A trascinare verso il basso il manifatturiero sono la crisi dell’automotive e il caro energia. Serve sterzare subito le strategie Ue e fare attenzione all’accordo di libero scambio: rischia di rovinare l’agroalimentare.
A trascinare verso il basso il manifatturiero sono la crisi dell’automotive e il caro energia. Serve sterzare subito le strategie Ue e fare attenzione all’accordo di libero scambio: rischia di rovinare l’agroalimentare.L’industria italiana è in calo da marzo 2023. Sono 22 mesi consecutivi di disegna lenta e preoccupante. I dati diffusi ieri da Confindustria, raccolti tramite l’indice dei fatturati destagionalizzati e deinflazionati, segnano per novembre un meno 3,4%. Il valore complessivo è trainato verso il basso dal manifatturiero, soprattutto tra le grandi aziende lungo la Penisola e le medie imprese del Nord Ovest. I dati del comparto servizi sono un po’ meglio, tengono le costruzioni. Ovviamente, al di là dei dati di Confindustria, resta l’export a confortarci, ma anche in questo caso a trainare i dati complessivi c’è l’agroalimentare e non l’industria. Per il 2025 la produzione industriale totale dovrebbe toccare il -1%, nel 2024 era a -3,3%, mentre la produzione dell’industria alimentare è prevista fra il +1% e il +1,3%. Si tratta, come dicevamo sopra, di un traino legato soprattutto all’export che consoliderà sostanzialmente la crescita del 2024. Quindi l’export totale per il 2025 dovrebbe attestarsi tra + 1% e 1,5% (era -0,7% 2024) mentre l’export dell’industria alimentare raggiungerà un +7%. Un valore di poco al di sotto del 2024 (+8,6%) legato ad una stabilizzazione del mercato Usa, mercato da sempre trainante per il comparto e che tiene già conto della minaccia di dazi. Una lunga premessa di numeri, per riportarci alla situazione strategica. Non ci sono avvisaglia che a gennaio sia in arrivo una inversione di tendenza e quindi è molto probabile che fra poco toccheremo il record di due anni consecutivi di calo per l’industria nostrana. Il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, eletto prima dell’estate, ha invertito la rotta rispetto al predecessore e rispetto ai dogmi europei. Sia per quanto riguarda l’energia, sia per quanto riguarda il mercato dell’automotive. Che - bene ricordarlo ogni volta - è il principale colpevole del declino del manifatturiero. Orsini non solo ha aperto al nucleare, ma spinge in questa direzione. Il solo modo per riportare le bollette in gara rispetto a quelle degli altri Paesi Ue. In gara, perché adesso i nostri valori sono letteralmente doppiati (in negativo) e rappresentano una zavorra per le aziende insostenibile. L’inversione della transizione green è l’altro pilastro di questa nuova presidenza, su questo molto allineata alle richieste del governo ai vertici della Commissione. Però tutto ciò non basta. Bisogna ammettere che il Piano nazionale di ripresa e resilienza non sta funzionando. Altrimenti gli effetti si comincerebbero a sentire. Agli interrogativi dovrebbero seguire un po’ di risposte. Nel breve termine il dibattito politico, crediamo debba concentrarsi sull’accordo del Mercosur. Nonostante il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si sia speso per la sua approvazione, il comparto agroalimentare tricolore ne uscirebbe con le ossa rotte. E visto che in questo momento è il settore che tira sarebbe come dichiararsi masochisti. Mettere in discussione il Mercosur sarebbe almeno un segnale di inversione di tendenza, ma certo non è una mossa sufficiente a invertire la rotta. La domanda di fondo rimane: come cambiare strategia e riportare l’industria a produrre? C’è l’automotive da rilanciare, ma anche l’acciaio. Basti pensare che oggi scopriremo chi si è fatto avanti per l’ex Ilva e si dimostri disposto a investirci. Ma il dato tremendo che ci lascia in eredità il 2024 è che i siti di Taranto e Genova hanno prodotto quasi la metà di quanto Taranto da sola produceva nel 1967. Il tessile è a sua volta in crisi. E purtroppo un ventennio di deindustrializzazione ha segnato ampie aree del Paese e numerosi distretti. È ormai chiaro che le singole nazioni europee abbiano difficoltà a lanciare strategie per la ripartenza. Il dimensionamento dell’economia e la deglobalizzazione che contraddistingue le nuove catene di produzione impongono un consolidamento trasversale delle industrie tra Paesi alleati. E quindi per ripartire bisogna passare da Bruxelles, dalla messa a terra del Piano Mattei e dalla formazione dei lavoratori. Sono ovvietà? Forse sì, ma restano le sole ricette (oltre a una vera strategia energetica) che possono funzionare. Cambiare il passo a Bruxelles è serve più urgente. Così come portare le istanze del Piano Mattei all’interno del G7. Cosa che Giorgia Meloni sta già provando a fare. Il G7 sull’energia, il clima e l’ambiente che si è tenuto lo scorso aprile nella reggia di Venaria reale a Torino, al di là dei target e della decisione di dire addio al carbone (ci si augura solo dopo l’introduzione del nucleare) ha aperto, tanto per fare un esempio, un fondamentale spiraglio per l’industria italiana. Che si chiama biocarburante. Lo stesse istanze dovrebbero finire in Commissione perché fermi lo stop ai motori termici e accetti che nel discorso della neutralità tecnologica possa essere inserito i biocarburante. Per noi significherebbe una importante spinta all’industria e alla tradizione stoppata bruscamente con il deragliamento di Montedison. Di questi tempi l’ottimismo non è frequente, ma vale la pena provare e spesso il futuro ha un sapore di tradizione.
Agostino Ghiglia e Sigfrido Ranucci (Imagoeconomica)
Il premier risponde a Schlein e Conte che chiedono l’azzeramento dell’Autorità per la privacy dopo le ingerenze in un servizio di «Report»: «Membri eletti durante il governo giallorosso». Donzelli: «Favorevoli a sciogliere i collegi nominati dalla sinistra».
Il no della Rai alla richiesta del Garante della privacy di fermare il servizio di Report sull’istruttoria portata avanti dall’Autorità nei confronti di Meta, relativa agli smart glass, nel quale la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci punta il dito su un incontro, risalente a ottobre 2024, tra il componente del collegio del Garante Agostino Ghiglia e il responsabile istituzionale di Meta in Italia prima della decisione del Garante su una multa da 44 milioni di euro, ha scatenato una tempesta politica con le opposizioni che chiedono l’azzeramento dell’intero collegio.
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala (Imagoeconomica)
La direttiva Ue consente di sforare 18 volte i limiti: le misure di Sala non servono.
Quarantaquattro giorni di aria tossica dall’inizio dell’anno. È il nuovo bilancio dell’emergenza smog nel capoluogo lombardo: un numero che mostra come la città sia quasi arrivata, già a novembre, ai livelli di tutto il 2024, quando i giorni di superamento del limite di legge per le polveri sottili erano stati 68 in totale. Se il trend dovesse proseguire, Milano chiuderebbe l’anno con un bilancio peggiore rispetto al precedente. La media delle concentrazioni di Pm10 - le particelle più pericolose per la salute - è passata da 29 a 30 microgrammi per metro cubo d’aria, confermando un’inversione di tendenza dopo anni di lento calo.
Bill Gates (Ansa)
Solo pochi fanatici si ostinano a sostenere le strategie che ci hanno impoverito senza risultati sull’ambiente. Però le politiche green restano. E gli 838 milioni versati dall’Italia nel 2023 sono diventati 3,5 miliardi nel 2024.
A segnare il cambiamento di rotta, qualche giorno fa, è stato Bill Gates, niente meno. In vista della Cop30, il grande meeting internazionale sul clima, ha presentato un memorandum che suggerisce - se non un ridimensionamento di tutto il discorso green - almeno un cambio di strategia. «Il cambiamento climatico è un problema serio, ma non segnerà la fine della civiltà», ha detto Gates. «L’innovazione scientifica lo arginerà, ed è giunto il momento di una svolta strategica nella lotta globale al cambiamento climatico: dal limitare l’aumento delle temperature alla lotta alla povertà e alla prevenzione delle malattie». L’uscita ha prodotto una serie di reazioni irritate soprattutto fra i sostenitori dell’Apocalisse verde, però ha anche in qualche modo liberato tutti coloro che mal sopportavano i fanatismi sul riscaldamento globale ma non avevano il fegato di ammetterlo. Uscito allo scoperto Gates, ora tutti possono finalmente ammettere che il modo in cui si è discusso e soprattutto si è agito riguardo alla «crisi climatica» è sbagliato e dannoso.
Elly Schlein (Ansa)
Avete presente Massimo D’Alema quando confessò di voler vedere Silvio Berlusconi chiedere l’elemosina in via del Corso? Non era solo desiderare che fosse ridotto sul lastrico un avversario politico, ma c’era anche l’avversione nei confronti di chi aveva fatto i soldi.
Beh, in un trentennio sono cambia ti i protagonisti, ma la sinistra non è cambiata e continua a odiare la ricchezza che non sia la propria. Così adesso, sepolto il Cavaliere, se la prende con il ceto medio, i nuovi ricchi, a cui sogna di togliere gli sgravi decisi dal governo Meloni. Da anni si parla dell’appiattimento reddituale di quella che un tempo era la classe intermedia, ma è bastato che l’esecutivo parlasse di concedere aiuti a chi guadagna 50.000 euro lordi l’anno perché dal Pd alla Cgil alzassero le barricate. E dire che poche settimane fa la pubblicazione di un’analisi delle denunce dei redditi aveva portato a conclusioni a dir poco sor prendenti. Dei 42,6 milioni di dichiaranti, 31 milioni si fanno carico del 23,13 dell’Irpef, mentre gli altri 11,6 milioni pagano il resto, ovvero il 76,87 per cento.
In sintesi, il 43 per cento degli italiani non paga l’imposta, mentre chi guadagna più di 60.000 euro lordi l’anno paga per due. Di fronte a questi numeri qualsiasi persona di buon senso capirebbe che è necessario alleggerire la pressione fiscale sul ceto medio, evitando di tartassarlo. Qualsiasi, ma non i vertici della sinistra. Pd, Avs e Cgil dunque si agitano compatti contro gli sgravi previsti dal la finanziaria, sostenendo che il taglio dell’Irpef è un regalo ai più ricchi. Premesso che per i redditi alti, cioè quello 0,2 per cento che in Italia dichiara più di 200.000 euro lordi l’anno, non ci sarà alcun vantaggio, gli altri, quelli che non sono in bolletta e guadagnano più di 2.000 euro netti al mese, pare davvero difficile considerarli ricchi. Certo, non so no ridotti alla canna del gas, ma nelle città (e quasi sempre le persone con maggiori entrate vivono nei capoluoghi) si fa fatica ad arrivare a fine mese con uno stipendio che per metà e forse più se ne va per l’affitto. Negli ultimi anni le finanziarie del governo Meloni hanno favorito le fasce di reddito basse e medie. Ora è la volta di chi guadagna un po’di più, ma non molto di più, e che ha visto in questi anni il proprio potere d’acquisto eroso dall’inflazione. Ma a sinistra non se la prendono solo con i redditi oltre i 50.000 euro. Vogliono anche colpire il patrimonio e così rispolverano una tassa che punisca le grandi ricchezze e le proprietà immobiliari. Premesso che le due cose non vanno di pari passo: si può anche possedere un appartamento del valore di un paio di milioni ma, avendolo ereditato dai geni tori, non avere i soldi per ristrutturarlo e dunque nemmeno per pagare ogni anno una tassa.
Dunque, possedere un alloggio in centro, dove si vive, non sempre è indice di patrimonio da ricchi. E poi chi ha una seconda casa paga già u n’imposta sul valore immobiliare detenuto ed è l’I mu, che nel 2024 ha consentito allo Stato di incassare l’astronomica cifra di 17 miliardi di euro, il livello più alto raggiunto negli ultimi cinque anni. Milionari e miliardari, quelli veri e non immaginati dai compagni, certo non hanno il problema di pagare una tassa sui palazzi che possiedono, ma non hanno neppure alcuna difficoltà a ingaggiare i migliori fiscali sti per sottrarsi alle pretese del fisco e, nel caso in cui neppure i professionisti sia no in grado di metterli al riparo dall’Agenzia delle entrate, possono sempre traslocare, spostando i propri soldi altrove. Come è noto, la finanza non ha confini e l’apertura dei mercati consente di portare le proprie attività dove è più conveniente. Quando proprio il Pd, all’e poca guidato da Matteo Renzi, decise di introdurre una flat tax per i Paperoni stranieri, migliaia di nababbi presero la residenza da noi. E se domani l’imposta venisse abolita probabilmente andrebbero altrove, seguiti quasi certamente dai ricconi italiani. Del resto, la Svizzera è vicina e, come insegna Carlo De Benedetti, è sempre pronta ad accogliere chi emigra con le tasche piene di soldi. Inoltre uno studio ha recentemente documentato che l’introduzione negli Usa di una patrimoniale per ogni dollaro incassato farebbe calare il Pil di 1 euro e 20 centesimi, con una perdita secca del 20 per cento. Risultato, la nuova lotta di classe di Elly Schlein e compagni rischia di colpire solo il ceto medio, cancellando gli sgravi fiscali e inasprendo le imposte patrimoniali. Quando Mario Monti, con al fianco la professoressa dalla lacrima facile, fece i compiti a casa per conto di Sarkozy e Merkel , l’Italia entrò in de pressione, ma oggi una patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
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