
Tante moine e paroline dolci. Ma l'ingombrante vicino ha minimizzato i guai del Belpaese sugli sbarchi, ingigantendo i problemi d'Oltralpe. E non ha cambiato idea sull'accoglienza in casa sua. Stiamo in guardia e, se servirà, torniamo ad alzare i toni.«Caro Giuseppe». «Amico Emmanuel». Come se non fosse successo niente, come se all'improvviso non fossimo più cinici e vomitevoli, come se Zidane non avesse mai dato la testata a Materazzi e la frontiera di Ventimiglia fosse un paradiso a colori, Conte e Macron ieri si sono presentati insieme davanti alle telecamere e si sono messi a tubare da piccioncini innamorati. «Amo l'Italia». «Amici francesi». «Perfetta intesa». «Siamo totalmente d'accordo». «Approccio integrato». «Piena sintonia». «Lavoreremo mano nella mano». «Maggiore solidarietà». Trottolino amoroso dudududadadà. C'eravamo tanto odiati, ma adesso non più. Anche la Gioconda, in fondo, sta benissimo al Louvre. E la guerra in Libia è stato un colpo di genio. Allons enfants de l'hypocrisie. Certo da questi incontri non ci si può attendere molto di più che parole & champagne, per altro con più bollicine nelle parole che nello champagne. Ma in fondo che cosa poteva desiderare di più il premier Conte? Fino a ieri eravamo brutti, sporchi e cattivi. Ora, dopo essere stati accolti con tutti gli onori, ci portiamo a casa il rispetto di Macron, oltre che tre impegni: a fermare gli africani in Africa, a rafforzare il controllo delle frontiere europee e a rivedere il famoso trattato di Dublino, quello che, come è noto, lascia l'intero problema dell'immigrazione sul groppone dell'Italia. Non è poco. E se a questo ci si aggiunge il nuovo rapporto stabilito con la Germania, alla vigilia dell'incontro del nostro premier con la Merkel, e i complimenti espliciti di Trump («Conte è fantastico. La linea dura paga»), la giornata italiana può considerarsi un pieno successo. A dimostrazione del fatto che, nella vita, se si vuole ottenere qualche risultato bisogna sapere alzare la voce. E magari anche una barriera nel porto. Ma attenti: non ci si può crogiolare nella soddisfazione del risultato diplomatico. Perché, è chiaro, c'è sempre una distanza siderale tra il risultato diplomatico e il risultato pratico. E in questo caso la distanza è ancora più grande per la diffidenza che ispirava ieri l'atteggiamento di Macron. Quest'ultimo, infatti, pur aprendo a parole alle proposte italiane e nascondendosi dietro immani e proclami d'amore, non è riuscito a scrollarsi di dosso quell'arietta da mariantonietta con le brioches che guarda tutti dall'alto in basso, trasuda senso di superiorità e si permette pure di dare lezioncine di comportamento: «Se le navi arrivano in acque territoriali italiane, dovete tenervele», ha sdottoreggiato. Dimenticando, per altro, che l'Aquarius non era affatto in acque territoriali italiane. E allora, caro Macron? Hai per caso telefonato a La Valletta per dare lezioni anche a loro? O fai il professorino solo con noi? Anche sui dati dell'accoglienza, per altro, Macron è stato piuttosto irritante. Dopo aver espresso la dovuta solidarietà all'Italia, ha però minimizzato sugli sbarchi sulle nostre coste. E, viceversa, ha ingigantito il problema francese. Ovviamente non un accenno al comportamento (vomitevole?) dei suoi gendarmi al confine italiano, testimoniato ancora ieri mattina da Oxfam. Solo tanto vittimismo in salsa di camembert: «La Francia ha avuto nei primi quattro mesi del 2018 26.000 richieste d'asilo contro le 18.000 dell'Italia», si è lamentato Macron a più riprese. Come a lasciar intendere: con il cavolo che apro i miei porti alle navi, con il cavolo che cambio la mia linea dura alla frontiera. Solidarietà va bene, ma non aspettatevi un aiuto concreto perché la politica di Parigi sugli immigrati resta sempre la stessa: liberté, egalité, tienilité. E dunque? Dunque la parola, come sempre, deve passare all'Europa. «Coinvolgeremo i partner», «la soluzione è europea», «servono risposte Ue». La filastrocca la conosciamo bene. E proprio per questo ci permettiamo di sollevare qualche ulteriore dubbio: sono anni che sentiamo ripetere frasi simili. Sarà la volta buona? Può darsi. Ma il governo italiano, forte del successo ottenuto in questi giorni, non deve abbassare la guardia. Non deve smarrire la strada del coraggio. Non deve esitare, se serve, a rialzare i toni. Perché altrimenti rischiamo di ricominciare la solita solfa dei vertici cocktail&veti nei quali tutto finisce per insabbiarsi. Già visto mille volte. L'Europa non riesce a mettersi d'accordo su nulla, come farà a mettersi d'accordo sulla riforma di Dublino? O sugli hotspot in Africa? Solo perché adesso Macron e Conte si sono scambiati un po' di paroline dolci? Scusate, ma non ci crediamo. Non ci basta. Anche perché non ci è piaciuto quel tono sardonico di Macron quando parlava del ministro Salvini: se è tanto amico del gruppo di Visegrád, Ungheria & C., che si oppongono alla modifica del trattato di Dublino e alla redistribuzione dei profughi - ha detto in pratica - li convinca lui ad accettare le proposte europee. Era quasi un atto di sfida, nascosto sotto la necessaria coltre di diplomazia. Vi pare una buona premessa? A noi no. E, inoltre, non capiamo perché il presidente francese, visto che sostiene la necessità di fermare i flussi migratori in Africa, non abbia già cominciato a farlo. In fondo, come abbiamo raccontato sulla Verità, sono proprio i francesi a controllare molte zone di passaggio dei traffici. E sono loro a chiudere un occhio. E allora: è necessario aspettare che si pronunci il consesso europeo, per cominciare a fare qualcosa? Perché da Parigi non iniziano a muoversi subito? «Caro Giuseppe» e «amico Emmanuel», le moine e gli scambi di cortesia vanno benissimo, per carità. E gli impegni presi da Macron vanno meglio ancora. Se poi riusciremo a ottenere altrettanta disponibilità anche dalla Merkel potremo essere davvero soddisfatti sul piano diplomatico. «La linea dura paga», come dice il vecchio Donald. Ma i risultati diplomatici non bastano: ci vogliono quelli pratici. E per arrivare lì non bisogna smettere di abbassare la guardia. Non bisogna abbandonare la linea dura. Perché, in certi casi, alzare la voce serve più che sussurrare paroline dolci. E mostrare le palle vale più che raccontarsele.
Angelo Fanizza (Imagoeconomica)
Angelo Fanizza lascia l’Authority per la privacy: tentava di farsi svelare le fonti di «Report».
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Anziché sugli evidenti risvolti politici, il dibattito sul Quirinale gate si sta concentrando sui dettagli di colore: chi ha parlato? Non manca chi avvalora piste internazionali. Nessuno, tuttavia, sembra chiedersi se quelle dichiarazioni fossero opportune.
Gran parte della stampa non risponde alle logiche dell’informazione ma a quelle del potere. Prendete ad esempio il cosiddetto Garofani-gate. Invece di domandarsi se sia opportuno che una persona chiaramente schierata da una parte continui a ricoprire un ruolo super partes come quello di segretario del Consiglio supremo di Difesa, i giornali si sono scatenati alla ricerca della talpa che ha passato l’informazione.
Roberto Fico (Imagoeconomica)
Crosetto rivela: per il gozzo l’ex presidente della Camera paga 550 euro l’anno. La tariffa normale è dieci volte superiore. E nei prospetti che ha presentato da parlamentare il natante non c’è, alla faccia della trasparenza.
A Napoli si dice «chiagne e fotte»: trattasi di una espressione del dialetto partenopeo che indica una persona che ipocritamente mostra un modo di vivere spartano, gramo, mentre in realtà le cose gli vanno più che bene. In sostanza, chi «chiagne e fotte» adotta una doppia morale, una che vale per come vuole apparire, e una per come è. L’ex presidente della Camera, Roberto Fico, candidato alla presidenza della Regione Campania per il centrosinistra, può essere annoverato, in termini politici, tra i più autorevoli esponenti del «chiagne e fotte». Lui, che il primo giorno da presidente della Camera si fece riprendere mentre viaggiava in autobus; lui, il paladino degli ultimi; lui, il simbolo dell’anticasta, in realtà quando si è trattato di godere di privilegi che ai comuni mortali sono negati, non si è tirato indietro.
Ansa
Le selezioni di ingresso alla facoltà sono l’ennesima figuraccia del sistema universitario. Per la Bernini restano comunque valide.
Certo che poi c’è la malasanità o che i migliori laureati se ne vanno: se l’anticamera è questa roba che si è vista nei test d’ingresso a medicina, il minimo è mettersi le mani nei capelli. La cosa paradossale è stata che gli esaminatori avevano invitato gli studenti ad andare in bagno prima dell’inizio delle prove, «sempre sotto la supervisione di un docente», ci raccontano «poiché durante le pause di 15 minuti tra una prova e l’altra sarebbe stato concesso solo in casi di estrema urgenza».






