2022-09-22
Per il nuovo governo la partita si fa dura: serviranno le truppe?
L’esecutivo che si formerà dopo il voto dovrà fronteggiare l’emergenza. Anche se su un’eventuale partenza di militari dovrà esprimersi l’Aula. Più probabile una stretta Usa sulle sanzioni, per evitare triangolazioni.Non sapremo mai quanti saranno effettivamente i riservisti richiamati alle armi. Forse 300.000, come annunciato ieri da Vladimir Putin o forse meno. Ciò che è certo, come dimostra la perdita del fronte del Nord, è che se vorrà mantenere sotto la bandiera russa le due repubbliche separatiste del Donbass servirà parecchia carne da macello. Il termine è orribile, ma indica esattamente quanto sta avvenendo, visto che molti dei richiamati russi hanno scarsa preparazione militare. Da queste incognita ne scaturiscono altre. Riuscirà Mosca a blindare i confini delle due Repubbliche prima di indire il referendum foglia di fico? Oppure siamo di fronte a un’ulteriore escalation in grado di spingere Europa e Nato verso l’invio in Ucraina di uomini e non solo di armi? Se da un lato le sanzioni sul comparto tecnologico stanno mettendo in crisi numerose divisioni russe, dall’altro l’esercito di Kiev sta raschiando il fondo delle sue riserve umane. Servirà prima o poi aggiungere altri militari o paramilitari. Basti pensare che dal 24 febbraio, data in cui Putin ha invaso l’Ucraina, dal nostro Paese sono transitate verso i confini di Kiev armi per un controvalore di circa 4 miliardi di euro. Le nostre dogane hanno provveduto a smistarle e organizzare corridoi sicuri verso il Paese belligerante. Tutte armi provenienti da nazioni del blocco occidentale. Se pensiamo che dalla Polonia ne sono transitate molte di più e che ne arriveranno altrettante nei prossimi sei mesi non è aleatorio chiedersi chi le userà. La fatwa dello zar nei confronti dell’Occidente rischia così di essere una grana per il prossimo governo, che si formerà dopo le elezioni di domenica 25 settembre. Se dovesse servire un invio di nostri militari nelle basi Nato delle Repubbliche baltiche o in Bulgaria, il nuovo ministro della Difesa sarà chiamato a una decisione forte. Peggio ancora se dovesse servire un invio diretto di militari tricolore. Certo, un’eventuale Giorgia Meloni premier si troverebbe costretta a formulare una scelta netta - e visto le dichiarazioni pre elettorali - a favore del supporto agli Ucraini, ma poi dovrebbe recarsi in Parlamento per chiedere l’autorizzazione. L’ultima volta è accaduto per le missioni in Niger e Mali. Allora l’Aula era vuota. Stavolta invece sarebbe diverso. I 5 stelle farebbero opposizione e la Lega potrebbe disallinearsi. Una grana non da poco. Non isolata se si tiene conto pure del fatto che il decreto approvato a marzo autorizza plurimi invii di armi in teatro di guerra con semplici decreti ministeriali bollinati solo dal Copasir, ma fino alla data del 31 dicembre. Poi tutto è da riapprovare. La settimana prossima, per esempio, il Comitato parlamentare per la sicurezza si riunirà per leggere la lista di armi contenuta nel quinto decreto. Anche in questo caso, gli equilibri riflettono le vecchie alleanze parlamentari, nelle quali il presidente Adolfo Urso rappresenta l’opposizione e al tempo stesso il sostegno atlantista alla guerra. Così come espresso dalla Meloni. Insomma, la componente militare sarà in ogni caso una patata bollente da gestire. Pure per la necessità di mantenere nell’ambito Nato un faro acceso sul fronte Sud del Mediterraneo. Libia e Sahel sono primari per l’Italia e Roma dovrà evitare che l’Europa atlantica si concentri solo sul fronte Est. Significa mettere sul tavolo risorse, uomini, mezzi e alleanze con partner Ue o Usa. I fondi sono purtroppo limitati e qui si tratterà di trovare un punto di equilibrio. Soprattutto se gli scenari di guerra tradizionale e quindi di un rischio di invio diretto di militari dovessero lasciare lo spazio a una «frozen war», come viene chiamata dagli strateghi. Una volta superato l’inverno in caso di cristallizzazione dei confini, nessuna delle parti potrebbe più avere l’interesse a spingere né per un negoziato di pace né per un’ulteriore spinta militare. Così si passerebbe a interventi molto più legati all’interdizione dell’intelligence, alla pari di una nuova forma di sanzioni. Al di là del comparto tecnologico ed energetico. A oggi né gli Stati Uniti né i Paesi dell’Unione europea stanno imponendo alla Russia un embargo totale sui beni di consumo e di lusso. Per capirci, molte aziende del mobile, dei gioielli, della moda hanno avviato triangolazioni verso Mosca passando da società in Armenia e soprattutto in Azerbaijan. È bastato aprire una società in loco o più facilmente usare l’importatore come intermediario. A quanto ci risulta dal prossimo anno, l’amministrazione Usa chiamerà a una stretta delle sanzioni. Ai russi piace l’Italia e soprattutto piace il lusso italiano. Né la Cina, tanto meno l’India saranno mai in grado di accontentarli su questo fronte. La stretta significherà però per il nostro Paese un’ulteriore batosta in una dozzina di distretti del lombardo-veneto. Si tratta di 440 aziende di medie e piccole dimensioni ma dal peso specifico notevole. Anche questa sarebbe una grana per Fratelli d’Italia e per un’eventuale Meloni premier. Il Veneto in queste ora sta spostando il suo voto e vedremo come accoglierà la cortina di ferro modello 2023. Saranno tempi difficili.