2021-06-04
Indagine sul salvataggio Ferrarini e sulle scelte filo cinesi di Gualtieri
La Corte dei conti apre un fascicolo per chiarire gli effetti delle mosse di Amco (società del Mef) a favore di Roberto Pini. Carla Ruocco (M5s) vuole portare le carte della cordata in Procura. A giorni la decisione sul concordato preventivo.C'è una crisi industriale che racconta bene come una società un tempo fiore all'occhiello nella produzione alimentare sia finita al centro di una disputa legale per fronteggiare un debito da 360 milioni di euro, con migliaia di creditori alla finestra. Di mezzo ci sono la politica, gli investimenti sbagliati in Veneto Banca e Pop Vicenza come alcuni trust in Lussemburgo intestati ai proprietari, ma soprattutto il rischio che un'azienda italiana finisca in mani straniere. Non solo. C'è persino il rischio di un uso distorto di una società del ministero dell'Economia, cioè Amco che in teoria dovrebbe occuparsi di gestione e recupero di crediti deteriorati.È la storia di Ferrarini, gruppo emiliano guidato dall'ex vicepresidente di Confindustria Lisa Ferrarini, finito in un concordato preventivo su cui deve ancora esprimersi la Corte di Cassazione. La decisione dovrebbe arrivare a giorni. Solo a quel punto si capirà se la procedura concordataria dovrà proseguire di fronte al tribunale di Reggio Emilia o a quello di Bologna.La vicenda va avanti da ormai 3 anni, quando Ferrarini presentò richiesta di concordato preventivo poi accettata nel marzo del 2019. A contendersi l'eredità dell'azienda che fu fondata da Lauro Ferrarini - in una zona storicamente «rossa» dai tempi del Pci e ora del Pd - sono due cordate.La prima è capitanata da Pini Holding di Roberto Pini, il re della bresaola italiana, un fatturato da 1,1 miliardi nel 2021, ma più impegnata all'estero che nel nostro Paese. Del resto risalendo la catena di controllo del gruppo Pini si arriva fino a Cipro, con collegamenti in Ungheria, Spagna e Polonia (tramite la Hungary Meat) e persino in Cina, dal momento che nel 2017 WH Group, (società cinese leader nella produzione di carne di maiale) ha rilevato la quota del 66,5% di Pini Polonia, tramite la partecipata Smithfield Foods. Caso vuole che ad affiancare nella cordata il gruppo Pini sia Amco, società di controllo pubblico interamente detenuta dal Ministero dell'Economia e delle finanze. La decisione di affiancare il re della bresaola fu presa sotto l'ex ministro Roberto Gualtieri, dal momento che la proposta di Pini risale al 25 maggio dello scorso anno. In questi mesi il deputato di Italia viva, Michele Anzaldi, ha più volte presentato interrogazioni al riguardo, in particolare sui rischi dell'offerta Pini-Amco ma senza mai ricevere risposta. Del resto non è chiaro dove sia l'italianità dell'offerta, soprattutto se messa a confronto della seconda cordata, quella presentata l'11 agosto scorso da Bonterre - Grandi salumifici italiani. La proposta vede come partner industriali anche Opas e Hp con il sostegno di Intesa San Paolo e Unicredit. La cordata metterà a disposizione dell'operazione capacità imprenditoriali italiane con al fianco l'aiuto economico delle due più importanti banche del nostro Paese. Insomma sulla seconda offerta non sembrano esserci dubbi. Sulla prima invece, (oltre a una possibile istruttoria dell'Unione europea sul ruolo di Amco) e un'indagine della Corte di conti (i debiti di Ferrarini verso il Mef sono pari a 93 milioni di euro e mettono quindi Amco in una posizione particolare rispetto agli altri creditori) c'è anche un «giallo» scoppiato a febbraio durante una commissione bicamerale d'inchiesta sul sistema bancario e finanziario. L'8 febbraio, infatti, è stata sentito l'amministratore delegato di Amco, Marina Natale. Storica ex banchiere di Unicredit e da due mandati in sella alla società di via XX Settembre e confermata ad aprile 2020 proprio da Gualtieri, Natale aveva motivato la scelta di sostenere la proposta di concordato presentata dal gruppo Pini spiegando che era stata fatta una comparazione con quella presentata da Bonterre-Intesa. Peccato che non fosse vero, dal momento che la seconda offerta era arrivata quasi 2 mesi dopo. Per questo motivo nelle scorse settimane Carla Ruocco dei 5 Stelle, anche lei membro della commissione, ha chiesto «di valutare se non sia opportuno richiedere ulteriori risposte precise e circoscritte da parte della dottoressa Marina Natale alla Commissione, e di chiedere anche la preventiva trasmissione da parte di Amco di tutti gli atti e i documenti a sua disposizione inerenti la vicenda Ferrarini, oltre a segnalare all'autorità giudiziaria i fatti riferiti nell'audizione del febbraio scorso». Insomma è possibile che presto le Procure possano iniziare a muoversi sulla crisi economica di Ferrarini. E forse si potrà anche approfondire un passaggio della relazione del commissario giudiziale del 19 novembre del 2020, dove si legge come in data «31 agosto 2000, con atto a Ministero Notaio Angelo Busani di Milano (Rep. 64044/17909) Nestlé Italiana S.p.A. cedette l'intero capitale sociale di Vismara S.r.l. alla Agri-Food Investments S.A., holding di partecipazioni con sede in Lussemburgo riferibile ai membri della Famiglia Ferrarini (“Agri-Food Investments"), per il corrispettivo di Lire 20.031.000.000». Su quei debiti, come sul ruolo del Mef di Gualtieri e la palese simpatia per il mercato cinese, c'è insomma ancora molto da capire.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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