2022-07-08
Insiste sulla cittadinanza chi ha sempre sminuito il valore di essere italiano
Curiosamente, la parte politica che spinge per concedere passaporti è quella che osteggia maggiormente i concetti di patria e confini, bollandoli come sovranisti. Le grandi chiacchiere sullo ius soli, sempre pronte a riemergere quando occorre, sembrano ruotare intorno a un punto cieco, come anche d’altronde le molte chiacchiere di segno opposto. Il punto cieco è la questione della cittadinanza come tale, sul cui valore e significato le idee appaiono molto confuse o addirittura assenti, e non solo sul fronte «immigrazionista». È come se il dibattito politico sullo ius soli fosse monopolizzato dallo scenario - felice per una parte e orrifico per un’altra - di un Paese dove la popolazione etnicamente non italiana è destinata a crescere. Ma che cosa significa «cittadinanza» al di là del traguardo miope della tessera elettorale, che è poi la ragione principale delle campagne di reclutamento dei «nuovi Italiani»? È da notare, intanto, che i partiti politici che più insistono sulla concessione precoce della cittadinanza agli stranieri (alla nascita, dopo le scuole elementari eccetera) sono quelli a cui la cittadinanza italiana come «status identitario» o culturale interessa di meno: sono infatti gli stessi che aspirano, nelle parole e nei fatti, a un mondo «senza bandiere e senza confine», cioè senza cittadinanze di sorta, sono gli stessi che elogiano il cosmopolitismo radicale - possibilmente in lingua inglese - e il «taglio» delle radici, e vedono nel concetto di nazione un obbrobrio sovranista. Curioso: la fretta di concedere la cittadinanza è inversamente proporzionale al valore, al significato attribuito alla cittadinanza stessa. L’Italia post-bellica ha d’altronde una lunga storia di internazionalismi anti-italiani: da quello comunista, che guardava a Mosca, a quello cattolico-democristiano, ancorato nella Madre Chiesa, cattolica cioè universale, a quello liberaldemocratico, infatuato dei modelli anglosassoni. L’Italia non si ama, è noto, e l’Italiano si detesta, fino a casi limite di compiaciuta autodenigrazione che non trovano alcun equivalente oltre i confini nazionali. Non è però soltanto un fenomeno italiano, questa allergia per la «nazione», ed è anche troppo facile intenderla come il marchio di fabbrica del globalismo. Sul piano dell’immaginario collettivo ha avuto un certo peso, negli anni ormai non più recenti delle imprese spaziali, la foto celebre della Terra vista dallo spazio: il Pianeta Azzurro in tutta la sua lucente, variegata bellezza di globo terracqueo, bianco (le nuvole), azzurro appunto (gli oceani), e bruno (le terre emerse). Foto «iconica» come poche altre, e di grande popolarità negli anni Ottanta soprattutto: la si vide un po’ dappertutto, come locandina di seriosi convegni organnizati dalla Compagnia di Gesù, o sulla copertina originale di un saggio di Hans Küng, Projekt Weltethos Progetto per un’etica mondiale, 1990, che traduceva nel linguaggio di un’etica blandissimamente cristiana l’idea newageana della Terra come madre comune, sempre in quegli anni mitizzata come Gaia, la Madre Terra. Non furono in pochi, anche tra gli intellettuali più scaltriti (Peter Sloterdijk ad esempio), a constatare l’ovvio: che in quell’immagine del pianeta azzurro non si vedevano confini politici e bandiere. Conclusione un po’ affrettata: i confini e le bandiere sono un artefatto, anzi un raggiro, che tradirebbe la comune appartenenza, o fratellanza universale. A dire il vero nell’immagine del pianeta azzurro non si vedono tracce umane (l’unico artefatto visibile ad alta quota è la Grande Muraglia cinese). Ma allora dovremmo concluderne che la stessa presenza umana sulla terra è un raggiro, un abuso? Spazziamola via e non se parla più? È evidente il grossolano carattere antistorico di queste sommarie considerazioni «globaliste»: sommarie ma non prive di una loro pressante attualità, se si considera con quanta antipatia la presenza umana sulla terra è vista dai movimenti «antispecisti», come anche, all’altra estremità dello spettro, dai movimenti «transumanisti», annoiati dall’umano troppo umano e proiettati verso un umano tecnologico. E invece no. La presenza umana sulla terra si articola, si distribuisce molto presto in un mosaico di etnie, di lingue, di culture, nomadi e stanziali. Nel linguaggio della Bibbia è l’umanità post-babelica, dove la varietà delle lingue è un motivo di conflitto e al tempo stesso una formidabile ricchezza. Né la varietà linguistica va affidata alle premure museali dell’Unesco, come se le lingue minori fossero specie in via di estinzione: va affidata alle lingue stesse e al loro intrinseco dinamismo, alla loro capacità di sedimentarsi in testi, in letteratura. E si arriva così a un punto cruciale: se la definizione dell’identità «nazionale», e perciò della cittadinanza come appartenenza a quella identità, è molto ardua sul piano etnico, e nel caso dell’Italia estremamente problematica, è invece molto più facile raggiungerla sul piano della lingua. Poco meno di otto secoli fa i circoli siciliani intorno a Federico II e i letterati bolognesi usavano - oltre al latino - una lingua «volgare» più o meno comune, pur tra le molte varianti. E quella lingua è il fondamento prezioso della nazione culturale. Si parla qui di «nazione culturale» perché lo Stato-nazione è un’altra cosa. Oltre ad essere, nel caso italiano, un approdo recente - e anche non poco eterodiretto - è anche, più in astratto, un’entità discutibile: un’invenzione moderna, esaltata nell’800 romantico allo scopo - non si può negarlo - di scardinare le vecchie entità sovranazionali (gli Imperi, possibilmente legittimi). L’Italia contro l’impero austro-ungarico, la Grecia contro l’impero ottomano. Non è dunque il caso di farne l’apologia, tanto più se la nazione si ammala e degenera in nazionalismo aggressivo, e il confine, diventando sacro (i «sacri confini»), evoca il sacrificio e il bagno di sangue. Ma la nazione culturale è altra cosa: era il «bel paese» anche per Dante, in piena frammentazione politica, perché la nazione culturale è una comunità essenzialmente linguistica. È quella «cosa» per cui, anche provando (come chi scrive) un antico amore per il mondo tedesco, varcare il Brennero verso sud significa sentirsi «a casa», anche senza essere veneti o lombardi, ma semplicemente italiani. Perché la lingua anzi il linguaggio è sì la «casa dell’Essere», come scrive Heidegger nella Lettera sull’umanismo, ma è anche, articolandosi nelle molte lingue e idiomi, la casa della nazione, o come diceva splendidamente Andrea Zanzotto, il suo volto glorioso.
Nel riquadro, il chirurgo Ludwig Rehn (IStock)
Non c’era più tempo per il dottor Ludwig Rehn. Il paziente stava per morire dissanguato davanti ai suoi occhi. Era il 7 settembre 1896 e il medico tedesco era allora il primario di chirurgia dell’ospedale civile di Francoforte quando fu chiamato d’urgenza per un giovane giardiniere di 22 anni accoltellato nel pomeriggio e trovato da un passante soltanto ore più tardi in condizioni disperate. Arrivò di fronte al dottor Rehn solo dopo le 3 del mattino. Da questo fatto di cronaca, nascerà il primo intervento a cuore aperto della storia della medicina e della cardiochirurgia.
Il paziente presentava una ferita da taglio al quarto spazio intercostale, appariva pallido e febbricitante con tachicardia, polso debole, aritmia e grave affanno respiratorio (68 atti al minuto quando la norma sarebbe 18-20) aggravato dallo sviluppo di uno pneumotorace sinistro. Condizioni che la mattina successiva peggiorarono rapidamente.
Senza gli strumenti diagnostici odierni, localizzare il danno era estremamente difficile, se non impossibile. Il dottor Rehn riuscì tuttavia ad ipotizzare la posizione del danno mediante semplice auscultazione. La ferita aveva centrato il cuore. Senza esitare, decise di intervenire con un tamponamento cardiaco diretto, un’operazione mai provata precedentemente. Rehn praticò un’incisione di 14 cm all’altezza del quinto intercostale e scoprì la presenza di sangue scuro. Esplorò il pericardio con le mani, quindi lo aprì, esponendo per la prima volta nella storia della medicina un cuore attivo e pulsante, seppur gravemente compromesso e sanguinante. Tra i coaguli e l’emorragia Rehn individuò la ferita da taglio all’altezza del ventricolo destro. Il chirurgo operò una rapida sutura della ferita al cuore con un filo in seta, approfittando della fase di diastole prolungata a causa della sofferenza cardiaca. La sutura fu ripetuta tre volte fino a che l’emorragia si fermò del tutto e dopo un sussulto del cuore, questo riprese a battere più vigoroso e regolare. Prima di richiudere il torace, lavò il cuore ed il pericardio con soluzione idrosalina. Gli atti respiratori scesero repentinamente da 76 a 48, la febbre di conseguenza diminuì. Fu posto un drenaggio toracico che nel decorso postoperatorio rivelò una fase critica a causa di un’infezione, che Rehn riuscì tuttavia a controllare per l’efficacia del drenaggio stesso. Sei mesi dopo l’intervento il medico tedesco dichiarava: «Sono oggi nella fortunata posizione di potervi dichiarare che il paziente è ritornato in buona salute. Oggi è occupato in piccole attività lavorative, in quanto non gli ho al momento permesso nessuno sforzo fisico. Il paziente mostra ottime prospettive di conservazione di un buono stato di salute generale».
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