorno disse che al mondo erano rimasti solo due veri uomini: Rubini e poi - pausa - mia moglie».Quarto, un altro giocatore: Mike D’Antoni. Fu lui o Meneghin il suo preferito?«Ah no, io di distinzioni non ne faccio, stanno insieme nel mio cuore. D’Antoni era la mente della squadra in campo. Super professionista, mai egoista. Ogni allenatore dovrebbe avere l’opportunità di allenare almeno per un giorno in carriera un uomo così».Cinque, una donna, l’unica e sola: sua moglie Laura. Come vi siete conosciuti?(Peterson inizia a raccontare, ma si sente un sonoro «no» e Laura prende la cornetta sorridendo cordiale) «Scusi signora, ma intervengo io perché lui storpia sempre questa storia».Così sapremo la verità.«Perché va sempre a finire che sembra che io abbia voluto conoscerlo a tutti i costi, e invece agli inizi ci fu un incontro causale a pranzo, per tramite di un’amica comune modella. Per un anno mi chiese di andare alle partite, ma io di basket non capivo nulla e rifiutavo perché non conoscevo nessuno. Poi iniziammo a frequentarci».Quanti anni sono passati?«Trentanove. Dopo 13 anni ci siamo sposati in America ma era un rito civile. E poi abbiamo fatto la scelta del matrimonio religioso a Milano. Io sono cattolica, ho fede. Lui è protestante, ma nel senso di protestante fin dalla nascita: nato con parto cesareo perché non veniva venire fuori. Glielo ripasso, mi scusi l’intrusione». Coach, e così Milano l’ha fatta innamorare. Com’è che ancora non le hanno dato l’Ambrogino d’oro?«Chissà, prima o poi…».A proporre il suo nome è stata Forza Italia, all’ultimo giro.«Ah ma io sono un non politico, sarà per questo che non metto d’accordo i partiti. A Bologna ho amato la gestione della città di Renato Zangheri, comunista. Che non sa quante me ne dicevano i miei amici negli Usa, ma io rispondevo che Bologna funzionava grazie a lui come un orologio svizzero. Ma ho conosciuto e apprezzato pure Craxi, che venne in spogliatoio a fare un bellissimo discorso nel 1986. E conosco Matteo Salvini, anche se è dal 2016 che non lo vedo, ogni tanto ci scriviamo qualche Whatsapp. Era in tribuna giovanissimo, chi se lo sarebbe aspettato che sarebbe diventato così famoso. Tutto questo per dirle che valuterò sempre la persona, pure alle elezioni americane. Vedremo chi sarà candidato, perché nulla per ora è scontato».
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)
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