
Anche l’inchiesta a carico del carabiniere che ha ucciso l’aggressore egiziano è stata presentata come «atto dovuto». Falso: l’analisi dei fatti escludeva di per sé il reato.Ancora una volta, per l’ennesima volta, un appartenente alle forze dell’ordine che, in una conclamata situazione di legittima difesa della vita e dell’incolumità personale proprie e altrui, oltre che di adempimento dei propri doveri d’istituto, ha dovuto ferire o uccidere un aggressore, si trova iscritto nel registro degli indagati e, quindi, sottoposto, di fatto, a procedimento penale per la solita ragione costituita dall’asserita ineludibilità di tale adempimento, in quanto «atto dovuto». Il malcapitato, in questo caso, risulta essere il luogotenente dei carabinieri Luciano Masini, che, secondo quanto pressoché concordemente riferito da tutti gli organi di informazione, ha ferito a morte, con la pistola d’ordinanza, un immigrato di origine egiziana che, armato ancora del coltello con il quale, appena prima, aveva aggredito, senza ragione alcuna, altre persone, ferendone una gravemente, stava per aggredire il militare, dopo che quest’ultimo aveva invano esploso dei colpi in aria a scopo intimidatorio. La pretesa necessità dell’iscrizione nel registro degli indagati è stata spiegata, come di consueto - sempre secondo le notizie di stampa - con il fatto che, dovendosi eseguire l’autopsia dell’ucciso, occorrerebbe mettere l’uccisore, a pena di nullità dell’atto per violazione dei diritti di difesa, in condizione di poter nominare un avvocato e un consulente tecnico che possano assistervi. E per poter nominare un difensore l’uccisore dovrebbe aver assunto la veste formale di persona sottoposta a indagine. Tutto vero e tutto giusto se non fosse per la mancata considerazione di un piccolo particolare: quello, cioè, che quando un fatto astrattamente qualificabile come reato sia stato commesso in presenza di una causa di piena e totale giustificazione della quale, già in partenza, appaia indiscutibile la presenza (come, nel nostro caso, non sembra dubbio essersi verificato), è da ritenersi automaticamente escluso che nei confronti dell’autore di quel fatto possa configurarsi una qualsivoglia ipotesi di responsabilità penale e viene, quindi, per ciò stesso a mancare la condizione essenziale perché egli possa anche essere soltanto iscritto nel registro degli indagati. Una tale iscrizione, infatti, come chiaramente emerge dall’articolo 335 del Codice di procedura penale, presuppone che si tratti di un soggetto al quale, in base alle risultanze fino a quel momento acquisite, un vero e proprio «reato» debba verisimilmente essere «attribuito». Ma, per quanto sopra detto, non può costituire «reato» un fatto commesso in presenza di una causa di giustificazione, tanto è vero che, qualora essa venga riconosciuta all’esito di un processo al quale l’autore del fatto sia stato comunque sottoposto, la formula di proscioglimento da adottarsi è appunto quella che «il fatto non costituisce reato». Potrebbe a tutto ciò obiettarsi che quando la piena configurabilità della causa di giustificazione emerga soltanto dalla ricostruzione del fatto contenuta nei verbali redatti dagli organi di polizia giudiziaria e da essi fatti pervenire all’autorità giudiziaria, nulla escluderebbe che quella ricostruzione sia, se non mendace, quanto meno incompleta, per cui la causa di giustificazione sarebbe comunque priva del carattere della certezza. Di qui l’impossibilità di darla per acquisita e la necessità di considerare, quindi, al momento, l’autore del fatto come indiziato del reato che, mancando in tutto o in parte quella causa, sarebbe configurabile a suo carico. Ma l’obiezione perde il suo valore ove si consideri che, per legge, i verbali redatti dagli organi di polizia giudiziaria fanno parte della categoria degli «atti pubblici» e, quindi, fanno fede, «fino a querela di falso», della veridicità e completezza del loro contenuto. Ne deriva che, in assenza di già acquisiti elementi sulla base dei quali la veridicità e la completezza siano da escludersi o anche solo da mettersi in dubbio, il pubblico ministero ben potrebbe, a rigore, basarsi solo su di essi per chiedere l’archiviazione degli atti senza neppure procedere all’autopsia dell’ucciso, ferma restando, naturalmente, la possibilità di riaprire il procedimento ove quegli elementi in contrario emergessero successivamente da altre fonti. Ma anche se si volesse, per comprensibile scrupolo, procedere all’autopsia e da essa emergessero divergenze rispetto a quanto riferito nel verbale redatto dall’autore del fatto, non per questo egli potrebbe - una volta necessariamente assunta, a questo punto, la formale qualità di indagato - eccepire validamente che l’autopsia sarebbe processualmente nulla, nei suoi confronti, per non essergli stata offerta la possibilità di farvi assistere un difensore da lui nominato. Ciò in quanto a tale nullità egli stesso avrebbe dato causa, redigendo un verbale in tutto o in parte rivelatosi inattendibile, per cui dovrebbe rispondere, oltre che del reato falsamente fatto apparire come coperto da una causa di giustificazione, anche di quello di falso in atto pubblico. Si dovrebbe quindi smettere, una buona volta, di mascherare come «atto dovuto» la decisione del pubblico ministero di iscrivere al registro degli indagati, sia pure per la sola ipotesi (come sembra avvenuto nel caso di specie) dell’«eccesso colposo in legittima difesa», un appartenente alla forza pubblica quando manchino elementi tali da far ragionevolmente ritenere quanto meno dubbia la oggettiva esistenza della piena causa di giustificazione altrimenti rilevabile dalla descrizione del fatto risultante dai verbali di polizia giudiziaria. Di quella decisione, invece, il pubblico ministero, qualora voglia adottarla e non voglia o non possa, allo stato, indicarne le specifiche ragioni, dovrebbe, quanto meno, pubblicamente assumerne la esclusiva responsabilità. Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione
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