True
2018-09-14
Insulti da Parigi: «Siete un guaio per l’euro»
Ansa
Quando si tratta di Strasburgo e Bruxelles, essere buoni profeti non è difficile: basta prevedere il peggio, e si hanno spesso ottime probabilità di azzeccare il pronostico. Per due giorni, La Verità aveva anticipato che, dopo l'Ungheria, sarebbe stata l'Italia a esser messa nel mirino, in un modo o nell'altro. E infatti, dopo neanche ventiquattr'ore dal voto dell'Europarlamento contro il governo di Viktor Orban, ci ha pensato il francese Pierre Moscovici, commissario Ue agli Affari economici, a inviare a Roma un obliquo mix di avvertimenti e vere e proprie offese.
Moscovici, esponente socialista che da giovane si dichiarava trotskista e comunista rivoluzionario, anziché occuparsi dei conti pubblici di Parigi, che nei prossimi mesi tornerà a sfondare la soglia del 3% nel rapporto deficit/Pil, ha dichiarato che l'Italia «è un problema per l'eurozona». E, per chi non avesse capito bene, ha aggiunto: «È assolutamente l'Italia il tema su cui voglio concentrare la mia attenzione prima di tutto». Poi, interpellato sui populisti in Europa, la terza bordata: «C'è un clima che assomiglia molto agli anni '30. Certo, non dobbiamo esagerare, chiaramente non c'è Hitler, forse dei piccoli Mussolini...». Ma a Moscovici non è sembrato ancora abbastanza, e, passando all'immigrazione, ha avvisato Matteo Salvini così: «L'Italia ha il ministro più nazionalista, e al tempo stesso è il Paese che avrebbe maggiore bisogno di solidarietà da parte dei partner Ue».
Ricapitoliamo: per cominciare, un paragone insultante riferibile a Orban e - senza forse - allo stesso Salvini. Poi, una minaccia neanche tanto velata sull'immigrazione, del tipo: o vi allineate sul resto, oppure dall'Ue non verrà alcun aiuto. E infine, una chiara espressione di ostilità alla vigilia del varo della manovra, una specie di pistola rumorosamente sbattuta sul tavolo prim'ancora che inizi il confronto tra Roma e Bruxelles su caratteristiche e peso della legge di bilancio.
Vale peraltro la pena di ricordare meglio chi sia l'uomo politico che ha pronunciato espressioni così gravi (e così grevi). Prima di diventare commissario Ue nel 2014, Moscovici era stato ministro delle Finanze in Francia, sotto la presidenza di François Hollande. In quella veste, a metà 2012, si era impegnato solennemente davanti all'allora commissario economico Ue, Olli Rehn, a tornare sotto la soglia del 3% già nel 2013. Cosa che invece non accadde - badate bene - per dieci anni consecutivi, dal 2007 fino a tutto il 2016, inclusi i due anni di governo di Moscovici.
L'Ue, però, fu ultraclemente con Parigi, a cui vennero dati altri 24 mesi per mettersi in regola: ma la Francia continuò a sforare allegramente, arrivando ben sopra il 4% nel 2014 e poco sotto il 4% nel 2015. Peraltro, il debito pubblico francese non è affatto sotto controllo, essendo al 96-97% del Pil transalpino.
Sulla base di queste «credenziali», Moscovici se la prende con l'Italia, uno dei Paesi fondatori dell'Unione, e soprattutto un contribuente netto, visto che l'Italia dà ogni anno all'Ue molto più di quanto riceva (14 miliardi contro 11 circa). Quanto all'immigrazione, la cosa si fa addirittura offensiva, se si considera che quest'anno l'Italia ha speso tra i 4,6 e i 5 miliardi di euro per l'accoglienza (ben più del gettito della vecchia tassa sulla prima casa, per capirci) ricevendo in cambio la miseria di 80 milioni.
Il primo a rispondere a Moscovici è stato Luigi Di Maio, che ha definito «veramente insopportabili» le affermazioni del francese. «Dall'alto della loro Commissione», ha aggiunto, «si permettono di dire che in Italia ci sono tanti piccoli Mussolini. Non solo non si devono permettere, ma questo dimostra come queste siano persone totalmente scollegate dalla realtà». Reazione dura, certo: peccato che forse la tracotanza di Moscovici sia stata involontariamente incoraggiata anche dal contributo fornito dagli eurodeputati grillini, il giorno prima, alla messa sotto processo di Orban.
Matteo Salvini è stato ancora più netto: «Il commissario Ue Moscovici, anziché censurare la sua Francia che respinge gli immigrati a Ventimiglia, ha bombardato la Libia e ha sforato i parametri europei, attacca l'Italia e parla a vanvera di tanti piccoli Mussolini in giro per l'Europa. Si sciacqui la bocca prima di insultare l'Italia, gli italiani e il loro legittimo governo».
La cosa tragicomica è che, mentre Moscovici parlava, veniva sempre da Parigi un annuncio clamoroso - e per molti versi surreale - da un Emmanuel Macron in drammatica crisi di consenso e in cerca di qualunque espediente per risalire la china: «Entro il 2020 la Francia avrà il reddito universale di attività», ha detto l'inquilino dell'Eliseo. Quindi, la linea del governo francese è: porti chiusi (come Salvini) e reddito di cittadinanza (come i grillini). Però i «cattivi» sono i governanti italiani.
Lega e 5 stelle litigano su 8 miliardi, e pure Moavero si è stufato dell’Ue
Continua a leggereRiduci
Il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, muove guerra all'Italia. Come previsto, dopo l'Ungheria tocca a noi. Prima la minaccia sull'immigrazione: o ci si allinea o niente aiuti. Poi l'affondo: «Da voi è pieno di tanti piccoli Mussolini».Restano le tensioni sulla manovra tra gli alleati: le risorse basterebbero solo per pensioni e taglio delle tasse, ma il M5s non vuole rinunciare al reddito di cittadinanza. Il ministro degli Esteri: «Bilancio europeo inadatto agli italiani».Il presidente della Bce: «Tassi invariati, stop al Qe a fine anno ma servono misure di stimolo».Lo speciale contiene tre articoli.Quando si tratta di Strasburgo e Bruxelles, essere buoni profeti non è difficile: basta prevedere il peggio, e si hanno spesso ottime probabilità di azzeccare il pronostico. Per due giorni, La Verità aveva anticipato che, dopo l'Ungheria, sarebbe stata l'Italia a esser messa nel mirino, in un modo o nell'altro. E infatti, dopo neanche ventiquattr'ore dal voto dell'Europarlamento contro il governo di Viktor Orban, ci ha pensato il francese Pierre Moscovici, commissario Ue agli Affari economici, a inviare a Roma un obliquo mix di avvertimenti e vere e proprie offese. Moscovici, esponente socialista che da giovane si dichiarava trotskista e comunista rivoluzionario, anziché occuparsi dei conti pubblici di Parigi, che nei prossimi mesi tornerà a sfondare la soglia del 3% nel rapporto deficit/Pil, ha dichiarato che l'Italia «è un problema per l'eurozona». E, per chi non avesse capito bene, ha aggiunto: «È assolutamente l'Italia il tema su cui voglio concentrare la mia attenzione prima di tutto». Poi, interpellato sui populisti in Europa, la terza bordata: «C'è un clima che assomiglia molto agli anni '30. Certo, non dobbiamo esagerare, chiaramente non c'è Hitler, forse dei piccoli Mussolini...». Ma a Moscovici non è sembrato ancora abbastanza, e, passando all'immigrazione, ha avvisato Matteo Salvini così: «L'Italia ha il ministro più nazionalista, e al tempo stesso è il Paese che avrebbe maggiore bisogno di solidarietà da parte dei partner Ue». Ricapitoliamo: per cominciare, un paragone insultante riferibile a Orban e - senza forse - allo stesso Salvini. Poi, una minaccia neanche tanto velata sull'immigrazione, del tipo: o vi allineate sul resto, oppure dall'Ue non verrà alcun aiuto. E infine, una chiara espressione di ostilità alla vigilia del varo della manovra, una specie di pistola rumorosamente sbattuta sul tavolo prim'ancora che inizi il confronto tra Roma e Bruxelles su caratteristiche e peso della legge di bilancio. Vale peraltro la pena di ricordare meglio chi sia l'uomo politico che ha pronunciato espressioni così gravi (e così grevi). Prima di diventare commissario Ue nel 2014, Moscovici era stato ministro delle Finanze in Francia, sotto la presidenza di François Hollande. In quella veste, a metà 2012, si era impegnato solennemente davanti all'allora commissario economico Ue, Olli Rehn, a tornare sotto la soglia del 3% già nel 2013. Cosa che invece non accadde - badate bene - per dieci anni consecutivi, dal 2007 fino a tutto il 2016, inclusi i due anni di governo di Moscovici. L'Ue, però, fu ultraclemente con Parigi, a cui vennero dati altri 24 mesi per mettersi in regola: ma la Francia continuò a sforare allegramente, arrivando ben sopra il 4% nel 2014 e poco sotto il 4% nel 2015. Peraltro, il debito pubblico francese non è affatto sotto controllo, essendo al 96-97% del Pil transalpino. Sulla base di queste «credenziali», Moscovici se la prende con l'Italia, uno dei Paesi fondatori dell'Unione, e soprattutto un contribuente netto, visto che l'Italia dà ogni anno all'Ue molto più di quanto riceva (14 miliardi contro 11 circa). Quanto all'immigrazione, la cosa si fa addirittura offensiva, se si considera che quest'anno l'Italia ha speso tra i 4,6 e i 5 miliardi di euro per l'accoglienza (ben più del gettito della vecchia tassa sulla prima casa, per capirci) ricevendo in cambio la miseria di 80 milioni. Il primo a rispondere a Moscovici è stato Luigi Di Maio, che ha definito «veramente insopportabili» le affermazioni del francese. «Dall'alto della loro Commissione», ha aggiunto, «si permettono di dire che in Italia ci sono tanti piccoli Mussolini. Non solo non si devono permettere, ma questo dimostra come queste siano persone totalmente scollegate dalla realtà». Reazione dura, certo: peccato che forse la tracotanza di Moscovici sia stata involontariamente incoraggiata anche dal contributo fornito dagli eurodeputati grillini, il giorno prima, alla messa sotto processo di Orban. Matteo Salvini è stato ancora più netto: «Il commissario Ue Moscovici, anziché censurare la sua Francia che respinge gli immigrati a Ventimiglia, ha bombardato la Libia e ha sforato i parametri europei, attacca l'Italia e parla a vanvera di tanti piccoli Mussolini in giro per l'Europa. Si sciacqui la bocca prima di insultare l'Italia, gli italiani e il loro legittimo governo». La cosa tragicomica è che, mentre Moscovici parlava, veniva sempre da Parigi un annuncio clamoroso - e per molti versi surreale - da un Emmanuel Macron in drammatica crisi di consenso e in cerca di qualunque espediente per risalire la china: «Entro il 2020 la Francia avrà il reddito universale di attività», ha detto l'inquilino dell'Eliseo. Quindi, la linea del governo francese è: porti chiusi (come Salvini) e reddito di cittadinanza (come i grillini). Però i «cattivi» sono i governanti italiani.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/insulti-francesi-siete-un-guaio-per-leuro-2604669805.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lega-e-5-stelle-litigano-su-8-miliardi-e-pure-moavero-si-e-stufato-dellue" data-post-id="2604669805" data-published-at="1765430436" data-use-pagination="False"> Lega e 5 stelle litigano su 8 miliardi, e pure Moavero si è stufato dell’Ue Accuse, insinuazioni di dimissioni e smentite. È la terza volta che va in scena lo stesso schema che immancabilmente viene cavalcato dai due quotidiani che più di tutti vorrebbero vedere questo governo spacchettato e magari una parte (ci riferiamo a metà dei 5 stelle) indirizzata tra le braccia del nuovo Pd (senza Matteo Renzi). Così anche ieri le fonti del Mef hanno smentito i litigi tra il titolare del dicastero, Giovanni Tria, e il vicepremier, Luigi Di Maio. Non saranno litigi, ma pizzini sicuramente. D'altronde Tria, da uomo del rigore targato Sergio Mattarella, è diventato adesso arbitro tra la componente gialla del governo e quella blù. Per il Tesoro l'assicurazione da dare a Bruxelles sarebbe quella di non oltrepassare l'asticella dell'1,6% nel rapporto tra deficit e Pil, passando dallo 0,9% del governo Gentiloni appunto all'1,6 per cento. Una flessibilità consistente, pari a circa 12,6 miliardi, che però servirà giusto a tappare l'aumento dell'Iva. L'ipotesi è quella di portare la massa complessiva della manovra a poco più di 20 miliardi. Il che lascia liberi, per gli interventi inseriti nel contratto di governo, circa 8 miliardi. La Lega ha fissato come priorità il taglio delle tasse e l'intervento sulle pensioni con la riforma di quota 100. A spanne i due interventi costano appunto 8 miliardi. Non rimarrebbe nulla per i 5 stelle. Eppure il leader grillino ha ribadito anche ieri l'importanza del reddito di cittadinanza. Che, seguendo lo schema riportato sopra, slitterebbe al 2020. Ma Di Maio vuole avere qualcosa di definito da mettere in campo nella campagna elettorale del maggio 2019, quando si giocherà la fondamentale partita a scacchi del Parlamento Ue (dove Lega e 5 stelle rischiano di sedersi su scranni opposti). Sul problema numeri va aggiunto che il reddito di cittadinanza (se venisse riproposto come da contratto di governo) costerebbe 16 miliardi all'anno. Il che significa che, con la flessibilità concordata con Tria, sarebbe garantito per sei mesi. Nell'altro semestre quei 9 milioni di italiani dovrebbero tornare a lavorare: poco male secondo noi, ma per i conti pubblici sarebbe una situazione ingestibile. Senza contare che l'intero importo andrebbe ad accoppare quota 100 (4 miliardi di costo) e il taglio dell'Irpef (altri 4 miliardi). Si comprende facilmente che, quando i nodi arriveranno al pettine, qualcuno dentro la maggioranza si farà male. Basti pensare che ieri l'Ordine dei commercialisti ha fatto le pulci alla riduzione dell'imposta al 22%: «Numeri alla mano, condividiamo le perplessità espresse da più parti sul rapporto costi-benefici della riduzione al 22% dell'attuale aliquota Irpef del 23% e invitiamo governo e maggioranza a concentrare le risorse su interventi più mirati che possono lasciare veramente il segno, come quelli sulle partite Iva, tenendo però conto dei nostri suggerimenti per non creare pericolosi effetti distorsivi», ha detto Massimo Miani, presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti e degli esperti contabili. Sulla base dei dati delle dichiarazioni fiscali presentate nel 2017, i commercialisti calcolano che la riduzione al 22%, ma, interessando tutti i 30,8 milioni di contribuenti che dichiarano una imposta netta positiva, determina un vantaggio individuale pari a 12,5 euro al mese per i 22 milioni di contribuenti che dichiarano un reddito superiore a 15.000 euro e pari a 7,3 euro al mese per gli 8,8 milioni di contribuenti che dichiarano meno di 15.000 euro di reddito. Insomma, al massimo 150 euro all'anno. Ma questo è un problema che gli italiani si porranno nel 2020, quando arriverà il momento di pagare le tasse. Nel frattempo, sempre che la proposta passi, di acqua sotto i ponti ne sarà transitata molta. Compreso il fatto che potrebbe sopraggiungere qualche novità «compattante». Se il tema Europa dovesse di nuovo esplodere, Lega e 5 stelle potrebbero trovare nuova linfa. D'altronde la mossa del ministro degli Esteri, Enzo Maovero Milanesi, indica un cambio di rotta. E non deve essere intesa come un'uscita in contrasto con le dichiarazioni di Mario Draghi. Ci riferiamo alla risposta che la Farnesina ha dedicato al commissario al Bilancio Ue, Gunther Oettinger, che ieri dopo aver amabilmente conversato con Roberto Fico ha chiesto all'Italia di tappare il buco che provocherà l'uscita di Londra dall'Europa. «L'attuale proposta della commissione europea sul progetto di bilancio pluriennale Ue per il periodo 2021-2027 per l'Italia appare inadeguata perché non risponde a sufficienza alle preoccupazioni e alle attese dei cittadini», ha risposto secco Moavero aggiungendo che «è auspicabile che la commissione sia più coraggiosa nell'individuare fonti aggiuntive per le risorse del bilancio Ue. Non è più giustificato che queste ultime dipendano, prevalentemente, dai contributi versati da ciascuno Stato membro; in questo modo, infatti, si sottraggono risorse ai bilanci nazionali». Le dichiarazioni si saldano con le parole di Draghi. Bilanci a posto e poi, forse, la volontà di ridiscutere gli equilibri europei. Mattarella è d'accordo. Probabilmente anche la Lega. I 5 stelle? Al momento non si capisce... <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/insulti-francesi-siete-un-guaio-per-leuro-2604669805.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="anche-draghi-si-toglie-un-sassolino-le-parole-del-governo-fanno-danni" data-post-id="2604669805" data-published-at="1765430436" data-use-pagination="False"> Anche Draghi si toglie un sassolino: «Le parole del governo fanno danni» Nessuna sorpresa sui tassi, che restano a zero, e nessuna novità neanche sul programma di Quantitative easing, che si dovrebbe chiudere alla fine dell'anno. Fin qui il discorso di ieri del presidente della Bce, Mario Draghi, ha rispettato le attese: ad arrivare un po' a sorpresa sono state le parole dirette al governo italiano. Per il numero uno dell'Eurotower le dichiarazioni fatte negli ultimi mesi da alcuni esponenti politici del nostro Paese hanno creato qualche danno, facendo salire i tassi d'interesse per imprese e famiglie; tuttavia, per la Banca centrale europea restano valide le rassicurazioni del premier italiano e dei ministri dell'Economia e degli Esteri, e cioè che l'Italia rispetterà le regole di bilancio Ue. «I toni dei politici sono cambiati molto spesso negli ultimi mesi; quello che noi stiamo aspettando adesso sono i fatti. E il fatto principale è la bozza della legge di Bilancio e la successiva discussione in Parlamento. Allora i risparmiatori, i mercati finanziari e gli investitori si faranno la loro idea», ha dichiarato Draghi. Il riferimento è allo sforamento del limite del 3% nel rapporto tra deficit e Pil, evocato più volte nel corso dell'estate dai due partiti al governo, Lega e M5s, per finanziare le misure promesse in campagna elettorale. «Sfortunatamente, abbiamo visto che le parole hanno creato qualche danno. I tassi d'interesse sono saliti per le famiglie e per le imprese. Questo non ha tuttavia creato molte ricadute su altri Paesi della zona euro. Resta un episodio sostanzialmente italiano», ha sottolineato Draghi, rispondendo a chi chiedeva se le politiche del governo italiano e il rialzo dello spread possano richiedere misure da parte dell'Eurotower nel 2019 per evitare fenomeni di contagio. «Non abbiamo ancora visto alcun contagio», ha precisato il presidente della Bce. «Il nostro mandato», ha spiegato ancora Draghi, «è la stabilità dei prezzi, e il Quantitative easing è uno degli strumenti con cui lo perseguiamo». E a chi chiedeva se con la fine del Qe l'Italia verrebbe di fatto lasciata a sé stessa, il presidente dell'istituto ha risposto seccamente: «Nel merito, il mandato della Bce non è assicurare che i deficit dei governi siano finanziati in qualsiasi condizione». Sul fronte del costo del denaro, in linea rispetto a quanto dichiarato sia in giugno sia in luglio, l'idea dei vertici dell'Eurotower è che i tassi di riferimento si mantengano sui livelli attuali almeno fino alla fine dell'estate dell'anno prossimo e comunque - recita il comunicato di politica monetaria - «fino a quando sarà necessario». A partire da ottobre il programma di acquisto di titoli procederà a ritmo dimezzato rispetto ai 30 miliardi di euro di settembre, per poi concludersi con la fine dell'anno. Tuttavia, ha rassicurato Draghi, la zona euro ha ancora bisogno di un «considerevole» stimolo da parte della politica monetaria, che quindi resterà espansiva anche dopo la chiusura del Qe a fine anno. Per quanto riguarda le previsioni, la Bce ha confermato le stime sull'andamento dell'inflazione e si attende un tasso dell'1,7% dal 2018 fino al 2020. Sul fronte della crescita, invece, Francoforte ha limato le previsioni relative al Pil dell'area euro, che nel 2018 dovrebbe crescere del 2% - a giugno la stima era del 2,1% - mentre nel 2019 dovrebbe rallentare all'1,8% (contro la precedente stima dell'1,9%), e nel 2020 all'1,7%. Per la Bce «sono aumentate recentemente le incertezze relative al crescente protezionismo, la vulnerabilità dei mercati emergenti e la volatilità dei mercati finanziari». Proprio per via di questi rischi, ha precisato Draghi, saranno ancora necessarie misure di stimolo per sostenere l'inflazione: in ogni caso, per il numero uno della Bce il rialzo dell'inflazione verso il target del 2% dovrebbe continuare anche dopo la fine del programma di Quantitative easing.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Continua a leggereRiduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
Continua a leggereRiduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
Continua a leggereRiduci