2023-06-05
«Inseriamo l’italiano nella Costituzione. E basta con lo schwa»
Paolo D’Achille (Accademia della Crusca)
Paolo D’Achille, presidente dell’Accademia della Crusca: «Quel simbolo non va usato nei testi ufficiali. È difficile, quindi non inclusivo».Includere, non discriminare. Ma senza schwa né asterischi, semplicemente usando l’italiano corretto e tutelandolo. Il nuovo presidente dell’Accademia della Crusca si chiama Paolo D’Achille, e al vertice ci è arrivato grazie a un curriculum che qui non ci sta per questioni di spazio, ricco di premi, comitati scientifici, associazioni e società di linguistica e affini. All’istituzione per eccellenza di ricerca sulla lingua italiana succede a Claudio Marazzini, di cui era il vice, che era in carica da 9 anni. E come i suoi predecessori è pronto ad avanzare una proposta che la litigiosa politica dovrebbe accogliere senza dividersi, ragionando: «Mettiamo in Costituzione la lingua italiana, che ora non c’è».Professore, una vita dedicata al linguaggio, la sua, giusto?«Figlio di un professore di storia e filosofia poi preside, e di una maestra, mi mandarono a scuola che ancora non avevo 5 anni perché già avevo imparato a leggere: sono di novembre, e quest’anno saranno 68».Poi il liceo classico, immagino. «E Lettere all’università, esatto».L’innamoramento, poi la certezza della passione quando?«Già c’era, ma se devo individuare un momento preciso fu quando conobbi il professor Francesco Sabatini. Fu fondamentale, apprendere da lui metodo e nozioni».Che libro ha sul comodino il presidente della Crusca? È amante anche della letteratura?«Al linguaggio letterario, forse per timidezza, a dire il vero mi sono avvicinato tardi. Da giovane mi appassionava il teatro, quello sì. I libretti del melodramma in particolare. Leggere prima di dormire non è semplice, se sei tutto il giorno sui libri. In ogni caso, gli ultimi letti per diletto sono un giallo di Cristina Cassar Scalia e l’ultima raccolta di poesie di un collega e amico, Enrico Testa».Tra le righe del suo curriculum si scorgono pure i dialetti.«Dialetti laziali, sì, li ho studiati a lungo. In particolare il romanesco. A fine anno uscirà il Vocabolario di romanesco contemporaneo che ho messo a punto con Claudio Giovanardi».Spiegherebbe a noi profani perché il linguaggio non è né roba da maestrini, né un accessorio di cui si può fare a meno?«La lingua ha a che fare con la visione del mondo. Noi segmentiamo la realtà in base alla lingua che parliamo, o scriviamo. C’è un forte nesso tra lingua e conoscenza».Si conosce meglio se non si fanno errori?«Lasci perdere il corretto o scorretto, perché in fondo sono concetti secondari: l’importante è avere sicurezza della propria lingua. La tradizione liberale, democratica, di questo Paese come di tutti i Paesi avanzati, ha sempre sostenuto che il possesso sicuro della lingua è fondamentale per la crescita dell’individuo. Dovrebbe farlo ancora, la scuola, ma…».… ma?«Sono un po’ preoccupato, perché la scuola italiana svolgeva un ruolo di potenziale ascensore sociale, e ora lo fa meno. Fungeva, nell’insegnamento dell’italiano, anche da collante tra il passato e il presente. Oggi però ci si approccia molto meno a tanti testi della cultura letteraria italiana».Uno dei suoi accademici - Vittorio Coletti - pochi giorni fa ha risposto per le rime alla scrittrice Susanna Tamaro, che ha esortato gli studenti a leggere i contemporanei e lasciar stare «i noiosi classici»: «Se si è annoiata con I Malavoglia, è un problema suo», le ha detto.«Vede, il fatto è che oggi nelle scuole si insegnano quali fossero le idee di Alessandro Manzoni, ma lo si legge di rado, figuriamoci per intero. Le poesie sono ormai una rarità, tra gli studenti. Prima, erano il pane quotidiano già alle scuole medie».Tra studenti che si annoiano e maestri incapaci di appassionarli…«Mi preoccupa che si possa perdere un patrimonio che per assurdo all’estero valorizzano meglio di noi. Faccio l’esempio dei libretti d’opera di cui mi appassionai da ragazzo: possibile che tra qualche anno nessuno di noi italiani comprenderà cosa vi è scritto e saranno accessibili solo ai cantanti di tutto il mondo, che conservano e studiano l’italiano sulla musica di Mozart, in lingua originale e cioè la nostra?».Lei ha diretto anche La Crusca per voi. Cioè la rivista nata per rispondere ai dubbi di tutti.«Il periodico che fu ideato da Giovanni Nencioni come sorta di ringraziamento per i cittadini, sì. Era presidente quando Intro Montanelli propose ai suoi lettori una sottoscrizione per salvare l’Accademia, i cui bilanci erano in cattive acque. La risposta degli italiani fu di grande generosità, allora. Oggi la consulenza su dubbi e domande è passata più che altro sulla Rete. Abbiamo anche i social». Scrivono in tanti?«Tantissimi. Tre volte a settimana rispondiamo ai quesiti. Molti sono giovani, sa? Si accendono in particolare sul cosiddetto sessismo linguistico. Per quantità, le domande che più ci vengono poste riguardano maschili e femminili nelle professioni».Le altre?«Due i filoni a pari merito in classifica : c’è chi si interroga se la tal variante regionale sia corretta, per esempio come mai alcuni chiamino i mitili le cozze. Poi, va per la maggiore anche “come si chiamano gli abitanti di…”, specialmente per l’estero. Per farle un esempio, che differenza c’è tra bangladese e bangladino».I suoi professori di recente hanno fatto consulenza alla Cassazione, e sdoganato «magistrata» e «avvocata». Ma su schwa e asterischi siete intransigenti.«Mi preme essere chiaro, su questo. Come le raccontavo prima, sono convinto che la lingua abbia a che fare anche con delle scelte, perché riguarda la visione del mondo di ciascuno. E quindi anche con la politica. Dopodiché, però, l’italiano è un patrimonio di tutti. Sono anni che chiediamo a destra e a sinistra senza distinzioni di tutelarlo».Come?«Forse non tutti si accorgono che l’italiano, in Costituzione, non c’è. Non c’è l’indicazione che la lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica. È una dicitura che è stata inserita solo in una legge a tutela delle minoranze, e che però manca nella Carta».Questione di nazionalismo, questa sua precisazione?«Tutt’altro. Vorrei che la politica si impegnasse a ragionare sul fatto che questa è una proposta più che mai inclusiva. L’impegno dello Stato a usare termini italiani corrisponde all’accoglienza di chi l’italiano lo parla. Gli anglicismi, negli ultimi anni, hanno fatto il loro ingresso in modo indiscriminato».Dica la verità, quando Rampelli ha parlato di multe per le parole straniere, segretamente ha esultato…«Guardi, lui stesso poi ha precisato che non intendeva multare nessuno. Il problema non è né la sanzione né una nuova legge. L’onorevole mi ha anche invitato a una discussione alla Camera, a cui ho partecipato con un intervento. Penso semplicemente che tutelare l’italiano sia un compito che tutti i ministeri e le istituzioni pubbliche dovrebbero avere. Quando invece scopro che il ministero dell’Università e della ricerca fa richiesta per finanziamenti con fondi italiani solo in inglese, o che nelle università italiane spopolano corsi esclusivamente in lingua straniera…». Per gli universitari è questione di occupabilità, di accesso al mercato del lavoro, no?«Benissimo. Quindi cosa stiamo dicendo loro? Che dovranno per forza andare a lavorare all’estero? Anche gli ingegneri italiani avranno a che fare con le maestranze che parlano italiano, non le pare? Mi piacerebbe che i corsi magistrali universitari dessero maggior spazio, senza cedere per forza all’inglese. Lo fanno Francia e Spagna molto meglio di noi». Paesi sovranisti non sono…«Prenda ad esempio il termine “lockdown”, per altro gergale anche in inglese. I francesi hanno trovato un’alternativa propria, con “confinamento”, e così gli spagnoli. Noi, lo abbiamo accettato con passività. Vero è che Francia e Spagna hanno i bacini rispettivamente di Africa e America Latina: riescono a contrastare l’inglese perché molti sono i parlanti le loro lingue. Possibile però che noi ci si debba arrendere senza colpo ferire?» .Per inserirla in Costituzione serve un lungo iter?«Come sempre, serve la maggioranza assoluta. Basterebbe aggiungere: “La lingua ufficiale della Repubblica italiana è l’italiano”. C’è nelle carte costituzionali di altri Paesi, da noi manca. Questione, lo ribadisco, di inclusività, che è il contrario dell’intolleranza. La lingua non ha etichetta politica».Schwa e segni grafici un colore, o almeno una sfumatura, ce l’hanno, però.«Noi accademici ci siamo espressi senza alcun colore politico. Premetto: ciascuno - anche chi non si ritenesse né maschio né femmina - nel proprio linguaggio individuale deve essere libero da qualsiasi imposizione, può cioè dire quel che vuole. Anche usando questi segni grafici o la ormai famosa vocale scritta al contrario che, aggiungo, forse nessuno sa che è utilizzata nei dialetti meridionali che però il genere femminile o maschile lo mantengono».Se però è linguaggio formale, su documenti ufficiali…«Allora non si deve usare lo schwa. Il segno grafico è difficile da decodificare e da pronunciare. Crea difficoltà di lettura per le persone dislessiche. Non ha un corrispettivo orale e quindi è problematico. Utilizzare un linguaggio inclusivo vorrà dire indicare “il candidato e la candidata” se al singolare, ma declinare “i candidati” accettando il plurale che non è esattamente un maschile. Perché appesantire il linguaggio? Semplificare è inclusivo. Creare difficoltà, discriminatorio».