True
2018-09-14
Insulti da Parigi: «Siete un guaio per l’euro»
Ansa
Quando si tratta di Strasburgo e Bruxelles, essere buoni profeti non è difficile: basta prevedere il peggio, e si hanno spesso ottime probabilità di azzeccare il pronostico. Per due giorni, La Verità aveva anticipato che, dopo l'Ungheria, sarebbe stata l'Italia a esser messa nel mirino, in un modo o nell'altro. E infatti, dopo neanche ventiquattr'ore dal voto dell'Europarlamento contro il governo di Viktor Orban, ci ha pensato il francese Pierre Moscovici, commissario Ue agli Affari economici, a inviare a Roma un obliquo mix di avvertimenti e vere e proprie offese.
Moscovici, esponente socialista che da giovane si dichiarava trotskista e comunista rivoluzionario, anziché occuparsi dei conti pubblici di Parigi, che nei prossimi mesi tornerà a sfondare la soglia del 3% nel rapporto deficit/Pil, ha dichiarato che l'Italia «è un problema per l'eurozona». E, per chi non avesse capito bene, ha aggiunto: «È assolutamente l'Italia il tema su cui voglio concentrare la mia attenzione prima di tutto». Poi, interpellato sui populisti in Europa, la terza bordata: «C'è un clima che assomiglia molto agli anni '30. Certo, non dobbiamo esagerare, chiaramente non c'è Hitler, forse dei piccoli Mussolini...». Ma a Moscovici non è sembrato ancora abbastanza, e, passando all'immigrazione, ha avvisato Matteo Salvini così: «L'Italia ha il ministro più nazionalista, e al tempo stesso è il Paese che avrebbe maggiore bisogno di solidarietà da parte dei partner Ue».
Ricapitoliamo: per cominciare, un paragone insultante riferibile a Orban e - senza forse - allo stesso Salvini. Poi, una minaccia neanche tanto velata sull'immigrazione, del tipo: o vi allineate sul resto, oppure dall'Ue non verrà alcun aiuto. E infine, una chiara espressione di ostilità alla vigilia del varo della manovra, una specie di pistola rumorosamente sbattuta sul tavolo prim'ancora che inizi il confronto tra Roma e Bruxelles su caratteristiche e peso della legge di bilancio.
Vale peraltro la pena di ricordare meglio chi sia l'uomo politico che ha pronunciato espressioni così gravi (e così grevi). Prima di diventare commissario Ue nel 2014, Moscovici era stato ministro delle Finanze in Francia, sotto la presidenza di François Hollande. In quella veste, a metà 2012, si era impegnato solennemente davanti all'allora commissario economico Ue, Olli Rehn, a tornare sotto la soglia del 3% già nel 2013. Cosa che invece non accadde - badate bene - per dieci anni consecutivi, dal 2007 fino a tutto il 2016, inclusi i due anni di governo di Moscovici.
L'Ue, però, fu ultraclemente con Parigi, a cui vennero dati altri 24 mesi per mettersi in regola: ma la Francia continuò a sforare allegramente, arrivando ben sopra il 4% nel 2014 e poco sotto il 4% nel 2015. Peraltro, il debito pubblico francese non è affatto sotto controllo, essendo al 96-97% del Pil transalpino.
Sulla base di queste «credenziali», Moscovici se la prende con l'Italia, uno dei Paesi fondatori dell'Unione, e soprattutto un contribuente netto, visto che l'Italia dà ogni anno all'Ue molto più di quanto riceva (14 miliardi contro 11 circa). Quanto all'immigrazione, la cosa si fa addirittura offensiva, se si considera che quest'anno l'Italia ha speso tra i 4,6 e i 5 miliardi di euro per l'accoglienza (ben più del gettito della vecchia tassa sulla prima casa, per capirci) ricevendo in cambio la miseria di 80 milioni.
Il primo a rispondere a Moscovici è stato Luigi Di Maio, che ha definito «veramente insopportabili» le affermazioni del francese. «Dall'alto della loro Commissione», ha aggiunto, «si permettono di dire che in Italia ci sono tanti piccoli Mussolini. Non solo non si devono permettere, ma questo dimostra come queste siano persone totalmente scollegate dalla realtà». Reazione dura, certo: peccato che forse la tracotanza di Moscovici sia stata involontariamente incoraggiata anche dal contributo fornito dagli eurodeputati grillini, il giorno prima, alla messa sotto processo di Orban.
Matteo Salvini è stato ancora più netto: «Il commissario Ue Moscovici, anziché censurare la sua Francia che respinge gli immigrati a Ventimiglia, ha bombardato la Libia e ha sforato i parametri europei, attacca l'Italia e parla a vanvera di tanti piccoli Mussolini in giro per l'Europa. Si sciacqui la bocca prima di insultare l'Italia, gli italiani e il loro legittimo governo».
La cosa tragicomica è che, mentre Moscovici parlava, veniva sempre da Parigi un annuncio clamoroso - e per molti versi surreale - da un Emmanuel Macron in drammatica crisi di consenso e in cerca di qualunque espediente per risalire la china: «Entro il 2020 la Francia avrà il reddito universale di attività», ha detto l'inquilino dell'Eliseo. Quindi, la linea del governo francese è: porti chiusi (come Salvini) e reddito di cittadinanza (come i grillini). Però i «cattivi» sono i governanti italiani.
Lega e 5 stelle litigano su 8 miliardi, e pure Moavero si è stufato dell’Ue
Continua a leggereRiduci
Il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, muove guerra all'Italia. Come previsto, dopo l'Ungheria tocca a noi. Prima la minaccia sull'immigrazione: o ci si allinea o niente aiuti. Poi l'affondo: «Da voi è pieno di tanti piccoli Mussolini».Restano le tensioni sulla manovra tra gli alleati: le risorse basterebbero solo per pensioni e taglio delle tasse, ma il M5s non vuole rinunciare al reddito di cittadinanza. Il ministro degli Esteri: «Bilancio europeo inadatto agli italiani».Il presidente della Bce: «Tassi invariati, stop al Qe a fine anno ma servono misure di stimolo».Lo speciale contiene tre articoli.Quando si tratta di Strasburgo e Bruxelles, essere buoni profeti non è difficile: basta prevedere il peggio, e si hanno spesso ottime probabilità di azzeccare il pronostico. Per due giorni, La Verità aveva anticipato che, dopo l'Ungheria, sarebbe stata l'Italia a esser messa nel mirino, in un modo o nell'altro. E infatti, dopo neanche ventiquattr'ore dal voto dell'Europarlamento contro il governo di Viktor Orban, ci ha pensato il francese Pierre Moscovici, commissario Ue agli Affari economici, a inviare a Roma un obliquo mix di avvertimenti e vere e proprie offese. Moscovici, esponente socialista che da giovane si dichiarava trotskista e comunista rivoluzionario, anziché occuparsi dei conti pubblici di Parigi, che nei prossimi mesi tornerà a sfondare la soglia del 3% nel rapporto deficit/Pil, ha dichiarato che l'Italia «è un problema per l'eurozona». E, per chi non avesse capito bene, ha aggiunto: «È assolutamente l'Italia il tema su cui voglio concentrare la mia attenzione prima di tutto». Poi, interpellato sui populisti in Europa, la terza bordata: «C'è un clima che assomiglia molto agli anni '30. Certo, non dobbiamo esagerare, chiaramente non c'è Hitler, forse dei piccoli Mussolini...». Ma a Moscovici non è sembrato ancora abbastanza, e, passando all'immigrazione, ha avvisato Matteo Salvini così: «L'Italia ha il ministro più nazionalista, e al tempo stesso è il Paese che avrebbe maggiore bisogno di solidarietà da parte dei partner Ue». Ricapitoliamo: per cominciare, un paragone insultante riferibile a Orban e - senza forse - allo stesso Salvini. Poi, una minaccia neanche tanto velata sull'immigrazione, del tipo: o vi allineate sul resto, oppure dall'Ue non verrà alcun aiuto. E infine, una chiara espressione di ostilità alla vigilia del varo della manovra, una specie di pistola rumorosamente sbattuta sul tavolo prim'ancora che inizi il confronto tra Roma e Bruxelles su caratteristiche e peso della legge di bilancio. Vale peraltro la pena di ricordare meglio chi sia l'uomo politico che ha pronunciato espressioni così gravi (e così grevi). Prima di diventare commissario Ue nel 2014, Moscovici era stato ministro delle Finanze in Francia, sotto la presidenza di François Hollande. In quella veste, a metà 2012, si era impegnato solennemente davanti all'allora commissario economico Ue, Olli Rehn, a tornare sotto la soglia del 3% già nel 2013. Cosa che invece non accadde - badate bene - per dieci anni consecutivi, dal 2007 fino a tutto il 2016, inclusi i due anni di governo di Moscovici. L'Ue, però, fu ultraclemente con Parigi, a cui vennero dati altri 24 mesi per mettersi in regola: ma la Francia continuò a sforare allegramente, arrivando ben sopra il 4% nel 2014 e poco sotto il 4% nel 2015. Peraltro, il debito pubblico francese non è affatto sotto controllo, essendo al 96-97% del Pil transalpino. Sulla base di queste «credenziali», Moscovici se la prende con l'Italia, uno dei Paesi fondatori dell'Unione, e soprattutto un contribuente netto, visto che l'Italia dà ogni anno all'Ue molto più di quanto riceva (14 miliardi contro 11 circa). Quanto all'immigrazione, la cosa si fa addirittura offensiva, se si considera che quest'anno l'Italia ha speso tra i 4,6 e i 5 miliardi di euro per l'accoglienza (ben più del gettito della vecchia tassa sulla prima casa, per capirci) ricevendo in cambio la miseria di 80 milioni. Il primo a rispondere a Moscovici è stato Luigi Di Maio, che ha definito «veramente insopportabili» le affermazioni del francese. «Dall'alto della loro Commissione», ha aggiunto, «si permettono di dire che in Italia ci sono tanti piccoli Mussolini. Non solo non si devono permettere, ma questo dimostra come queste siano persone totalmente scollegate dalla realtà». Reazione dura, certo: peccato che forse la tracotanza di Moscovici sia stata involontariamente incoraggiata anche dal contributo fornito dagli eurodeputati grillini, il giorno prima, alla messa sotto processo di Orban. Matteo Salvini è stato ancora più netto: «Il commissario Ue Moscovici, anziché censurare la sua Francia che respinge gli immigrati a Ventimiglia, ha bombardato la Libia e ha sforato i parametri europei, attacca l'Italia e parla a vanvera di tanti piccoli Mussolini in giro per l'Europa. Si sciacqui la bocca prima di insultare l'Italia, gli italiani e il loro legittimo governo». La cosa tragicomica è che, mentre Moscovici parlava, veniva sempre da Parigi un annuncio clamoroso - e per molti versi surreale - da un Emmanuel Macron in drammatica crisi di consenso e in cerca di qualunque espediente per risalire la china: «Entro il 2020 la Francia avrà il reddito universale di attività», ha detto l'inquilino dell'Eliseo. Quindi, la linea del governo francese è: porti chiusi (come Salvini) e reddito di cittadinanza (come i grillini). Però i «cattivi» sono i governanti italiani.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/insulti-francesi-siete-un-guaio-per-leuro-2604669805.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lega-e-5-stelle-litigano-su-8-miliardi-e-pure-moavero-si-e-stufato-dellue" data-post-id="2604669805" data-published-at="1766426309" data-use-pagination="False"> Lega e 5 stelle litigano su 8 miliardi, e pure Moavero si è stufato dell’Ue Accuse, insinuazioni di dimissioni e smentite. È la terza volta che va in scena lo stesso schema che immancabilmente viene cavalcato dai due quotidiani che più di tutti vorrebbero vedere questo governo spacchettato e magari una parte (ci riferiamo a metà dei 5 stelle) indirizzata tra le braccia del nuovo Pd (senza Matteo Renzi). Così anche ieri le fonti del Mef hanno smentito i litigi tra il titolare del dicastero, Giovanni Tria, e il vicepremier, Luigi Di Maio. Non saranno litigi, ma pizzini sicuramente. D'altronde Tria, da uomo del rigore targato Sergio Mattarella, è diventato adesso arbitro tra la componente gialla del governo e quella blù. Per il Tesoro l'assicurazione da dare a Bruxelles sarebbe quella di non oltrepassare l'asticella dell'1,6% nel rapporto tra deficit e Pil, passando dallo 0,9% del governo Gentiloni appunto all'1,6 per cento. Una flessibilità consistente, pari a circa 12,6 miliardi, che però servirà giusto a tappare l'aumento dell'Iva. L'ipotesi è quella di portare la massa complessiva della manovra a poco più di 20 miliardi. Il che lascia liberi, per gli interventi inseriti nel contratto di governo, circa 8 miliardi. La Lega ha fissato come priorità il taglio delle tasse e l'intervento sulle pensioni con la riforma di quota 100. A spanne i due interventi costano appunto 8 miliardi. Non rimarrebbe nulla per i 5 stelle. Eppure il leader grillino ha ribadito anche ieri l'importanza del reddito di cittadinanza. Che, seguendo lo schema riportato sopra, slitterebbe al 2020. Ma Di Maio vuole avere qualcosa di definito da mettere in campo nella campagna elettorale del maggio 2019, quando si giocherà la fondamentale partita a scacchi del Parlamento Ue (dove Lega e 5 stelle rischiano di sedersi su scranni opposti). Sul problema numeri va aggiunto che il reddito di cittadinanza (se venisse riproposto come da contratto di governo) costerebbe 16 miliardi all'anno. Il che significa che, con la flessibilità concordata con Tria, sarebbe garantito per sei mesi. Nell'altro semestre quei 9 milioni di italiani dovrebbero tornare a lavorare: poco male secondo noi, ma per i conti pubblici sarebbe una situazione ingestibile. Senza contare che l'intero importo andrebbe ad accoppare quota 100 (4 miliardi di costo) e il taglio dell'Irpef (altri 4 miliardi). Si comprende facilmente che, quando i nodi arriveranno al pettine, qualcuno dentro la maggioranza si farà male. Basti pensare che ieri l'Ordine dei commercialisti ha fatto le pulci alla riduzione dell'imposta al 22%: «Numeri alla mano, condividiamo le perplessità espresse da più parti sul rapporto costi-benefici della riduzione al 22% dell'attuale aliquota Irpef del 23% e invitiamo governo e maggioranza a concentrare le risorse su interventi più mirati che possono lasciare veramente il segno, come quelli sulle partite Iva, tenendo però conto dei nostri suggerimenti per non creare pericolosi effetti distorsivi», ha detto Massimo Miani, presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti e degli esperti contabili. Sulla base dei dati delle dichiarazioni fiscali presentate nel 2017, i commercialisti calcolano che la riduzione al 22%, ma, interessando tutti i 30,8 milioni di contribuenti che dichiarano una imposta netta positiva, determina un vantaggio individuale pari a 12,5 euro al mese per i 22 milioni di contribuenti che dichiarano un reddito superiore a 15.000 euro e pari a 7,3 euro al mese per gli 8,8 milioni di contribuenti che dichiarano meno di 15.000 euro di reddito. Insomma, al massimo 150 euro all'anno. Ma questo è un problema che gli italiani si porranno nel 2020, quando arriverà il momento di pagare le tasse. Nel frattempo, sempre che la proposta passi, di acqua sotto i ponti ne sarà transitata molta. Compreso il fatto che potrebbe sopraggiungere qualche novità «compattante». Se il tema Europa dovesse di nuovo esplodere, Lega e 5 stelle potrebbero trovare nuova linfa. D'altronde la mossa del ministro degli Esteri, Enzo Maovero Milanesi, indica un cambio di rotta. E non deve essere intesa come un'uscita in contrasto con le dichiarazioni di Mario Draghi. Ci riferiamo alla risposta che la Farnesina ha dedicato al commissario al Bilancio Ue, Gunther Oettinger, che ieri dopo aver amabilmente conversato con Roberto Fico ha chiesto all'Italia di tappare il buco che provocherà l'uscita di Londra dall'Europa. «L'attuale proposta della commissione europea sul progetto di bilancio pluriennale Ue per il periodo 2021-2027 per l'Italia appare inadeguata perché non risponde a sufficienza alle preoccupazioni e alle attese dei cittadini», ha risposto secco Moavero aggiungendo che «è auspicabile che la commissione sia più coraggiosa nell'individuare fonti aggiuntive per le risorse del bilancio Ue. Non è più giustificato che queste ultime dipendano, prevalentemente, dai contributi versati da ciascuno Stato membro; in questo modo, infatti, si sottraggono risorse ai bilanci nazionali». Le dichiarazioni si saldano con le parole di Draghi. Bilanci a posto e poi, forse, la volontà di ridiscutere gli equilibri europei. Mattarella è d'accordo. Probabilmente anche la Lega. I 5 stelle? Al momento non si capisce... <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/insulti-francesi-siete-un-guaio-per-leuro-2604669805.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="anche-draghi-si-toglie-un-sassolino-le-parole-del-governo-fanno-danni" data-post-id="2604669805" data-published-at="1766426309" data-use-pagination="False"> Anche Draghi si toglie un sassolino: «Le parole del governo fanno danni» Nessuna sorpresa sui tassi, che restano a zero, e nessuna novità neanche sul programma di Quantitative easing, che si dovrebbe chiudere alla fine dell'anno. Fin qui il discorso di ieri del presidente della Bce, Mario Draghi, ha rispettato le attese: ad arrivare un po' a sorpresa sono state le parole dirette al governo italiano. Per il numero uno dell'Eurotower le dichiarazioni fatte negli ultimi mesi da alcuni esponenti politici del nostro Paese hanno creato qualche danno, facendo salire i tassi d'interesse per imprese e famiglie; tuttavia, per la Banca centrale europea restano valide le rassicurazioni del premier italiano e dei ministri dell'Economia e degli Esteri, e cioè che l'Italia rispetterà le regole di bilancio Ue. «I toni dei politici sono cambiati molto spesso negli ultimi mesi; quello che noi stiamo aspettando adesso sono i fatti. E il fatto principale è la bozza della legge di Bilancio e la successiva discussione in Parlamento. Allora i risparmiatori, i mercati finanziari e gli investitori si faranno la loro idea», ha dichiarato Draghi. Il riferimento è allo sforamento del limite del 3% nel rapporto tra deficit e Pil, evocato più volte nel corso dell'estate dai due partiti al governo, Lega e M5s, per finanziare le misure promesse in campagna elettorale. «Sfortunatamente, abbiamo visto che le parole hanno creato qualche danno. I tassi d'interesse sono saliti per le famiglie e per le imprese. Questo non ha tuttavia creato molte ricadute su altri Paesi della zona euro. Resta un episodio sostanzialmente italiano», ha sottolineato Draghi, rispondendo a chi chiedeva se le politiche del governo italiano e il rialzo dello spread possano richiedere misure da parte dell'Eurotower nel 2019 per evitare fenomeni di contagio. «Non abbiamo ancora visto alcun contagio», ha precisato il presidente della Bce. «Il nostro mandato», ha spiegato ancora Draghi, «è la stabilità dei prezzi, e il Quantitative easing è uno degli strumenti con cui lo perseguiamo». E a chi chiedeva se con la fine del Qe l'Italia verrebbe di fatto lasciata a sé stessa, il presidente dell'istituto ha risposto seccamente: «Nel merito, il mandato della Bce non è assicurare che i deficit dei governi siano finanziati in qualsiasi condizione». Sul fronte del costo del denaro, in linea rispetto a quanto dichiarato sia in giugno sia in luglio, l'idea dei vertici dell'Eurotower è che i tassi di riferimento si mantengano sui livelli attuali almeno fino alla fine dell'estate dell'anno prossimo e comunque - recita il comunicato di politica monetaria - «fino a quando sarà necessario». A partire da ottobre il programma di acquisto di titoli procederà a ritmo dimezzato rispetto ai 30 miliardi di euro di settembre, per poi concludersi con la fine dell'anno. Tuttavia, ha rassicurato Draghi, la zona euro ha ancora bisogno di un «considerevole» stimolo da parte della politica monetaria, che quindi resterà espansiva anche dopo la chiusura del Qe a fine anno. Per quanto riguarda le previsioni, la Bce ha confermato le stime sull'andamento dell'inflazione e si attende un tasso dell'1,7% dal 2018 fino al 2020. Sul fronte della crescita, invece, Francoforte ha limato le previsioni relative al Pil dell'area euro, che nel 2018 dovrebbe crescere del 2% - a giugno la stima era del 2,1% - mentre nel 2019 dovrebbe rallentare all'1,8% (contro la precedente stima dell'1,9%), e nel 2020 all'1,7%. Per la Bce «sono aumentate recentemente le incertezze relative al crescente protezionismo, la vulnerabilità dei mercati emergenti e la volatilità dei mercati finanziari». Proprio per via di questi rischi, ha precisato Draghi, saranno ancora necessarie misure di stimolo per sostenere l'inflazione: in ogni caso, per il numero uno della Bce il rialzo dell'inflazione verso il target del 2% dovrebbe continuare anche dopo la fine del programma di Quantitative easing.
Ecco #DimmiLaVerità del 22 dicembre 2025. La deputata di Azione Federica Onori illustra gli ultimi provvedimenti per gli italiani all'estero a partire da novità su Imu e Tari.
La cerimonia di apertura della Coppa d'Africa 2025 a Rabat (Ansa)
Ieri ha preso il via in Marocco la 35ª edizione della Coppa d’Africa delle Nazioni, aperta dal successo 2-0 dei padroni di casa sulle Comore. Un torneo che conferma il crescente livello tecnico, la qualità organizzativa con nove stadi all’avanguardia in vista del Mondiale 2030 e l’ampia competitività tra le squadre.
Il calcio africano ha riacceso i riflettori in Marocco, dove è cominciata la Coppa d'Africa delle Nazioni 2025, torneo che negli ultimi anni ha ampliato pubblico, peso e attenzione ben oltre i confini del continente.
Il torneo, giunto alla 35ª edizione, si è aperto domenica sera con il successo dei padroni di casa contro le Comore e accompagnerà il calcio africano fino al 18 gennaio, quando allo stadio Prince Moulay Abdellah di Rabat si assegnerà il titolo. Un mese intenso, nel cuore della stagione europea, che racconta meglio di qualsiasi slogan come il torneo continentale africano sia ormai diventato - al di là di ogni polemica relativa al calendario - un appuntamento globale, seguito con attenzione anche in Italia e nel resto d’Europa. Nel nostro Paese, la Coppa d’Africa sarà visibile in chiaro ed esclusiva su Sportitalia, che per la seconda edizione consecutiva ha acquisito i diritti, confermando l’interesse crescente anche nel nostro pubblico.
Il format è quello ormai consolidato: 24 nazionali divise in sei gironi, passaggio agli ottavi per le prime due di ciascun gruppo e per le quattro migliori terze. Da lì, eliminazione diretta fino alla finale. La Costa d’Avorio arriva da campione in carica, ma l’impressione è che questa Coppa d’Africa sia più aperta che mai, con un equilibrio diffuso e diverse squadre attrezzate per arrivare in fondo.
Il Marocco, spinto dal fattore campo e da una struttura organizzativa imponente, parte inevitabilmente tra i favoriti. Non solo per i risultati, ma per il contesto: nove stadi, sei città coinvolte e un piano infrastrutturale che guarda già al Mondiale 2030. La Coppa d'Africa 2025 si gioca infatti in impianti che rappresentano il nuovo volto del calcio marocchino, tra arene ultramoderne appena inaugurate e stadi storici rinnovati. Un investimento enorme, non privo di tensioni sociali interne, che però consegna al torneo una cornice di primo livello. Il cuore pulsante della manifestazione è Rabat, con il nuovo Prince Moulay Abdellah destinato a ospitare tutte le partite della nazionale di casa e la finale. Casablanca resta il tempio della tradizione con il Mohammed V, mentre Tangeri chiude il cerchio con l’impianto più grande del Paese. Marrakech, Agadir e Fès completano una mappa che racconta un torneo diffuso e strategico, anche politicamente.
Sul campo, la sensazione è che la Coppa d'Africa di quest'anno non abbia un copione già scritto. L’Egitto si affida ancora una volta alla stella Mohamed Salah, alla ricerca di un titolo che gli è sempre sfuggito e di un riscatto personale dopo le ultime vicissitudini che lo hanno portato ai ferri corti con il Liverpool, mentre la Nigeria si presenta con Victor Osimhen e Ademola Lookman come riferimenti offensivi e l’obbligo di cancellare la delusione per il mancato accesso ai Mondiali. Senegal, Algeria e Costa d’Avorio restano certezze, ma il margine tra big e outsider si è assottigliato. Ed è proprio questo uno dei segreti del fascino della Coppa d’Africa. Accanto alle grandi potenze storiche, emergono squadre capaci di complicare i piani a chiunque. L’Angola arriva da un percorso di qualificazione impeccabile, il Benin e l’Uganda hanno mostrato solidità e organizzazione, mentre Zambia e Guinea Equatoriale rappresentano le classiche mine vaganti. Anche il Mali, pur con qualche incognita legata alla condizione dei suoi uomini chiave, resta una nazionale di grande qualità. Poi ci sono le storie più fragili e simboliche, come Sudan, Zimbabwe o Botswana, per le quali la sola partecipazione è già un traguardo. Contesti difficili, problemi strutturali, crisi interne: la Coppa d’Africa è anche questo, uno specchio fedele di un continente complesso, che trova nel calcio uno spazio di espressione e riscatto.
L’interesse italiano passa inevitabilmente anche dai tanti giocatori impegnati nei nostri campionati. La Serie A e le serie minori forniscono un contributo significativo al torneo, con convocati che vanno dai top club fino alla Serie D. Un filo diretto che spiega perché la Coppa d'Africa non sia più percepita come un evento lontano, ma come una competizione che incide concretamente sul calcio europeo, sugli equilibri dei club e sull’immaginario degli appassionati.
Sette titoli dell’Egitto, cinque del Camerun, quattro del Ghana: l’albo d’oro racconta la storia della competizione. Il Marocco - che avrebbe dovuto ospitare anche il torneo del 2015, ma si ritirò per timori legati all’epidemia di Ebola in alcuni paesi africani - ospita la Coppa d’Africa per la seconda volta nella sua storia, dopo aver organizzato il torneo nel 1988, e punta a bissare l’unico successo della sua storia del 1976, contando sul fattore campo e sul sostegno del pubblico. In ogni caso ora la Coppa d’Africa sembra muoversi in una direzione più precisa rispetto al passato, fatta di equilibrio, infrastrutture rinnovate e una competitività sempre più trasversale. In Marocco si gioca un torneo che non chiede più attenzione per curiosità o emergenza, ma per valore tecnico, organizzazione e impatto reale sul calcio globale.
Continua a leggereRiduci
José Antonio Kast, neo presidente cileno (Ansa)
La vittoria schiacciante di José Antonio Kast al ballottaggio per le elezioni presidenziali del Cile il 14 dicembre scorso consolida l’allineamento del Sudamerica con l’era Trump, dimostrando che l’esasperazione per il crimine e l’immigrazione illegale pesa più delle ideologie del passato. Si può etichettare il voto cileno come nostalgia autoritaria, come stanno facendo in molti? Questa semplificazione eccessiva taglia fuori gran parte della realtà di quei Paesi in cui ciò che emerge è il più chiaro ripudio della sinistra, tra difficoltà economiche e violenza di strada.
Il conservatore (per alcuni, ultraconservatore) Kast ha vinto il ballottaggio con uno squillante 58,16% dei voti, superando nettamente la comunista Jeannette Jara. Questo risultato non è solo un cambio della guardia, dal presidente di sinistra Gabriel Boric al conservatore Kast, ma segna per il Cile un rifiuto storico della sinistra che ha radici profonde.
Kast viene spesso definito di estrema destra, ma la sua elezione è stata accompagnata da toni misurati e concilianti nel discorso di vittoria, volto a rassicurare gli elettori moderati. Il presidente eletto ha promesso di essere un leader conservatore di destra «misurato, ragionevole, sensato e di buon senso», che invita i cileni a lavorare sodo, a rispettare le istituzioni e le regole, con un messaggio ironico e chiaro: «Rendiamo di nuovo il Cile noioso». Nondimeno, il successo elettorale consolida la tendenza che ha visto quasi il 70% degli elettori sostenere candidati di destra al primo turno.
Un fattore cruciale che ha pesato sul risultato elettorale è stata la reintroduzione del voto obbligatorio per le elezioni presidenziali cilene. L’introduzione di questo sistema (con multe dai 30 ai 160 euro a chi non si reca a votare, cifre elevate nel contesto del reddito mensile cileno) ha mobilitato un’ampia fascia dell’elettorato che era generalmente disimpegnata dalla politica e profondamente diffidente nei confronti delle élite politiche. L’affluenza è stata dell’85%, il doppio dell’elezione precedente.
L’obbligo di voto si è rivelato essere chiaramente correlato a uno spostamento dell’elettorato verso destra.
Il vero motore di questa decisa virata non è stato un ritorno ideologico, ma una profonda e diffusa frustrazione popolare nei confronti dell’aumento della criminalità e dell’insicurezza. Il Cile, sebbene rimanga uno dei Paesi più sicuri della regione, è scosso da episodi di violenza e rapine brutali un tempo assai rari. La paura del crimine è diventata la principale preoccupazione dei cileni, con circa il 63% che la considera tale, un dato tra i più alti al mondo.
Gran parte di questo allarme è direttamente collegato all’afflusso di immigrati irregolari, in particolare dal Venezuela, con la popolazione residente nata all’estero che ha raggiunto circa il 10%, rispetto al 2,1% del 2010. Una vera e propria esplosione, cui è correlato un aumento della criminalità.
L’arrivo di violente bande transnazionali come il Tren de Aragua, originaria del centro penitenziario di Tocorón in Venezuela e coinvolta in rapimenti a scopo di estorsione, omicidi, tratta di esseri umani e torture, ha introdotto nel Cile reati un tempo sconosciuti.
Kast, cogliendo in pieno il sentimento anti immigrazione e le richieste di mano dura contro il crimine, ha promesso un governo di emergenza poiché il Paese «cade a pezzi». La sua agenda di sicurezza è intransigente e si ispira apertamente al modello adottato dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che gode di un indice di popolarità positivo tra oltre il 70% dei cileni. Da quando Bukele è entrato in carica (nel 2019) gli omicidi nel Salvador sono diminuiti del 90%. Come? Arresti di massa, sospensione di alcuni diritti costituzionali, una mega prigione di massima sicurezza.
Le promesse di Kast in questo senso non sono da meno e includono la militarizzazione della frontiera settentrionale con la costruzione di fossati, muri e recinzioni elettriche per contrastare l’immigrazione clandestina e i traffici. Il suo approccio è chiaro e afferma che i migranti irregolari dovranno andarsene o saranno espulsi. In un avvertimento diretto, Kast ha detto agli immigrati irregolari che possono andarsene «con i soli vestiti che hanno addosso», o saranno detenuti ed espulsi in seguito senza i loro averi.
Kast ha strategicamente evitato di porre i suoi valori sociali da fervente cattolico padre di nove figli (come l’opposizione all’aborto e al matrimonio omosessuale) al centro della campagna. Ma il ricordo del passato autoritario non è lontano, in Cile, come evidenziato dalla sua dichiarazione secondo cui l’ex dittatore Augusto Pinochet «voterebbe per me se fosse vivo». Una dichiarazione che risale a quasi dieci anni fa, ma che ancora pesa nel dibattito. Voci insistenti dicono che il padre di Kast, tedesco emigrato in Cile nel 1950 all’età di 26 anni, abbia fatto parte del Partito nazista tedesco. Tutti elementi che hanno scandalizzato la sinistra ma che non hanno influito sul consenso alle elezioni.
I sondaggi rivelano che gli elettori di Kast mostrano alti livelli di nostalgia autoritaria, con circa il 50% tra i suoi sostenitori che si dichiara d’accordo con l’idea che se i politici cileni seguissero gli ideali di Pinochet, il Paese recupererebbe il suo posto nel mondo. Questa «nostalgia» (che raggiunge il 30% dell’elettorato totale in Cile) è significativamente più alta dell’analoga «malinconia per il franchismo» registrata anche recentemente in Spagna (circa il 15% nel 2023).
Dall’altra parte, la candidata sconfitta Jeannette Jara, membro del Partito comunista fin dall’età di 14 anni, difendeva un modello sociale contestato ed era strettamente associata al governo uscente di Gabriel Boric, che ha registrato tassi di approvazione bassi (intorno al 30%) ed è stato percepito come inefficiente e incapace di affrontare la crisi di sicurezza.
Il Cile è strategicamente cruciale: è il primo produttore mondiale di rame e detiene circa un terzo delle riserve globali di litio, materiali indispensabili per l’elettrificazione e le tecnologie di difesa. Kast, la cui piattaforma economica è vigorosamente pro mercato, ha promesso un taglio dell’imposta sulle società (dal 27% al 23%), una drastica riduzione della spesa pubblica di 6 miliardi di dollari in 18 mesi e una crescita economica annua del 4%.
Mentre il Cile, anche sotto Boric, aveva lanciato la sua Strategia nazionale del litio per aumentare il controllo statale, la nuova amministrazione si troverà nel mezzo della competizione tra Stati Uniti e Cina per le risorse critiche. Sebbene la Cina sia il principale partner commerciale del Cile, gli Stati Uniti stanno aumentando la pressione per costruire una catena di approvvigionamento di litio slegata dalla lavorazione cinese. L’elezione di Kast segnala che il Cile è pronto a schierarsi con l’ondata conservatrice e pro mercato che sta rimodellando il continente sudamericano, promettendo ordine e prosperità in un’alleanza strategica con Washington.
Primo per il rame, secondo per il litio. Ma il tesoro di Santiago costa troppo
Con l’ascesa di José Antonio Kast il Cile non è solo un laboratorio politico della nuova destra sudamericana, ma anche il fulcro della competizione globale per i minerali critici. La sua immensa ricchezza geologica, fatta soprattutto di rame e dal litio, è la posta in gioco nella rinnovata rivalità tra Stati Uniti e Cina, che cercano di assicurarsi le forniture essenziali per la transizione energetica e le tecnologie di difesa.
Il Cile è da tempo un pilastro del settore minerario globale. È il primo produttore mondiale di rame, con una produzione che nel 2024 rappresentava circa il 24% dell’offerta mondiale, e detiene circa il 31% delle riserve globali del metallo. Per quanto riguarda il litio, il Cile è il secondo produttore globale e le sue vaste saline, come il Salar de Atacama, contengono circa un terzo delle riserve mondiali. Le salamoie cilene sono rinomate per le loro concentrazioni eccezionalmente elevate, che superano le 7.000 parti per milione.
Questa abbondanza di risorse ha reso il Cile un obiettivo strategico per entrambe le superpotenze. La Cina è il principale partner commerciale del Cile, arrivando a essere la destinazione del 66% delle esportazioni minerarie cilene nel 2024. La società cinese Tianqi detiene una partecipazione significativa (tra il 22% e il 24%) in Sqm (Sociedad Química y Minera), uno dei maggiori produttori di litio del Paese.
L’amministrazione Trump, che considera l’emisfero occidentale la sfera di influenza degli Stati Uniti, sta cercando di contenere questa penetrazione. Gli Stati Uniti intendono costruire una catena di fornitura di litio che sia indipendente dalla lavorazione cinese. A tal fine, Washington sfrutta l’accordo di libero scambio (Fta) con il Cile, offrendo alle esportazioni cilene di litio la possibilità di beneficiare di agevolazioni fiscali previste dalla legislazione statunitense. Un incentivo inteso a incoraggiare Santiago a uscire dalle catene di fornitura cinesi.
Il precedente governo di sinistra di Gabriel Boric aveva inaugurato una Strategia nazionale del litio. L’obiettivo era raddoppiare la produzione di litio in dieci anni e creare una Compagnia nazionale del litio statale. Il perno di questa strategia è stato l’accordo per una joint venture tra l’azienda statale Codelco e Sqm per lo sfruttamento del Salar de Atacama, con Codelco che avrebbe ottenuto la maggioranza (50% più un’azione) a partire dal 2031. Questo accordo era finalizzato a limitare l’influenza della cinese Tianqi in Sqm.
Tuttavia, l’approccio di Boric ha generato un intenso dibattito per la mancanza di trasparenza (trattativa diretta anziché gara d’appalto). Inoltre, i progetti per attrarre la lavorazione a valle (come gli impianti di catodi e batterie con Byd e Tsingshan) sono stati sospesi a causa del calo dei prezzi del litio e dei ritardi normativi, evidenziando i limiti dell’utilizzo degli investimenti diretti dall’estero per il rilancio industriale.
Il presidente eletto Kast, che ha più volte lodato Donald Trump, si muoverà in direzione opposta, promettendo un approccio chiaramente favorevole al mercato per incoraggiare gli investimenti. Il suo consulente economico, Jorge Quiroz, ha negato l’ispirazione diretta da Javier Milei, ma l’agenda è fortemente improntata a un liberismo fiscale e regolatorio.
Kast ha promesso di ridurre l’aliquota dell’imposta sulle società dal 27% al 23%. Inoltre, intende semplificare i permessi per i progetti, un’azione fondamentale dato che l’autorizzazione mineraria in Cile può richiedere dagli 8 agli 11 anni. Kast ha anche in programma di verificare le finanze e le operazioni di Codelco, un passo che riflette il suo orientamento anti statalista e la critica verso la precedente gestione.
Nonostante l’attrattiva del Cile, la corsa allo sfruttamento delle risorse è ostacolata da ostacoli normativi e sociali, riassunti nel trilemma minerario: sicurezza nazionale, fattibilità economica e sostenibilità.
Uno dei problemi più acuti è il conflitto socio-ambientale, che ha visto i contenziosi legati all’estrazione mineraria in Cile quasi quadruplicare tra il 2000 e il 2020. La principale fonte di preoccupazione è l’elevato consumo di acqua nell’estrazione, in particolare di litio, in un contesto di stress idrico in regioni aride come Atacama.
Inoltre, sebbene il Cile abbia cercato di attirare investimenti, le sue attuali royalty per il litio (circa il 40%) sono significativamente più alte rispetto ai regimi aperti al mercato di altri Paesi come l’Argentina (che applica una royalty del 3%), rendendo Buenos Aires una destinazione più attraente per gli investimenti.
Oltre alla grave questione della criminalità, il successo di Kast dipenderà dalla sua capacità di affrontare questi difficili problemi. L’allineamento ideologico del neopresidente con Washington è chiaro, ma la vera prova sarà se il suo governo riuscirà a convertire la vasta ricchezza geologica del Cile in stabilità duratura.
Continua a leggereRiduci
Il presepe allestito a Chicago. Gesù bambino con le fascette ai polsi in segno di protesta contro l'ICE di Trump
Lo scrittore Giovannino Guareschi se ne costruì uno di cartone nel lager dov’era internato. Il nonno e il padre di Pupi Avati rischiarono di farsi fermare dai nazisti, nel Natale 1943, pur di reperire il materiale per allestirlo per quel bimbo che un giorno avrebbe fatto il regista. La poetessa Alda Merini ricordava con nostalgia di quando, fanciulla, «pregava davanti alla statuina» di Gesù. C’è poco da fare: il presepe è nel cuore degli italiani. Che, nonostante il vento della secolarizzazione, continuano a prepararlo nelle loro case. Purtroppo la riproduzione della Natività è però anche soggetta, ormai da diversi anni, a manipolazioni ideologiche di non poco conto, che piegano l’allestimento della grotta di Betlemme dove nacque il Bambinello a istanze immigrazioniste, pro Lgbt e chi più ne ha più ne metta.
Quest’anno in Italia il primato della creatività, si fa per dire, l’ha avuto don Vitaliano Della Sala, il quale in una chiesa a Capocastello di Mercogliano, Avellino, ha predisposto un presepe per «Gesù Bambina». «Voglio far discutere, lanciare un messaggio, la Chiesa deve trasformarsi», ha dichiarato il sacerdote da anni protagonista di iniziative di tenore provocatorio, «ho pensato di mettere nel presepe Gesù femmina perché dobbiamo avviare una discussione sul ruolo delle donne, servono donne sacerdoti, Dio si incarna anche nelle donne, io non sono contro il presepe, ma lo reinterpreto». Ecco, che don Della Sala «reinterpreti» il presepe non c’è dubbio; viene però da chiedersi se davvero sia così originale «reinterpretarlo», dato che lo si fa ormai quasi ovunque.
Si guardi per esempio alla Grand-Place, la piazza centrale di Bruxelles, dove quest’anno è stato allestito un presepe «inclusivo» ideato dell’architetto d’interni Victoria-Maria Geyer nel quale, al posto dei volti delle statuine principali, ci sono pezzi di stoffa multicolore per creare, appunto, «un mix inclusivo di tonalità della pelle». Ancora più creativi sono stati presso la Lake Street Church, a Chicago, dove si è pensato bene di predisporre un presepe per protestare contro le azioni di rimpatrio dell’Ice, l’agenzia federale per l’immigrazione. Per questo San Giuseppe e Maria sono presentati con una maschera antigas e Gesù Bambino con le mani legate da una fascetta, sdraiato su una coperta termica, mentre attorno a loro vigilano centurioni moderni, dotati di occhiali scuri e gilet verdi con la scritta «Ice».
Michael Dorgan di Fox News ha puntualizzato che le fascette sui polsi di Gesù Bambino «fanno riferimento diretto ai bambini che sono stati legati con le fascette dagli agenti durante un raid in un condominio di Chicago all’inizio di quest’anno». Sta di fatto che, stavolta, l’America non ha inventato nulla. Già dieci anni or sono, infatti, in Italia si allestivano allegramente presepi «rivisitati» per inneggiare all’accoglienza. Il riferimento è al presepe allestito nel 2015 all’interno del Tempio civico di Busto Arsizio: raffigurava immagini di profughi in cammino, padri e madri con bambini in braccio, barconi in mare e, al posto Gesù Bambino, in attesa della notte santa era stata deposta la foto di una mamma siriana. Per rafforzare il messaggio, l’anno successivo nel presepe preparato alla Casa della Carità via Brambilla, a Milano, si potevano vedere - alle spalle di Maria, Giuseppe e del Bambinello - decine di passaporti da ogni parte del mondo e di diversi colori, alcuni nuovi altri sgualciti a seguito delle traversie dei viaggi compiuti dai proprietari.
Quei primi tentativi di adattare la Natività alla causa immigrazionista hanno fatto scuola. Lo si è visto nei tanti presepi «per l’accoglienza» allestiti negli anni successivi, a partire da quello visto nel 2017 in piazza Zapelloni a Castenaso, nel Bolognese: il presepe - realizzato sulla base di un’idea venuta all’allora sindaco della cittadina emiliana, Stefano Sermenghi - vedeva l’inserimento di un gommone. E non per suggerire l’idea che Maria e Giuseppe potessero sognare vacanze marittime, bensì, come precisato da Sermenghi, per lanciare un segnale in favore di «un’accoglienza positiva nei confronti di chi arriva». Da allora in avanti la stessa idea del gommone è divenuta oggetto di rivisitazioni. Nel 2018 infatti a Trento, per l’esattezza davanti alla chiesa del Santissimo in via Corso 3 Novembre, la famiglia di Gesù si è trovata ospitata su una zattera; nel 2020 nel piazzale della chiesa di San Massimo, in via XX Settembre a Collegno, Torino, la Natività è invece stata accolta su un già più robusto barcone. Evoluto poi, nel 2022, in imbarcazione delle Ong, nel presepe allestito sul sagrato della parrocchia di San Bartolomeo della Beverara, quartiere Navile a Bologna.
Sbaglierebbe chi ritenesse però le rivisitazioni della grotta di Betlemme dove nacque il Bambinello possibili solo in chiave immigrazionista. C’è infatti, da tempo, anche la variante arcobaleno. Una delle prime in assoluto fu quella realizzata nel lontano 2012 in Colombia dall’analista politico Andrés Vásquez Moreno e dall’imprenditore Felipe Cárdenas Gonzalez, i quali - uniti civilmente allora da quattro anni - l’avevano allestita nella loro abitazione di Cartagena de Indias per sponsorizzare la legalizzazione del matrimonio gay; effettivamente arrivata, con una sentenza della Corte costituzionale, nel 2016. L’anno dopo, nel 2017, un altro presepe gay con due san Giuseppe vestiti ambedue di rosa fu poi postato su Twitter - attribuendolo all’inventiva dei suoi vicini di casa - dalla comica queer Cameron Esposito, «raggiante» per quell’avvistamento.
Manco a dirlo, il presepe Lgbt è da tempo presente anche da noi. Uno con «due mamme», per esempio, lo aveva allestito nel 2023 il già citato e infaticabile don Della Sala, sempre lui, di fatto eliminando - forse in omaggio alla lotta al patriarcato, chissà - la figura di San Giuseppe. Analogamente, lo stesso anno il partito politico +Europa aveva pubblicato sui suoi social un’immagine che ritraeva diverse natività alternative: tra queste una con due uomini e una con due donne, ma anche un’immagine di una ’mamma single’ e un’altra con una coppia bianca e un bambino nero. Il tutto accompagnato dalla scritta: «Il bello delle tradizioni è che possono cambiare».
Un’idea che non è chiaro quali consensi abbia portato a +Europa, di certo gli ha fatto perdere un’iscritta, uscita dal partito sbattendo la porta. Si tratta di Anita Likmeta, imprenditrice e scrittrice italiana nata in Albania, che su Facebook aveva reagito con queste parole alle manipolazioni del presepe: «Se +Europa pensa di difendere la diversità con ammiccamenti ipocriti alla tradizione, io per il ruolo della Madonna lesbica non sono disponibile. Addio a +Europa e buon suicidio politico (non assistito)!». La chiosa non sarà piaciuta a Marco Cappato, grande sostenitore della morte assistita, ma certo era graffiante. Proprio come graffiante, almeno nelle intenzioni dei collettivi studenteschi che l’avevano allestito nel 2015 a Torino, doveva essere un presepe «anti Lega» che ritraeva rispettivamente Matteo Salvini e Carlo Giovanardi come asinello e bue con accanto l’ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota nei panni di «pecorella» a vegliare su un Bambinello di colore con due Giuseppe. In quel caso, ci fu dunque una tragica sintesi della politicizzazione del presepe, della sua «reinterpretazione» sia in chiave Lgbt sia pro migranti. Un piccolo grande capolavoro ideologico, da allora mai più replicato. Sempre con un occhio all’ideologia, quest’anno l’Istituto di studi teologici e storico-sociali di Terni ha adagiato Gesù in una mangiatoia di colore rosso per richiamare «la lotta ai femminicidi». C’è invece chi i presepi li distrugge: è il caso del gruppo di ragazzi che ha vandalizzato quello allestito nella piazza centrale di Carnago, in provincia di Varese, per poi vantarsene sui social.
La tradizione inizia da san Francesco
Tutti, o comunque molti, sanno che il presepe è una invenzione di san Francesco d’Assisi. Meno nota risulta invece la storia che ha portato il Poverello a questa rivoluzionaria iniziativa, che da secoli attraversa la storia d’Italia e della cristianità, delle quali è divenuta un simbolo, in particolare durante il periodo natalizio. Da quanto riportano più fonti, tutto ebbe inizio da un viaggio in Terra Santa compiuto dall’Assisiate nel 1223. Un pellegrinaggio che gli lasciò dentro, una volta rimpatriato, il desiderio di realizzare qualcosa che rievocasse Betlemme; un desiderio che egli sentì di poter trasformare in realtà in un luogo che proprio Betlemme gli ricordava, vale a dire Greccio.
Peraltro, a Greccio Francesco sapeva di poter contare su un’amicizia significativa: quella col signore e castellano locale, il nobile Giovanni Velita. Secondo quanto riferiscono le Fonti francescane, circa due settimane prima della solennità natalizia il Poverello - galvanizzato anche dal fatto che poco prima, il 29 novembre, da papa Onorio III con la bolla Solet annuere aveva dato l’approvazione della Regola scritta per i confratelli - convocò Velita dandogli disposizioni ben precise. «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù», furono le parole dell’Assisiate - che anche per questa iniziativa aveva richiesto e ottenuto una approvazione papale -, «precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».
Da quanto ci è dato sapere, il signore di Greccio - servendosi d’una nicchia naturale - non realizzò propriamente un «presepe vivente», limitandosi a predisporre una greppia, colma di fieno, il bue e l’asino. Tuttavia, pare che l’impegno sia stato apprezzato anche dal Cielo che proprio la notte del 24 dicembre sembra abbia mandato in quel di Greccio una forte nevicata. Fu così quella santa notte si narra si sia creata una atmosfera incantevole e fiabesca, col bosco illuminato dalle fiaccole dei fedeli e dei frati accorsi per ammirare il presepe che, con tutte quelle presenze, di fatto sì divenne a tutti gli effetti «vivente». La cosa colpì molto i religiosi e lo stesso Poverello ne fu estasiato. «In quella scena commovente», ebbe infatti a commentare, «risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme».
Va però precisato come quello realizzato da Giovanni Velita, più che un presepe in senso oggi comune, fosse una primigenia rappresentazione della Natività. Dunque, si potrebbe dire - per quanto indubbiamente riuscito - solo un primo e parziale esperimento, rispetto a quello che poi sarebbe divenuto il simbolo tanto caro agli italiani. Una svolta maggiore in tal senso la si è avuta quando, circa 70 anni più tardi rispetto a quella «prima volta» di Greccio, papa Niccolò IV, il primo pontefice francescano, commissionò allo scultore Arnolfo di Cambio quello che è ritenuto il primo presepe artistico in marmo della storia, creato per la Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Un piccolo grande capolavoro ancora oggi conservato e visibile, ma che senza dubbio non sarebbe mai stato realizzato se, come dicevamo, decenni prima san Francesco d’Assisi non avesse maturato un desiderio e, in definitiva, un progetto che avrebbe segnato una svolta epocale.
«L’incarnazione di Dio è un mistero che non ha bisogno di aggiunte»
Non c’è modo migliore per provare a capire il fenomeno dei «presepi manipolati» che provare a parlare con un intellettuale che ben conosca anche la storia e i contributi sociali del cristianesimo. La Verità ha contattato Giacomo Samek Lodovici, professore associato di filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano nonché autore di più di 70 contributi scientifici - di etica fondamentale, di etica applicata, di antropologia filosofica -, di sei monografie e di testi proprio legati al tema, come Cristianesimo: ti siamo tutti debitori (Ida 2019).
Professore, ogni anno assistiamo a tentativi di «reinterpretare» il presepe, per renderlo più inclusivo, per così dire, verso le minoranze, siano esse gli immigrati o le persone Lgbt. Come giudica queste iniziative?
«Premesso che non posso giudicare le intenzioni di chiunque modifica il presepio, io non sono favorevole: queste versioni del presepe, come minimo, annacquano la sua finalità. L’inventore del presepe, cioè san Francesco, mise in scena il primo presepe vivente per aiutare la gente a comprendere in modo concreto il significato del Natale. Lo scopo del presepe è rammemorare, contemplare, e a qualcuno far conoscere per la prima volta, o comunque molto meglio, la nascita di Cristo, la nascita del Dio incarnato. Il presepe “attualizzato” viene, almeno in parte, depauperato del suo significato religioso. Talora viene trasformato in uno strumento politico».
Cosa non comprendono del presepe quanti ne presentano versioni «aggiornate»?
«Io non posso mettermi nella loro testa, però molti mi sembra che non colgano che questi presepi distolgono l’attenzione verso altri temi, giusti o sbagliati che siano, invece che concentrarla sull’inesauribile profondità del tema centrale del presepe: Cristo è vero Dio e vero uomo. Per farsi un’idea dell’inesauribilità di questo tema basti citare un solo esempio tra i tanti possibili: la terza parte della Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino. E la nascita di Gesù ha un ben preciso motivo, anch’esso da contemplare all’infinito: Cristo si incarna per poi versare il suo sangue per amore smisurato verso ogni persona, lasciandosi flagellare e crocifiggere. Ce n’è abbastanza per soffermarsi interminabilmente sul presepe, senza aggiungere altri temi».
La statuina di Gesù Bambino rappresenta solo, si fa per dire, un ornamento religioso o testimonia un elemento di civiltà?
«Il cristianesimo, a volte tradito da pessimi cristiani, ha introdotto per primo nella cultura, o ha rinforzato, alcuni cruciali concetti generatori di umanesimo e civiltà. Ad esempio il cristianesimo ha introdotto l’affermazione della dignità di ogni essere umano, anche delle donne. I Greci negavano la dignità alle donne, ai bambini, agli stranieri e giustificavano la schiavitù. Invece il cristianesimo include tutti nel gruppo degli esseri umani dotati di dignità incommensurabile. Gli stoici hanno sì riconosciuto l’uguaglianza di ogni uomo, però hanno sminuito la dignità umana per vari motivi lunghi da riassumere. Questo lascito del cristianesimo circa la dignità umana lo conferma anche Nietzsche, certo non sospettabile di simpatie cristiane, che critica l’affermazione cristiana della dignità umana; altri autori atei o agnostici invece l’hanno molto apprezzata, per esempio Karl Popper e Jürgen Habermas. Ma potrei menzionare altri concetti decisivi introdotti o valorizzati dal cristianesimo».
Quali? Alcuni esprimono inclusività?
«Per esempio la doverosità della premura verso tutti i malati - non solo verso quelli del proprio gruppo, religione, eccetera -, la doverosità della solidarietà verso tutti i poveri - non solo verso quelli del proprio gruppo, religione, eccetera - e la doverosità della sollecitudine verso tutti coloro che subiscono oppressioni e ingiustizie. Ma non sono stato minimamente esaustivo sui concetti cruciali che il cristianesimo ha introdotto o rinforzato; talora - lo ripeto - tradito da pessimi cristiani».
Quali valori invece discendono, per così dire, dalle statuine - e in definitiva dalle figure - di Maria e Giuseppe?
«Sui valori incarnati dalla Madonna e contemplabili già nel presepe ci sono interi trattati. Mi limito solo a un punto: l’eccezionale valorizzazione di una donna rilevata anche da un ateo come Jean-Paul Sartre, in una sua opera teatrale di Natale. Ecco in che modo egli descrive come mettere in scena la Natività, che si può contemplare nel presepe: «La Vergine guarda il bambino […], il Cristo è suo figlio, carne della sua carne […]. L’ha portato in grembo per nove mesi, gli offrirà il seno, e il suo latte diventerà il sangue di Dio. […] Lo stringe fra le braccia e dice: “Bambino mio”». E, prosegue Sartre, Maria pensa: “Questo Dio è mio figlio. È fatto di me, ha i miei occhi, la forma della sua bocca è la mia, mi assomiglia. È Dio e mi assomiglia. Nessuna donna ha mai potuto avere in questo modo il suo Dio”. Quanto a san Giuseppe, anche qui senza poter essere esaustivo, egli incarna svariati valori, contemplabili nel presepio e a partire dal presepio: la fede in Dio, l’obbedienza a Dio, la fortezza, la premura e la responsabilità verso Maria e Gesù, l’umiltà silenziosa, la laboriosità».
Inoltre la presenza di pastori, di Re Magi e altre figure testimonia come il presepe sia costitutivamente «inclusivo», senza bisogno di adattamenti di sorta. Concorda?
«Sì, perché i pastori sono dei poveri e i Magi sono personaggi stranieri che rappresentano tutti i popoli e quindi si può contemplare nel presepe che Gesù non è venuto solo per qualcuno, ma per tutte le persone della Terra».
Continua a leggereRiduci