
Tullio Macoggi era un musicista fantastico sempre in vena di scherzi e follie. Una volta nel pieno d'un concerto mancò la luce: lui suonò con una torcia in bocca. E durante una tournée si mise a provocare un grosso animale.Nel corso della mia carriera ho avuto il piacere di far musica con artisti di grande livello. Ho suonato con pianisti validissimi - come Eugenio Bagnoli, Tullio Macoggi, Alessandro Specchi, Maria Tipo, Bruno Canino - e con famosi solisti, tra cui Martha Argerich, Nikita Magaloff, Rudolf Buchbinder, Tamas Vasary. Eseguire in duo il repertorio sonatistico per violino e pianoforte comporta l'inevitabile confronto con il partner: bisogna esporre le proprie idee interpretative all'altro artista, accettandone comunque l'autonomo pensiero stilistico, fino a ricercare una linea comune che rispetti lo spirito e il pensiero compositivo dell'autore. Se si vuole far apprezzare davvero al pubblico la musica che si andrà a eseguire, occorre raggiungere una perfetta identità di intenzioni: lo stesso fraseggio, le stesse dinamiche, gli stessi tempi, supportati dal rispetto delle indicazioni dell'autore (quando ci sono).Con i miei partner (che sono stati molti negli anni) ho avuto sempre uno scambio paritario e costruttivo, che ha portato a idee nuove, condivise con umiltà e consapevolezza nell'interesse della musica. Il rapporto con il partner artistico è particolare: occorre lavorare molto e a lungo per raggiungere l'equilibrio, la perfetta simbiosi. Quando si fa musica insieme, bisogna provare gioia, ci si deve divertire, ed è quasi necessario avere un carattere conciliante, perché spesso le tournée sono lunghe e faticose. Si può correre il rischio di annoiarsi, di avere momenti d'impazienza… Ma a me non e mai successo, anzi!Il pianista Tullio Macoggi, con il quale ho fatto musica per molto tempo, era il personaggio più divertente che mi sia capitato di incontrare. Sembrava fatto apposta per renderti la vita lieve, varia, piacevole. Tullio era allegro, un attore comico, un miscuglio di Totò, Sordi e De Sica. Il primo incontro con lui avvenne alla stazione Centrale di Milano. Non lo conoscevo, non lo avevo mai visto, ma mi dissero che lo avrei individuato subito, perché era un tipo molto originale, che si faceva notare. Vidi scendere dal treno un passeggero arzillo, saltellante, con uno zaino sulle spalle e l'aria svagata. Gli chiesi se fosse il maestro Macoggi, e lui mi rispose: ≪«Per l'appunto»≫, stringendomi calorosamente la mano. Facemmo in macchina il tragitto tra Milano e Busto, parlando poco ma studiandoci molto; ero curioso di sentirlo suonare, aveva ottime referenze. Arrivati a casa mia, ci mettemmo subito al lavoro, iniziando dal primo tempo della Sonata a Kreutzer. Mi resi conto subito che Tullio era un pianista di classe, un eccellente musicista. Al termine del primo movimento esclamai: ≪«Bravo, maestro!».≫ Lui si alzò di scatto, si mise a sedere per terra piangendo! Iniziammo una collaborazione che si protrasse per diversi anni (da quando ne avevo 17 a quando ne compii 25): fu ricca di successi e di soddisfazioni artistiche. Viaggiare con lui era divertente: Tullio era una fonte inesauribile di trovate imprevedibili e di situazioni comiche. Una volta, per esempio, mancò la luce in sala nel bel mezzo di un concerto: io conoscevo il brano a memoria e, nonostante il buio pesto, continuai a suonare. Lui si fermo per un istante, tirò fuori dalla tasca della giacca, come da un cilindro, una piccola torcia elettrica, se la mise in bocca illuminando la tastiera e riprese a suonare. Un mago!Tullio aveva una piccola utilitaria, una Bianchina di cui andava molto fiero: sosteneva di averci percorso 500.000 chilometri senza mai ripassare il motore, e diceva che reggeva il minimo dei giri senza problemi. Per dimostrarlo scendeva dalla vettura in moto con la marcia innestata, reggeva con una mano il volante e camminava sulla strada a fianco della Bianchina, tra gli sguardi stupiti e preoccupati dei pedoni e degli automobilisti. Era un folletto sempre in vena di scherzi. Al termine di una tournée in Africa, di cui riparlerò più avanti, ci concedemmo un safari fotografico nel Kruger National Park. In piena savana, disturbò un rinoceronte che pascolava tranquillo: l'animale ci puntò all'istante. Fuggimmo a gambe levate e saltammo sulla jeep in moto, tra gli insulti delle guide inferocite più del rinoceronte.Un altro personaggio particolare è Martha Argerich, strepitosa pianista argentina che ha studiato con Vincenzo Scaramuzza e con Arturo Benedetti Michelangeli. Geniale, estrosa, bellissima, avvincente. La conobbi quando studiavo a Ginevra con Corrado Romano: aveva una bella casa su due livelli, e mi ospitava se dovevamo studiare insieme per preparare i concerti. Martha aveva bioritmi particolari, che per lei erano normalissimi: dormiva di giorno e lavorava di notte. Però, erano diametralmente opposti ai miei, scanditi dall'alternanza della luce con il buio. Le prove, quindi, iniziavano all'una di notte e continuavano fino alle sei di mattina: Martha andava a dormire, mentre io, che non riuscivo a recuperare il sonno, rimanevo a ciondolare. Dopo qualche giorno ero distrutto, mi sentivo uno zombie, invocavo pace e riposo. Ma non c'era niente da fare: dovevo accettare Martha con le sue stramberie o fuggire da lei. Facevamo molti concerti insieme e in alcune occasioni venivano fuori altre manie. Per esempio, una volta dovevamo andare a Bari, per suonare al teatro Petruzzelli. Avevamo fatto prove a dir poco stressanti per una settimana. Il giorno precedente il concerto Martha mi disse con molta tranquillità che era meglio non partire, che non se la sentiva e che dovevamo annullare l'impegno con Bari. Io rimasi basito, le risposi che era impossibile disdire: il teatro era già tutto esaurito, i biglietti venduti da tempo… Insomma, avremmo dovuto pagare una penale mostruosa. Niente da fare, Martha era irremovibile. Chiesi aiuto al suo compagno dell'epoca, il pianista Alexandre Rabinovič, che aveva un certo ascendente su di lei. La trattativa fra i due e gli argomenti toccati dovettero essere pesanti e spiacevoli, a giudicare dalle urla e dal rumore di porte sbattute e piatti rotti che provenivano dal piano superiore. Però, al termine della contesa, Rabinovič mi assicuro che Martha sarebbe partita con me per Bari.In taxi, mentre eravamo diretti all'aeroporto, Martha, glaciale, non proferiva verbo. Durante il check-in sparì improvvisamente. Temetti il peggio, ma all'imbarco un'ombra scivolo accanto a me: era Martha. Allora mi confidò, come se nulla fosse successo, che per lei l'idea del viaggio era una fonte di sofferenza; ma che, una volta partita, non sarebbe mai più tornata indietro, non si sarebbe fermata. A Bari fummo accolti con affetto. Dopo cena, in albergo, ci demmo appuntamento in teatro per la mattina successiva, alle dieci, per provare. Io arrivai in teatro puntuale, ma di Martha non c'era traccia. Telefonai in albergo chiedendo di lei: il portiere mi avvertì che la signora aveva parlato al telefono per tutta la notte, che stava dormendo e che non voleva essere disturbata. La sera, il concerto fu un trionfo. E io che cercavo di farle prendere un ritmo di vita diverso! Ricordo un altro episodio simile. Eravamo stati invitati a suonare al teatro La Fenice di Venezia. Dovevamo solo indicare il programma e la data del concerto. Martha era in procinto di recarsi in Brasile e mi pregò di chiamarla al telefono all'albergo di San Paolo per metterci d'accordo. Dopo pochi giorni le telefonai. Mi rispose una voce di donna che mi avvertiva: «≪La signora sta dormendo, riprovi più tardi»≫. Dopo qualche ora ritentai, ottenendo una risposta simile: «≪La signora sta dormendo, non posso disturbare»≫. Insistetti il giorno successivo, anche in orari diversi, lasciando il mio nome. Ma la risposta era sempre la stessa. Immaginando Martha in altre faccende affaccendata, smisi di cercarla. Annullai il concerto a Venezia e, dopo qualche mese, la rividi a Ginevra. Le chiesi se fosse stata avvertita delle mie telefonate, e le domandai chi fosse quel cerbero che non osava svegliarla. Martha, con un candore angelico, mi rispose: ≪«Ma ero io!»≫.
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