
Ai fedelissimi che seguiranno Matteo Renzi andranno sommati quelli che restano nel Pd: rottura definitiva o tattica per controllare meglio i vecchi compagni? Lui si vanta: «Ho fatto una machiavellica operazione di Palazzo».«Saremo più di 40». Matteo Renzi ufficializza l'annunciata scissione dal Partito democratico di cui è stato segretario in due step: esce con un'intervista a Repubblica e, in serata, registra a Porta a Porta regalando a Bruno Vespa l'esclusiva sul nome del nuovo partito: Italia viva. Stesso slogan impresso sulle fiancate del pullman di Walter Veltroni anni fa. I numeri, anzitutto, che saranno ufficializzati nei prossimi giorni. L'ex premier parla sicuro di «oltre 15 senatori e 25 deputati», ma non ci sarà Anna Ascani, che pure ne fu una fedelissima. La retorica è quella del bene del Paese, del «modello novecentesco di partito che non può reggere le sfide del cambiamento». Su Raiuno l'ex segretario spiega: «Ho fatto un'operazione machiavellica. Voglio molto bene al popolo del Pd. Per sette anni ho cercato di dedicare loro la mia esperienza politica, ma le polemiche, le divisioni e i litigi erano la quotidianità. C'è bisogno di una cosa nuova, allegra e divertente». E subito «gufa» il rientro nel Pd di Bersani, D'Alema e altri.Molti dubbi accompagnano lo strappo: quali parlamentari lo seguiranno? Chi paga? Quanto vale «Italia viva»? A Montecitorio tra i più attivi si distinguono Roberto Giachetti, l'immancabile Maria Elena Boschi ed Ettore Rosato. La corrente Sempre avanti, guidata da Roberto Giachetti, dovrebbe seguire compatta l'ex segretario Pd: Luciano Nobili, Michele Anzaldi, Nicola Carè, Gianfranco Librandi avrebbero già deciso di abbandonare Nicola Zingaretti. Si schiererebbero con loro i deputati più vicini alla Boschi, tra cui Marco Di Maio e Mattia Mor. Pronti a fare le valigie anche i due capigruppo delle commissioni Bilancio e Finanze, Luigi Marattin che dovrebbe essere il presidente del nuovo gruppo, e Silvia Fregolent. Tra i fedelissimi di Matteo si contano inoltre il sottosegretario agli Affari esteri Ivan Scalfarotto, il già citato Rosato, l'ex Sel Gennaro Migliore, Lucia Annibali, Mauro Del Barba, Maria Chiara Gadda, Vito De Filippo, Raffaella Paita e Andrea Rossi. Tra gli scissionisti della Camera dovrebbero inoltre esserci Massimo Ungaro, Lisa Noja, Martina Nardi e Carmelo Miceli, che però si è affrettato a smentire dicendo che lui è per l'unità del Pd.Passando a Palazzo Madama, dove la maggioranza del governo Conte è rosicata, secondo regolamento non si possono formare gruppi autonomi, quindi i senatori scissionisti andranno nel Misto. I nomi sono già in scritti: Francesco Bonifazi, Davide Faraone, Nadia Ginetti e il neoministro dell'Agricoltura Teresa Bellanova («Sarà la nostra portavoce al governo», dice Renzi, e chissà la gioia di Conte e Mattarella). A proposito di ministri, sta dalla parte di Italia viva anche Elena Bonetti, responsabile delle Pari opportunità. Tornando ai senatori, si dovrebbero aggiungere altri: Tommaso Cerno, Eugenio Comincini, Ernesto Magorno, Mauro Laus, Andrea Ferrazza, Laura Garavini, Mauro Maria Marino, Giuseppe Cucca, Caterina Biti, Alan Ferrari e Leonardo Grimani.Non sposerà la causa scissionista invece Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, così come il sottosegretario al Mise Alessia Morani e quello per i Rapporti con il Parlamento Simona Malpezzi. Viene data per certo il rifiuto di Maurizio Martina, Emanuele Fiano e Luca Lotti che, a sorpresa, annuncia di voler «spiegare in seguito» la sua decisione, Debora Serracchiani, Andrea Marcucci, capogruppo al Senato, e il sottosegretario alle Infrastrutture Salvatore Margiotta, che però è tra i sostenitori dei comitati di Renzi. Come si comporteranno queste figure considerate prossime al Rottamatore ma che resteranno nel Pd? L'hanno mollato o faranno da quinte colonne nel partito e nei gruppi? La risposta a questa domanda segnerà una delle questioni chiave del prosieguo della legislatura.Altro tema: come si finanzia Italia viva? Deputati e senatori dem hanno cominciato a versare fondi ai comitati di Renzi il 20 agosto, lo stesso giorno in cui Giuseppe Conte apriva la porta al nuovo governo. Ogni parlamentare di area renziana ha versato tra i 1.000 e 2.000 euro. Ma il denaro era cominciato ad affluire prima. Da gennaio a giugno i versamenti ai comitati sono di poco conto, ma a luglio la musica cambia: le donazioni lievitano dai 20.000 euro di giugno a oltre 260.000 a luglio. Questo grazie all'erogazione da 100.000 euro di Daniele Ferrero, ad del colosso del cioccolato Venchi. Poi c'è Davide Serra, finanziere e patron del fondo Algebris: 90.000 euro. E altre aziende: la Quintessentially concierge con 10.000 euro, la Tci - Telecomunicazioni Italia del deputato dem Librandi con 5.000, 20.000 euro da Bruno Tommassini, stilista di lusso e tra i fondatori dell'Arcigay, 10.000 euro da Energas spa, azienda che si occupa di distribuzione del Gpl, e ancora 4.000 euro da Ciemme hospital srl, attiva nel commercio di prodotti farmaceutici. Nell'elenco dei sostenitori compare anche l'imprenditore Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli: 50.000 euro in due tranche. E ancora aziende green come Eco iniziative srl (2.000 euro) e la Acqua sole srl (1.500 euro). Infine arrivano 3.000 euro da Angelo De Cesaris srl, azienda abruzzese che si occupa di costruzioni, ambiente e smaltimento rifiuti.Il potere del nuovo partito di Renzi in Parlamento è chiaro: con i suoi numeri può indirizzare, soprattutto per quanto riguarda il Senato, la politica del governo Conte bis. In altre parole rappresenta l'ago della bilancia e la strettoia attraverso la quale tutti i provvedimenti devono passare per l'approvazione. Ma in caso di elezioni, quanti voti prenderebbe il senatore di Rignano sull'Arno? Secondo Alessandra Ghisleri di Euromedia research si potrebbe ipotizzare una percentuale intorno al 6%, mentre il principale sondaggista di Quorum-YouTrend, Lorenzo Pregliasco, pone la forchetta più in basso tra il 3 e il 5%. Ma è presto per fare previsioni: molto dipenderà da quando si voterà, e altrettanto dal sistema elettorale. Sul tema Renzi ha giurato: «Non metto bocca». Dunque, cercherà di condizionarlo pesantemente.
Michele Emiliano (Ansa)
Dopo 22 anni di politica, l’ex governatore chiede di rientrare in magistratura (con uno stipendio raddoppiato). E se dovesse indagare su esponenti di partito?
Dipendenza dalla toga: dopo ben 22 anni di attività politica, Michele Emiliano vuole tornare a fare il magistrato. Non ha intenzione di restare disoccupato neanche per un paio d’anni (sono insistenti le voci di una sua candidatura in Parlamento nel 2027) questo istrionico protagonista della vita pubblica italiana, che ha appeso la toga al chiodo nel 2003, quando è diventato sindaco di Bari, carica ricoperta per due volte e alla quale è seguita quella di presidente della Regione Puglia, un altro decennio di attività istituzionale. Emiliano, prima di indossare la fascia tricolore a Bari, dal 1990 al 1995 aveva lavorato presso la Procura di Brindisi occupandosi di lotta alla mafia; poi si era trasferito a Bari come sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia. Emiliano viene rieletto primo cittadino nel 2009, dopo aver tentato invano la scalata alla presidenza della Regione Puglia, e resta in carica fino al 2014. Prima di diventare governatore, nel 2015, ricopre l’incarico di assessore alla legalità di San Severo.
Sullo sfondo Palazzo Marino a Milano (iStock). Nei due riquadri gli slogan dell’associazione Mica Macho
Bufera sul «Tavolo permanente» dedicato alla correzione degli uomini, annunciato dal Consiglio comunale. Critica Forza Italia: «Impostazione woke». Mentre i dati dicono che queste attività sono inutili. E resta il mistero sui fondi impiegati da Palazzo Marino.
A Milano il nuovo Tavolo permanente sulla «rieducazione maschile», annunciato dal Consiglio comunale, si apre tra polemiche e dubbi sulla sua reale utilità. Le critiche del centrodestra sono arrivate subito, mentre le ricerche internazionali mostrano da anni risultati incerti sui percorsi rivolti agli uomini.
Nel primo pomeriggio sul sito del «Corriere» esce la notizia che Caltagirone, il numero uno di Delfin e l’ad del Monte sono indagati per aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza per l’Opa su Mediobanca. Scattano forti vendite in Borsa. Uno sgambetto anche al Tesoro.
In Italia c’è sempre un istante preciso in cui la giustizia decide di scendere in campo con un provvedimento a orologeria. Non è mai un caso, mai un incidente: è una coreografia. E così, nel giorno in cui Mps perde il 4,56%, Mediobanca scivola di un altro -1,9%, e il mercato si chiede cosa stia succedendo, arriva il colpo di teatro: la Procura di Milano notifica avvisi di garanzia a Borsa aperta, come se si trattasse di un profit warning. Tempismo chirurgico. L’effetto è devastante: Mps affonda a 8,330 euro, Mediobanca scivola a 16,750. E tutto perché la notizia - trapelata prima da Corriere.it e poi confermata da un comunicato di Rocca Salimbeni - corre come una scintilla tra gli operatori: Francesco Gaetano Caltagirone, Francesco Milleri e il ceo Luigi Lovaglio sono indagati nell’inchiesta sulla scalata che ha portato l’istituto senese a conquistare l’86,3% di Mediobanca.
2025-11-28
Stefano Boni: «Le nostre società “libere” abusano di psicofarmaci ma vietano la vita rurale»
L’antropologo riflette sul caso abruzzese della famiglia con casa nel bosco: «Paradossale condannare un modello che fa riscoprire fatica e spiritualità».
Stefano Boni è un antropologo dell’università di Modena e Reggio Emilia che da tempo si dedica a osservare le conseguenze della tendenza occidentale alla rimozione della fatica e del rapporto con la natura. Ne scrisse un bellissimo saggio intitolato Homo comfort (Eleuthera) e di certo il tema torna oggi di attualità con la vicenda dei bambini tolti ai genitori a Chieti.
Professore, il caso della cosiddetta «famiglia nel bosco» ha coinvolto molto gli italiani. Tanti hanno preso le parti dei genitori, ma sembra che per il tribunale e pure per vari commentatori non sia ammissibile compiere quella scelta di vita.





